Cantieri dell’anima /6
Fabio Gabrielli
(NPG 08-08-28)
L’ANIMA MEDITANTE
Viviamo in un’epoca di lacerante precarietà, il cui tratto distintivo è l’imponderabile, e dove il futuro appare sempre più come evento minaccioso piuttosto che progetto di speranza. Il diffuso senso di impotenza, di smarrimento etico ed esistenziale, a seguito del progressivo de-centramento dei valori, stride profondamente con l’imperativo della tecnica, secondo il quale tutti i pensabili sono possibili.
Il nostro stare al mondo è oggi più che mai caratterizzato dallo sconfinamento, dal gioco non solo simbolico ma anche biografico con l’illimitato, dalla radicalizzazione/assolutizzazione della tensione progettuale, dall’eccesso, dalla voracità con cui sono consumate le occasioni della vita in un continuo rimescolamento di progetti esistenziali, sovente senza un’autentica direzione di marcia, senza un centro informatore, dove la noia, l’insoddisfazione, la frustrazione ci abitano come profonde lacerazioni dell’anima, poiché la volontà di potenza tecnologica ci vuole tutti efficienti e produttivi, senza alcun limite e, quindi, senza una terra stabile in cui dimorare sereni.
Risk taking e angoscia
Queste tematiche sono state messe a fuoco con straordinaria lucidità da Miguel Benasayag, filosofo e psicanalista, e Gérard Schmit, psichiatra, specializzato in problematiche adolescenziali:
«Una società che rende pensabili tutti i possibili è condannata a scomparire. E una società che estende costantemente, alla cieca, il campo del possibile affonda inevitabilmente in un mondo in cui più niente è reale, un mondo del virtuale assoluto, ovvero dell’impotenza totale. (Ricordiamo per inciso che, a livello dell’individuo, il posso tutto è uno dei nomi della psicosi.)» (L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2004).
In questo contesto è davvero arduo insistere sul valore della scelta come responsabilità, impegno, faticosa conquista di spazi di vita autentici, consapevolezza della nostra finitudine, capacità di coesistere con le altre scelte, arginando la propria espansione d’essere, il proprio delirio narcisistico.
A questo, tuttavia, è chiamato l’educatore, con tutte le sue energie intellettive, morali e spirituali: a far maturare gradualmente le opzioni di fondo dei giovani, ad accettare il confronto anche conflittuale con lo spazio-mondo, senza giocare simbolicamente e carnalmente con il limite, senza ricercare il brivido fine a se stesso nell’esasperato spostamento del confine del rischio, nella disperata e disperante ricerca della sfida estrema, che nulla ha a che vedere con il coraggio di scegliere e la fortezza che deve sostenere le scelte fatte.
Il rischio esasperato o la sfida estrema germinano da un essiccarsi delle radici emotive, da un inabissarsi dei sentimenti vitali fino a toccare il fondo opaco dell’indifferenza, della noia non più vissuta come dato strutturale del nostro vivere contingente, come coesistenza anche con la gioia, bensì come insostenibile morsa d’acciaio che imprigiona ogni energia progettante, che rende il mondo un tutto indistinto, plumbeo, arido, inospitale.
Da qui la confusione tra «sensation seeking» (ricerca delle sensazioni) e «risk taking» (prendersi il rischio), ovvero tra la ricerca di sensazioni forti, intense, estreme, variegate, capaci di dare vertigine, dove si mette in gioco la propria sopravvivenza, e l’assunzione di rischi, strutturale al vivere e momento necessario per l’evoluzione autentica della propria personalità.
Il «prendersi il rischio» va inteso come un intreccio di processi psicosociali, biologici, cognitivi, psichici, particolarmente intensi nella fase adolescenziale, e si alimenta di un’ambivalenza di fondo descrivibile nei termini della forza costruttiva (dallo sport all’arte, solo per fare alcuni esempi) o distruttiva (droghe, bullismo, promiscuità sessuale…).
Per l’adolescente il «risk taking» costituisce, ad ogni modo, una modalità solitamente normale e positiva per il proprio sviluppo, facilitando, di conseguenza, la crescita personale e la capacità del giovane di farsi conoscere in modo più profondo dagli altri.
La sfida adolescenziale diventa, allora, autentica, quando è declinata nei termini del «risk taking» positivo, quando emozioni, sentimenti, pulsioni, energie vitali sono incanalate in esperienze di crescita e di benessere, in aperture sul mondo che conservino l’adolescente nella salute del corpo e dell’anima e lo rendano cosciente, nel contempo, della finitudine che attraversa ogni sua sfida , ogni suo progetto, al quale dedicarsi, comunque, con impegno, responsabilità e secondo l’etica del riconoscimento dell’altro.
E poiché la scelta è sempre dialetticamente legata all’angoscia, occorre anche che i giovani diventino discepoli di questa stessa angoscia, ne frequentino con consapevolezza la scuola.
Esplorare l’angoscia significa confrontarsi con il senso stesso della vita, intesa come luogo nel quale l’uomo si muove come essere progettante, ma anche minacciato dal nulla, là ove i suoi disegni esistenziali non trovano compimento.
Come ricorda Kierkegaard, l’angoscia riguarda il rapporto dell’uomo con il mondo ed è inscritta nel suo stesso vivere, a differenza della disperazione che si configura come il rapporto dell’uomo con se stesso. L’angoscia si delinea come «sentimento del puro possibile», come una sorta di vertigine di fronte alle innumerevoli possibilità che la vita ci mette di fronte e fra le quali siamo costretti a scegliere, senza sapere se abbiamo fatto la scelta giusta. L’angoscia, dunque, si carica di infinite possibilità che non, rispetto alla possibilità che si potrebbe realizzare, alla sfida che potrebbe prendere corpo e realizzarci compiutamente come uomini.
L’angoscia è cosa umana, troppo umana: infatti non riguarda gli angeli, bensì, come le chiama Gebsattel, le «figure del nulla», cioè le diverse modalità di darsi dell’esistenza nelle nostre singole, storiche biografie, sulle quali incombe il divenire, con la connessa vertigine della possibilità, dell’attesa, di quell’intervallo di tempo, sospeso sugli abissi del nulla, che intercorre tra la scelta e la sua storicizzazione, il suo radicarsi o meno nella riuscita.
L’oppressione delle scelte
Ma leggiamo una eloquente pagina di Kierkegaard , tratta da Il concetto dell’angoscia, che descrive in modo mirabile quanto stiamo dicendo:
«L’angoscia si può paragonare alla vertigine. Chi volge gli occhi al fondo di un abisso, è preso dalla vertigine. Ma la causa non è meno nel suo occhio che nell’abisso: perché deve guardarsi. Così l’angoscia è la vertigine della libertà, che sorge mentre lo spirito sta per porre la sintesi e la libertà, guardando giù nella sua propria possibilità, afferra il finito per fermarsi in esso. In questa vertigine la libertà cade».
E ancora, con immagini di straordinaria intensità e forza psicologica:
«E nessun grande inquisitore tiene torture così terribili come l’angoscia; nessuna spia sa attaccare con tanta astuzia la persona sospetta, proprio nel momento in cui è più debole, né sa preparare così bene i lacci per accalappiarla come sa l’angoscia; nessun giudice, per sottile che sia, sa esaminare così a fondo l’accusato come l’angoscia che non se lo lascia mai sfuggire, né nel divertimento, né nel chiasso, né sotto il lavoro, né di giorno, né di notte».
L’angoscia rivela già nel suo etimo – si pensi al latino angustia, angere, o al greco ankho, tutti termini che indicano lo «stringere», l’«opprimere», il «soffocare», l’«affliggersi» – un modo di stare al mondo declinabile nei termini dello sbigottimento prevalentemente doloroso, una strutturale inquietudine che si alimenta della spasmodica attesa che intercorre tra la scelta fatta e la sua futura, possibile realizzazione: l’angoscia, infatti, riguarda il futuro (ma anche il passato, tanto in quanto potrebbe ripresentarsi in un ipotetico futuro).
Angoscia, dunque, come angustia, cioè «strettezza», soffocamento o morsa esistenziale, sfibrante esercizio sulla propria anima per accettare con pazienza e un certo distacco la dilazione, in un’implacabile corrispondenza tra anima e corpo.
Pensiamo, infatti, quando proviamo sentimenti angosciosi, alle reazioni del nostro corpo, alle «spie» biologiche: il cuore batte all’impazzata, il respiro si fa affannoso, il corpo, madido di sudore, avverte il mondo come qualcosa di ostile; da qui il terrore di perdere il controllo. È l’angoscia nella sua fase più crudele: l’attacco di panico. Sperduti nel frastuono indifferente della città, ci salva, magari, qualche misericordiosa viuzza nascosta – defilata rispetto alla piazza –, che ci sottrae allo sguardo perplesso o morbosamente curioso degli altri.
Ma anche nella sua fase meno acuta, l’angoscia ci pervade come sentimento forte, duro, sfibrante. In pratica, noi siamo esseri progettanti, ma questi progetti rimangono sul piano della pura possibilità: intanto perché si devono realizzare, e poi perché siamo costretti a scegliere tra innumerevoli alternative, a maggior ragione in una società come la nostra che muta ad una velocità disorientante per le nostre autentiche possibilità percettive.
La scelta inchioda, sbigottisce e, appunto, provoca carichi ansiogeni non sempre controllabili. Si pensi ad un’espressione tanto usuale, quanto decisiva sul piano esistenziale: «Speriamo di aver fatto la scelta giusta!». Non solo in ambito lavorativo, ma anche, e soprattutto, in quello degli affetti.
L’angoscia, allora, si ciba dell’attesa, ti divora l’anima, ti svuota di energie vitali, fino a quando i tuoi progetti, cioè i tuoi «possibili», non trovano un riscontro reale positivo.
Certo, siamo liberi di scegliere, ma la libertà dà vertigine, perché per una possibilità positiva ci sono infinite possibilità negative.
Un concetto, questo, mirabilmente espresso dal filosofo francese Jean Grenier, il quale paragona l’angoscia a quel viaggiatore, che, privo di qualsiasi legame affettivo o lavorativo, entra in una stazione e, nonostante abbia la possibilità di acquistare il biglietto per qualsiasi destinazione, è preso da una terribile angoscia, tante sono le possibili destinazioni. Purtroppo deve sceglierne una! Ma quale? E quando ne avrà un riscontro?
Ogni nostro progetto, ogni nostro desiderio o aspirazione soffre nell’attesa e nella dilazione. Da qui lo spasmodico attendere il futuro, che, tuttavia, deve essere frenato, incanalato nella paziente progettualità del presente.
L’ammonimento di Seneca a Lucilio conserva ancora tutta la sua forza, soprattutto per gli uomini del nostro tempo, spesso autentici «vampiri» del presente: «Sarai meno schiavo del domani, se ti sarai reso padrone dell’oggi» (Lettere a Lucilio, 1). L’impressionante accelerazione che le moderne tecnologie hanno impresso alla nostra vita fa sì che viviamo il presente solo come un traballante ponte di canne di bambù, sospeso tra un passato inteso come memoria nostalgica o dolorosa e, in particolare, un futuro consumato ancor prima che si compia. Il presente costituisce veramente il centro temporale della nostra esistenza: in esso, infatti, noi disegniamo le nostre scelte, fabbrichiamo i nostri progetti, viviamo i nostri amori. Occorre attendere pazientemente che maturino, e per questo vanno coltivati senza fretta, senza eccessiva ansia. L’uomo contemporaneo deve riguadagnare in ampiezza e profondità la lentezza, proprio perché le cose acquisiscono valore solo prolungandone il gusto. Ci sono, invece, persone che finalizzano la loro esistenza solo al domani, perennemente dimentiche dell’oggi, vissuto solo come fastidioso o doloroso luogo della dilazione, dell’attesa che un loro progetto si realizzi.
Vivere il presente – non inteso come appagamento edonistico o estetico – è frutto di una decisione: come affermava Jaspers, è un decidere di noi stessi; un assumersi delle responsabilità, un sapersi aprire al nostro tempo interiore e riconoscerne il significato di fondo.
Essere responsabili verso il presente significa, allora, saper vivere l’attesa della realizzazione di un nostro progetto, rispettare il naturale ciclo del tempo, non forzarlo nei suoi ritmi. Non vive in modo autentico, infatti, chi si angoscia oltre misura per il futuro, ma chi lo rende fraterno al presente, dove è possibile parlare anche di felicità, a patto che la si intenda, molto umanamente, come un balenare degli dèi, un battere di palpebre, un frammento in cui, però, è inscritta la promessa, almeno nella nostra prospettiva trascendente, di una vita senza fine.
Educhiamo, dunque, i giovani ad una riflessione sull’angoscia, come, forse, solo la filosofia sa fare, e ci accorgeremmo che il pensiero filosofico, ancora una volta, non cerca di risparmiare agli altri la fatica di pensare, bensì stimola a pensare in modo autonomo, critico.
Frequentare la scuola dell’angoscia, meditarne la portata concettuale e storica costituisce una via privilegiata attraverso la quale i nostri giovani possono imparare a vivere con consapevolezza il silenzio interiore che intercorre tra la scelta e la sua eventuale realizzazione, ad aprire spazi dell’anima in cui ospitare la pazienza, la dilazione dei desideri, in cui riconoscere la possibilità, cuore dell’angoscia, come segno inequivocabile della nostra finitezza. In questo senso, conoscere l’angoscia significa anche sapere fronteggiare il narcisismo giovanile e maturare sguardi verginali sul mondo, non più intaccati da alcuna malattia omologante.
IL PENSATOIO
– Provate a confrontarvi con i vostri ragazzi sulla base di questa scheda:
Giovani decentrati
Il giornalista Riccardo Spagnolo, sul quotidiano «Avvenire» del 22 aprile 2004 – facendo riferimento soprattutto ai seguenti film: Ricordati di me (2003), L’ultimo bacio (2001), Come te nessuno mai (1999) Ecco fatto (1998) di Gabriele Mucino; Caterina va in città (2003), My name is Tanino (2002); Ovosodo (1997) di Paolo Virzì; Ora o mai più (2003) di Lucio Pellegrini; Liberi (2003) di Gianluca M. Lavarelli – afferma che i giovani d’oggi sono privi di un centro, di una voce capace di dare pienezza di senso al loro stare al mondo. Rimane sullo sfondo, forse, solo l’amore nelle sue impennate emotive, nei suoi slanci vitali, anche se idealizzato e non sempre corrispondente ai reali vissuti dei giovani d’oggi.
Ecco le sue precise parole: «Poca chiarezza negli obiettivi, dunque. Eppure molte aspirazioni, nutrite di un idealismo un po’ ingenuo e retorico oppure di una rincorsa al successo secondo i canoni dettati dalla società dell’immagine, come nel caso di Valentina, l’aspirante velina di Ricordati di me. I ragazzi di questi film non sembrano dunque fare e pensare nulla di davvero originale; si disperano per l’esame di maturità, viaggiano da soli, pensano a cosa li aspetta e intanto vivono quello che già hanno, e ne vogliono sempre di più. Senza sapere davvero cosa stanno vivendo, in realtà. Perché tutta la loro preoccupazione di sapere e capire cosa sarà di loro li mette in una falsa prospettiva, che è quella del desiderio e dell’ideale per sentito dire. Come Matteo, il protagonista di Che ne sarà di noi, guardano lontano e non vedono niente, pur sapendo che qualcosa ci sarà, che da qualche parte arriveranno. Tutto il resto sono mode, capelli, vestiti, gergo […]. Non mancano i temi consolidati. La famiglia, per esempio, con i genitori che, per come sono descritti, sono spesso più immaturi e irrisolti dei propri figli adolescenti. E dunque si può anche capire perché tocchi ai figli, in questi film, pronunciare i discorsi tutto sommato più sensati e formulare gli ideali di vita più ottimisti e relativamente elevati. E poi il sesso, sempre, e l’amore, che supera ogni altra passione muovendo storie, personaggi e, in fondo, gli spettatori. E che in fondo rimane l’unico aspetto colto in tutta la sua ricchezza emotiva, sia pure attraverso storie esemplari che non necessariamente corrispondono a quelle dei ventenni tutti. Storie che però riescono a parlare anche della parte di noi che vent’anni ce li ha sempre, la fanno ridere e rivivere, e un po’ pensare».
Visionate i film proposti e, dopo averne scelto alcuni, o anche tutti, proponetene la visione ai vostri ragazzi, discutendo criticamente l’affermazione di Riccardo Spagnolo.
– Qual è la tua concezione della noia, come si manifesta nella tua quotidianità, come la vivi, con quali strategie cerchi di aggirarla?
– Come definiresti la scelta? Quali sono le scelte più importanti che hai compiuto nella tua vita? Che rapporto scorgi tra scelta e angoscia?
– Quali sono secondo te i confini che separano il rischio legittimo, connesso alla vita, da quello illegittimo, cioè dalla sfida estrema? Ti è mai capitato, e perché, di vivere sulla tua pelle una o più sfide estreme? Come ti sei sentito dopo averle vissute? Ne hai parlato a casa?
– Ci sono domande relative al desiderio, alla noia, alla scelta, al rischio, o ad altri sentimenti o forme del vivere, che ti non sei mai sentito fare e di cui avverti in modo particolare l’assenza?
– Solo l’esperienza della nostra mai compiuta compiutezza ci permette di ricercare in modo autentico limiti, effettive possibilità, ambiti d’uso delle nostre ideazioni: il riconoscimento della precarietà del vivere non ci preclude conoscenze e progettualità, semmai le rende umane e umanizzanti e, soprattutto, funge da argine contro la minaccia della confusione tra realtà virtuale e realtà effettiva. L’uomo, in ultima analisi, deve reimparare a frequentare quella che chiamiamo la scuola del limite,così come emerge dalle parole di Benasayag e Schmit:
«L’esperienza della non-onnipotenza costituisce per ciascuno di noi (e in particolare per i bambini e gli adolescenti) un’esperienza di limitazione positiva e fondamentale: lo sviluppo dell’essere umano non deve essere pensato come un’abolizione dei limiti naturali o culturali, ma, al contrario, come una lunga e profonda ricerca di ciò che tali limiti rendono possibile» (L’epoca delle passioni tristi, cit.).
Sulla scorta di queste considerazioni, date vita ad un dibattito con i ragazzi e i genitori che frequentano la vostra parrocchia, estendendo l’invito, chiaramente, a chiunque voglia partecipare.
– Platone, com’è noto, si impone non solo come uno dei massimi pensatori dell’Occidente, ma anche come superbo creatore di atmosfere spirituali, di miti, di plastiche immagini e stupende metafore. Nel Gorgia, uno dei suoi dialoghi più pregnanti, il grande filosofo ateniese descrive il desiderio smodato, senza freni, facendo ricorso alla potente metafora dell’«orcio forato» o, se si preferisce, dell’anima bucata. Ma leggiamo il passo in questione, gustandolo e meditandolo a fondo:
«Ebbene, io ti voglio riferire un’altra immagine, proveniente dalla stessa scuola di quelle di prima. Prova a riflettere sull’uno e sull’altro tipo di vita, quella cioè del temperante e quella del dissoluto, se ti pare di poterle paragonare alle condizioni di due uomini, ciascuno dei quali abbia molti orci, e l’uno di essi li abbia sani e pieni, rispettivamente, alcuni di vino, altri di miele, altri di latte e molti altri di molti altri liquidi, e che i liquidi contenuti in ciascuno di questi orci siano tutti preziosi e difficili da trovare.
Ebbene, costui, una volta riempitili, non avrebbe più bisogno di versarvi altro liquido né di darsene cura, ma potrebbe starsene tranquillo. Immagina, invece, che il secondo possa, sì, procurarsi i liquidi, ma sempre con difficoltà, e che, per di più, abbia i vasi bucati e consumati e che sia costretto a riempirli continuamente giorno e notte, per evitare le più gravi sofferenze. Ebbene, tale essendo la vita di ciascuno di questi, dirai che è più facile la vita dello sregolato o che è, invece, più felice la vita del temperante?
Dicendo queste cose ti persuado ad ammettere che la vita ordinata è migliore di quella dissoluta, oppure non ti persuado?» (493 D-494 A).
Riteniamo che ci sia materiale a sufficienza per un vivace e fecondo confronto con i vostri ragazzi.
– Aiutate i vostri ragazzi, in base alla vostra esperienza educativa e alla vostra sensibilità, a dar vita con i loro amici o i loro genitori ad una discussione o ad una tavola rotonda, presso l’oratorio, la sala parrocchiale, ecc., sul tempo e le sue dinamiche, sulla base della pellicola di Franco Piavoli: Voci nel tempo (1996). Il film, reperibile presso una buona videoteca, vede come protagonisti gli abitanti di Castellaro, in provincia di Mantova: non ci sono dialoghi, ma solo immagini e voci indistinte, calate in una natura davvero vissuta, caricata di densi significati e di una forte simbolica. La nota più rilevante del film sta nello scorrere delle stagioni, intese come tempo circolare, sopra il quale scivola la linea retta della vita umana: il tema dell’eterno ritorno, dunque, e del divenire. Il regista è particolarmente abile a intersecare lo scorrere delle stagioni con quello della vita (la nascita, gli amori adolescenziali, la malinconia della maturità e della vecchiaia, della vita che scivola via e che, nel contempo, con la scena del matrimonio e il sotteso venire alla luce di nuove vite, si rigenera e si rinnova). Si tratta di una pellicola originale, particolarmente densa, che richiede partecipazione intellettiva ed emotiva, capacità di osservazione e riflessione sullo scorrere del tempo, e che, soprattutto, non lascia assolutamente delusi. Anzi!
– Chiedete ai vostri ragazzi quali riflessioni stimola in loro questa affermazione di M.M. Davy (La montagna e il suo simbolismo, Servitium, Sotto il Monte 2000): «L’importante non è raggiungere una cima, perché le cime si succedono le une alle altre senza soluzione di continuità. L’essenziale consiste nel non sospendere la salita, cioè il progresso».
– Da ultimo, un consiglio bibliografico, particolarmente indicato per chi deve interagire giorno dopo giorno con i giovani: A. Pellai – S. Boncinelli, Just do it! I comportamenti a rischio in adolescenza. Manuale di prevenzione per scuola e famiglia, Franco Angeli, Milano 2002.
Il libro, davvero consigliabile a quanti operano nel mondo giovanile, raccoglie i risultati di una ricerca condotta su migliaia di adolescenti nelle scuole di tutta Italia. Le aree approfondite sono quelle dei comportamenti a rischio: sicurezza stradale, violenza, bullismo, tabagismo, alcol e droghe, disturbi alimentari, sessualità, ecc. Lo scopo del libro è quello di intercettare in modo realistico la cultura giovanile, là ove si manifesta in tutta la sua pienezza, proponendo film, canzoni, immagini di riviste, che possano aiutare i giovani nel loro percorso educativo e gli stessi genitori o educatori a instaurare una relazione autentica con i propri ragazzi.
L’ANIMA IN AZIONE
Poiché il pensiero ha valore nella misura in cui si incarna nella realtà, le idee che abbiamo raccolto in queste pagine abbisognano di un confronto diretto con la vita, quella «in carne ed ossa». In questo senso, stimolate i ragazzi che fanno parte del vostro gruppo o che ruotano attorno al vostro oratorio o parrocchia ad invitare qualche loro amico o conoscente che sia eventualmente uscito da un’esperienza estrema (droga, alcol, bullismo, teppismo…) per ascoltare – con vivo senso del rispetto e del pudore! – la sua testimonianza, al fine, chiaramente, non di fare del moralismo, ma di interrogare se stessi sulla base di una forte esperienza di vita, sia pure vissuta da un altro.
Crediamo che, oltre ai fecondi insegnamenti che si possono trarre da questa testimonianza, i ragazzi possano maturare, nei confronti di chi ha sofferto sulla propria pelle le crudeli ricadute delle esperienze estreme, autentici sentimenti empatici, nel segno dell’amore.
A questo proposito valgono le superbe parole di Maritain:
«L’uomo è una persona che si possiede per mezzo dell’intelligenza e della volontà. Egli non esiste soltanto come un essere fisico; c’è in lui un’esistenza più nobile e ricca: la sovraesistenza spirituale propria della conoscenza e dell’amore. È così, in un certo senso, un tutto, e non soltanto una parte; è un universo a se stesso, un microcosmo, in cui il grande universo intero può essere racchiuso mediante la conoscenza. E mediante l’amore egli può donarsi liberamente ad esseri che sono per lui come degli altri se stesso» (La persona e il bene comune, Morcelliana, Brescia 1990).