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    Dante e l’Islam

    Quasi un secolo fa, nel 1919, usciva il libro La escatología musulmana en la Divina Comedia di Miguel Asín Palacios che fece molto scalpore e che in Italia fu accolto da una dantista autorevolissima, Maria Corti, la quale arrivò a titolare un articolo sul Corriere della Sera «Dante. Il sommo poeta partorito dall’Islam».

     Un versetto del Corano, il primo della sura XVII, recita: «Lode a colui il quale trasportò il suo servo [Maometto], di notte, dal tempio sacro [della Mecca] al tempio più remoto [di Gerusalemme], del quale benedicemmo il recinto, per mostrare a lui alcuni dei nostri segni». Da queste poche parole, nacque – scrive Palacios – «una ricchissima fioritura di leggende più o meno fantastiche con svariatissimi epi­sodi e scene pittoresche in numero quasi infinito».[i] Queste leggende ruotano intorno a due storie: una è quella del viaggio notturno del profeta dalla Mecca a Gerusalemme, la seconda parla della sua ascensione attraverso i cieli fino al trono di Dio.

    Certamente Dante conosceva l’Islam, ed è più che probabile che conoscesse la storia del viaggio di Maometto nell’aldilà, tramite (come sostiene Maria Corti) il Libro della Scala, che fu fatto tradurre in castigliano poco prima del 1264 da re Alfonso X di Castiglia. Versione perduta, ma dalla quale Bonaventura da Siena trasse due versioni: in latino (Liber Scalae) e in antico francese, che sono giunte a noi e che è assai probabile Dante conoscesse.

    Ha preso ispirazione da lì? Perché no? Ma non solo da lì.  Dante si è abbeverato a tutte le numerose fonti della cultura del suo tempo: anche a scritti islamici, ma soprattutto ai Vangeli e alla Bibbia, ai Padri della Chiesa, a Virgilio e alla letteratura classica con la sua mitologia. Quindi sostenere – come fa Palacios – che le leggende musulmane sono «il prototipo palese e indiscutibile» dell’architettura dell’aldilà dantesco è a dir poco eccessivo. Anche perché, al di là dei paralleli, vi sono delle differenze, e sono differenze significative, sostanziali.

    Per quanto riguarda il rapporto tra Dante e l’Islam vi sono altri aspetti che meritano di essere presi in considerazione, aspetti cui Palacios accenna nel suo libro, anche se, devo dire, molto superficialmente. Uno di questi «altri aspetti» è la presenza di personaggi islamici nella Commedia. Due sono le situazioni che analizzerò:

    1. la presenza di Averroè, di Avicenna e del Saladino nel Limbo;

    2. la presenza di Maometto e di suo cugino Alì nell’Inferno.

    Il Limbo non c’è più. I testi sacri non lo menzionano mai, ma ne parlava il catechismo. Nel nuovo catechismo (del 1992) la parola «limbo» non compare: alla chetichella era stato tolto dal catechismo. Solo il 20 aprile 2007, dopo discussioni a non finire, è stato pubblicato il documento ufficiale con cui viene abolito.

    Il Limbo era duplice: il più noto è quello per i bambini morti prima di ricevere il battesimo (quindi con il peccato originale e di conseguenza l’impossibilità di accedere al Paradiso); l’altro era il cosiddetto Limbo dei Padri, o dei Patriarchi, in cui c’erano i patriarchi dell’Antico Testamento (Abramo, Noè, Mosè, ecc) che attendevano il Messia e che furono portati da Cristo in Paradiso quando (come recita il Credo) scese in Inferno tra la morte e la resurrezione, lasciando quel Limbo vuoto. Solo degli ebrei abitavano quel Limbo, perché solo loro attendevano il Messia. Questa liberazione dei patriarchi e degli ebrei virtuosi, liberazione di cui non parlano le Scritture, divenne dogma nel 1215. Secondo la Chiesa, quindi, dopo Cristo l’unico Limbo esistente era quello dei bambini.

    Mi sono sempre meravigliata di come il Limbo dantesco sia sempre stato accettato acriticamente (e ancora lo sia), senza vedere la sua assoluta incompatibilità con gli insegnamenti della Chiesa. Dante infatti vi colloca poeti latini, filosofi greci, eroi troiani. Già questo risulta assurdo. Comunque tutti questi poeti e filosofi vissero  prima di Cristo. Ma la cosa ancora più inconcepibile è metterci personaggi che vissero dopo Cristo e non erano cristiani. E non solo non erano cristiani, ma erano addirittura  musulmani, come appunto il Saladino: il nemico numero uno contro cui all’epoca si facevano le crociate!

    Più avanti – sempre nel Limbo – Dante incontra, insieme ai filosofi greci, Avicenna e Averroè, entrambi notoriamente musulmani. 

    E non è tutto: dell’opera di Averroè su Aristotele Dante dice che è un gran comento,[2] affermazione coraggiosissima, perché da quel commento nacque il cosiddetto averroismo cristiano, osteggiato aspramente soprattutto da Tommaso d’Aquino. L’esponente più rilevante di questo averroismo cristiano era Sigieri di Brabante, che Dante mette in Paradiso nonostante fosse considerato eretico.

    Noncuranti di queste circostanze, per secoli i commentatori hanno sostenuto che la Divina Commedia è il pensiero di Tommaso d’Aquino (ovvero la dottrina cattolica super-ortodossa) messa in versi. Poi negli anni ’40 un dantista teologo (Bruno Nardi) che era prete (anche se poi ha abbandonato il sacerdozio), pur trovando echi di Tommaso in Dante,  ha mostrato come il suo pensiero sia, su questioni sostanziali, diverso e come molte cose siano decisamente neoplatoniche o averroiste.

    Averroista è soprattutto l’essenza della Divina Commedia, dato che per Tommaso d’Aquino (nonché per tutta la teologia cattolica fino ad oggi) non è possibile «vedere» Dio se non dopo la morte, mentre per Averroè e gli averroisti è possibile arrivare a «vedere» Dio prima della morte.

    Ora, leggendo la Divina Commedia, si evince inequivocabilmente che Dante arriva a vedere Dio da vivo, ovvero prima della morte. Questo insegnamento è l’essenza della Divina Commedia, il suo significato più vero, più grande, più profondo: si può arrivare a incontrare Dio, a vedere Dio da vivi! Messaggio splendido, meraviglioso, ma è quello che dicevano Averroè e gli averroisti. Non Tommaso, non la Chiesa.

    E ora parliamo del tema più scabroso: la presenza di Maometto nell’Inferno. La cosa ha provocato una serie di proteste soprattutto in tempi recenti. Qualche anno fa correva voce che i terroristi islamici stesseropreparando un attentato contro la basilica di San Petronio a Bologna, dove in un affresco è raffigurato, all’interno dell’Inferno dantesco, proprio Maometto, nudo, col nome «Machomet» scritto sotto. Allora ci fu chi proponeva di cancellare almeno il nome, chi di cancellare l’intera figura. I critici d’arte hanno protestato: l’affresco non si tocca! E infatti non è stato toccato.

    Ogni tanto, anche recentemente, qualcuno propone di bandire l’intera Divina Commedia  dalle scuole perché non è politically correct: offende ebrei e musulmani, è razzista, è omofoba, ecc.

    Comunque sia, l’aver messo Maometto in Inferno crea perplessità… oggi. All’epoca, infatti, era ovvio che Maometto stesse in Inferno. E dove doveva stare? Era il Saladino nel Limbo a essere «anormale», non Maometto in Inferno!

    Oggi la presenza di Maometto in Inferno crea disagio. E così succede che, per esempio, lo studioso arabo Fuad Kabazi ipotizzi che non sia statoDante a mettere Maometto nell’Inferno, bensì suo figlio Pietro a manomettere il testo originale.[3] Secondo Kabazi, al posto di Maometto Dante aveva previsto Gherardo Segarelli per via del messaggio che Maometto chiede di portare a Fra Dolcino, seguace di Segarelli.

    Questo succede a chi ama Dante e ama anche l’Islam e per di più è convinto che anche Dante amasse l’Islam. La stessa cosa posso dire di me che ho letto il Corano decenni fa e l’ho trovato di una bellezza e di una profondità e umanità straordinarie. Per non dire del mio amore per Rumi. Infatti anch’io ho elaborato un’ipotesi nel tentativo di salvare Dante dall’accusa di essere un nemico dell’Islam.

    L’Inferno dantesco è immaginato come un immenso cono sotterraneo che arriva fino al centro della terra. I peccati diventano sempre più graviman mano che si scende. Maometto si trova nell’ottavo e penultimo cerchio (quello delle famoseMalebolge), nella nona bolgia, quella dei cosiddetti «seminatori di discordia», ovvero coloro che hanno prodotto delle separazioni, delle scissioni. All’epoca si riteneva, infatti, che l’Islam fosse nato come scisma dalla religione cristiana.

    La pena è costituita da ferite che vengono inferte dai diavoli ripetutamente, ad ogni giro, datoche si richiudono man mano che il dannato compie il giro.

    «Vedi come storpiato è Maometto!»[4] dice l’anima che Dante incontra, mostrando l’enorme taglio verticale lungo tutto il torso. Più avanti, quando apprende che Dante è ancora vivo e quindi tornerà sulla terra, gli chiede di raccomandare a Fra Dolcino di «armarsi» di vivanda, ovvero di provvedere a copiose scorte alimentari in modo che la stretta di neve, cioè il blocco delle vie provocato dalla neve non dia la vittoria al Noarese (cioè al vescovo di Novara).[5] Vittoria che invece il Noarese ottenne proprio per le ragioni qui addotte. Fra Dolcino con i suoi si era rifugiato nelle montagne del Biellese, ma un inverno rigidissimo e con molta neve li costrinse, stremati dalla fame, ad arrendersi.  Questo avvenne nel marzo 1307.  Tutti i commenti sottolineano con meraviglia «la precisa conoscenza che Dante aveva dei fatti più importanti del suo tempo, fin nei dettagli militari»[6] e nessunonota invece un fatto molto più significativo, e cioè che Dantemette in bocca a Maometto queste parole «profetiche», attestando perciòsostanzialmente  la sua figura di Profeta!

    È molto più filo-islamico sostenere che sia Maometto a parlare piuttosto che inventarsi, credendo di difendere così l’Islam, che a parlare sia Gherardo Segarelli. Presentare Maometto come Profeta è il significato dell’altrimenti inspiegabile coinvolgimento di Fra Dolcino! E, a scanso di equivoci, affinché non si pensi che sia qualcun altro ad aver fatto questa profezia, Dante ribadisce subito dopo: Maometto mi disse esta parola.[7]

    E c’è di più. Nel 1928 il prof. Luigi Valli pubblicò Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore. I «Fedeli d’Amore» erano i poeti del cosiddetto Dolce Stil Novo. Luigi Valli ha analizzato tutte le loro poesie e ha scoperto che usavano un linguaggio segreto. Tra le tante parole che Valli ha decodificato c’è anche «pietra», che significava nelle loro poesie la Chiesa di Pietro (cioè la Chiesa di Roma), la Chiesa che «impietra» come la Medusa.[8]

    Ora Malebolge, il cerchio in cui si trova Maometto, viene introdotto con queste parole:

    Luogo è in inferno detto Malebolge,

    tutto di pietra di color ferrigno [9]

    Malebolge è un luogo di «pietra». Quindi rappresenta la Chiesa. A confermarlo ci sono altre piccole cose: per esempio, la basilica di San Pietro viene nominata due sole volte in tutta la Commedia: entrambe in Inferno, entrambe in Malebolge.

    E non è tutto: Dante dà due sole volte nel poema l’indicazione di una misura precisa, espressa in miglia. Entrambe riguardano Malebolge: della penultima bolgia, che, guarda caso, è proprio quella in cui c’è Maometto, dice che miglia ventidue la valle volge,[10] e della successiva ch’ella volge undici miglia.[11]Secondo i critici Dante voleva dire solamente che le bolge diventano più strette man mano che si scende e se dà delle dimensioni esatte è solo, affermano, «per un preciso senso di realismo descrittivo».[12] No! La misura di «ventidue miglia» (quella della bolgia in cui c’è Maometto) ha un valore particolare, di cui i critici si guardano bene di parlare: ventidue miglia era, allora, la lunghezza delle mura della città di Roma, ovvero della sede della Chiesa. Lo riportano i documenti ufficiali dell’epoca, nei quali del «murus civitatis Romae» è detto: «In circuitu vero sunt miliaria XXII». Documenti che evidentemente Dante conosceva: evidentemente, perché altrimenti non avrebbe dato proprio questa misura e proprio qui.

    A questo punto chi mai saranno i neri cherubini,[13] come Dante chiama i diavoliche governano Malebolge? Sono gli uomini della Chiesa. Sono loro che «storpiano» Maometto.

    Questo potrebbe essere inteso in modi diversi. Potrebbe voler dire: «vedi come la Chiesa storpia il mio messaggio», ma, tenendo conto dell’allusione che Maometto fa a Fra Dolcino, credo che voglia dire un’altra cosa. Maometto dice: «Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi (di vivanda)… s’ello non vuol qui tosto seguitarmi». Quest’ultimo verso viene in genere inteso: se non vuole finire anche lui nella bolgia degli scismatici. Il fatto è che così non ha molto senso, perché Dolcino sarebbe finito nella bolgia degli scismatici a maggior ragione se avesse vinto, non se avesse perso. È assai più ragionevole, logico e sensato pensare che volesse dire: «se non vuole finire anche lui fatto a pezzi a suon di spada dagli uomini della Chiesa, come lo sono io».

    Maometto e Alì non sono però stati uccisi dagli uomini della Chiesa. Pertanto penso che Maometto e Alì rappresentino non tanto le loro personali vite bensì l’Islam, i musulmani tutti che da un paio di secoli (al momento in cui Dante scriveva) venivano feriti (e uccisi) con la spada dagli uomini della Chiesa (i crociati) e ad ogni crociata (quando Dante scriveva ce n’erano già state nove) si ripeteva la stessa cosa, proprio come i diavoli fanno qui a Maometto e ad Alì ad ogni giro di bolgia. È una raffigurazione del reale, di quello che stava davvero succedendo, come peraltro quasi sempre in Dante. Certo è una rappresentazione cruda, brutale. Ma non erano forse crude e brutali le carneficine dei crociati?

    Dietro l’immaginata solidarietà di Maometto nei confronti di Fra Dolcino vi è la solidarietà reale e sofferta di Dante nei confronti degli islamici trucidati dai crociati, perché Dante era, come spero di aver dimostrato, un amico, un vero amico dell’Islam, dell’Islam come filosofia e degli islamici come persone. E lo era in tempi in cui era non solo scomodo, ma anchepericoloso esserlo.

    E qui vorrei fare un’ultima, breve considerazione: da dove derivava questa apertura all’Islam da parte di Dante? Derivava – è la tesi che sostengo nei miei libri – dal fatto di aderire al catarismo, a quel cristianesimo aperto e tollerante che era assai diffuso in quei tempi, e che era assolutamente nonviolento e intratteneva rapporti di intenso e amichevole scambio culturale e di dialogo con ebrei e musulmani.

    Io sono convinta che Dante abbia scritto la Divina Commedia spinto dall’urgenza di trasmettere (inevitabilmente «nascosto sotto il velame») il messaggio di amore e libertà, di solidarietà e tolleranza che era peculiare del catarismo, ovvero di quel mondo di idee e di valori che stava per essere cancellato, e di cui faceva parteanche il rispetto e il sincero apprezzamento per una grande religione quale è l’Islam.


    [1] Miguel Asín Palacios, La escatología musulmana en la Divina Comedia, Pratiche Editrice, Parma 1994, p. 15.
    [2] Inferno IV, 144.
    [3] Cfr. 30Giorni, marzo 1996.
    [4] Inferno XXVIII, 31.
    [5] Cfr. Inferno XXVIII, 55-60.
    [6] Dante Alighieri, Commedia, con il commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Mondadori, Milano 1991-1997, Vol. I, p. 841.
    [7] Inferno XXVIII, 62.
    [8] Cfr. Luigi Valli, Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore, Luni Editrice, Milano 1994, pp. 232-234.
    [9] Inferno XVIII, 1-2.
    [10] Inferno XXIX, 9.
    [11] Inferno XXX, 86.
    [12] Dante Alighieri, La Divina Commedia, con pagine critiche a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, Le Monnier, Firenze 1988, Vol. I, p. 428.
    [13] Inferno XXVII, 113.

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