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    Il dono dello Spirito


     

    La grande storia /7

    Carmine Di Sante

    (NPG 06-03-27)


    Continuando il tema dell’articolo del mese scorso, ci domandiamo ancora: per quale ragione ultima Dio chiede a Gesù di introdurre, nella violenza che gli si scatena contro (e che, per il Nuovo Testamento, è il simbolo di tutti gli orrori e violenze umane) il suo amore di agape, rivelando, attraverso il suo libero acconsentimento, che egli ama l’uomo sempre, anche negli abissi del male e della colpa? Forse perché questi contempli Dio come quell’essere il cui essere è per la bontà e la misericordia, a differenza del suo che è per la negazione e la violenza? O forse perché l’umano si apra alla coscienza che non c’è da temere nulla dopo morte perché ad attenderci c’è il Dio non dell’ira ma della misericordia?
    Nessuna di queste risposte è all’altezza del racconto rifondatore per il quale la ragione ultima per la quale Dio chiede a Gesù di introdurre il gesto dell’agape e della nonviolenza nella violenza che lo colpisce è per infrangerne il determinismo e delegittimarla, per cui non è più vero che l’uomo è violento per destino o per natura, lupo all’altro lupo come voleva Hobbes, ma può tornare a vivere nel mondo secondo la logica dell’alleanza, come nell’eden prima del peccato. La ragione ultima per cui Dio chiede a Gesù di rispondere alla violenza omicida con la nonviolenza è perché solo questa ne infrange la potenza e ne decreta la sconfitta, riaprendo nella storia la possibilità del ricominciamento come storia non più cainitica ma fraterna. Qui si trova anche la ragione per la quale, in obbedienza al Padre, Gesù decide di recarsi a Gerusalemme volontariamente e decisamente per soffrirvi e per morirvi: perché è con quella sua morte violenta che paradossalmente interrompe la storia violenta. All’improvviso da un reattore nucleare fuoriescono radiazioni che seminano distruzione e morte. Si richiede qualcuno che liberamente accetti di entrarvi: non perché ami la morte ma perché, con la sua morte, sottragga gli altri alla morte. È la sola analogia in grado di illuminare la morte di Gesù in croce, da lui voluta perché nella storia mai più ci siano passioni, morti e violenze. Nonviolenza dentro la violenza, la potenza della croce è nel ridurre ad impotenza la potenza del male, riaprendo nella storia la possibile fraternità umana.
    Il termine al quale ricorre il Nuovo Testamento per esprimere la dimensione di potenza della croce come riduzione ad impotenza della violenza e del male che, celati nella storia, la riducono ad un campo di battaglia e di conflitti fratricidi è spirito, termine che attraversa tutto il Primo Testamento, che i profeti annunciano come il dono messianico per eccellenza. e che rimanda allo spirito di Dio in quanto «energia» o «forza» inarrestabile che, altra dall’uomo e impossedibile dall’uomo, lo possiede in quanto lo risveglia instancabilmente alla sua vocazione originaria come responsabilità indeclinabile.
    Per questo la croce coincide con il dono dello spirito stesso del crocifisso, come coglie il quarto evangelista parlando degli ultimi istanti di Gesù:

    Dopo questo, Gesù, sapendo che ogni cosa era stata ormai compiuta, disse per adempiere la Scrittura: ‘Ho sete’. Vi era lì un vaso pieno d`aceto; posero perciò una spugna imbevuta di aceto in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. E dopo aver ricevuto l`aceto, Gesù disse: ‘Tutto è compiuto!’. E, chinato il capo, spirò (Gv 19, 28-30).

    Spirò: uno straordinario bisenso che, ad un primo livello, quello più immediato, vuol dire morì, mentre ad un secondo, quello teologico e più profondo, significa fece dono del suo spirito, della potenza cioè del suo amore di agape con cui è possibile riabitare il mondo con lo spirito dell’alleanza riconvertendolo da deserto di sofferenza e di violenza in terra di giustizia, di amicizia e di pace.
    Il dono dello Spirito che, come pioggia benefica, Giovanni vede diffondersi sul mondo nell’istante in cui il crocifisso muore e spira dicendo «tutto è compiuto» (non nel senso che «tutto è finito» ma in quello che «tutto è stato portato a termine», per cui la storia umana può rifiorire), Luca lo dispiega narrativamente nel libro degli Atti attraverso il racconto della discesa dello Spirito cinquanta giorni dopo la morte di Gesù, coincidente con la festa della pentecoste ebraica che ricordava il dono dell’alleanza sul monte Sinai dopo l’uscita dall’Egitto. La coincidenza che il terzo evangelista stabilisce tra la discesa dello Spirito e la festa ebraica della Pentecoste non è un’annotazione cronologica, ma una profonda tesi teologica con cui, con la forza del simbolo, dice che la morte di Gesù sulla croce è la potenza che riduce ad impotenza la potenza del male e che, per questo, riapre nella storia la possibilità dell’alleanza che Dio, sul Sinai, aveva rivelato ad Israele come il principio originario del reale. Facendo coincidere discesa dello Spirito e Pentecoste ebraica, è come se Luca affermasse che, con la morte di Gesù in croce, si è riaperta nella storia la possibilità della comunicazione e della comunione fraterna:

    Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano. Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d’esprimersi. Si trovavano allora in Gerusalemme Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo. Venuto quel fragore, la folla si radunò e rimase sbigottita perché ciascuno li sentiva parlare la propria lingua. Erano stupefatti e fuori di sé per lo stupore dicevano: ‘Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? E com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, stranieri di Roma, Ebrei e prosèliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio’. Tutti erano stupiti e perplessi, chiedendosi l’un l’altro: ‘Che significa questo?’. Altri invece li deridevano e dicevano: ‘Si sono ubriacati di mosto’ (At 2, 1-13).

    Evento imprevisto e inarrestabile («Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo»), posandosi sugli apostoli «sotto lingue di fuoco», lo Spirito riattiva la comunicazione e la comunione, per cui vengono capiti da tutti, nonostante le differenze linguistiche e culturali. Queste non sono più ragione di incomunicabilità e di conflitto, come per il mito della torre di Babele secondo il quale gli individui e i popoli furono dispersi per la loro malvagità (perché, nell’interpretazione rabbinica, accecati dal possesso e dal potere, si preoccupavano più del mattone che si rompeva che dell’operaio che cadeva stremato!), ma espressione della concordia ritrovata dove l’alterità da ostilità torna ad essere reciproco arricchimento.
    Lo Spirito che, dalla croce, scende come un fiume sugli apostoli, fa dono di una parola non più solitaria, dove il parlare è il parlare a se stesso che esclude l’altro, ma dialogica e relazionale dove nessuno è escluso e tutti, nonostante le irriducibili differenze («Parti, Medi, Elamìti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, stranieri di Roma, Ebrei e prosèliti, Cretesi e Arabi, ecc) comprendono e si comprendono. Fa dono di una parola instauratrice della concordia, dove il cuore dell’uno batte all’unisono con l’altro.
    Ma la concordia reinstaurata dalla potenza dello Spirito del crocifisso prima che l’ordine della parola e del linguaggio, riguarda l’ordine dell’agire etico e responsabile che, in primo luogo, si esercita sul piano economico e materiale, come esplicitano i due sommari lucani relativi allo stile delle prime comunità cristiane che, nel libro degli Atti, seguono immediatamente il racconto della discesa dello Spirito:

    La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno (At 4, 32-35).

    La concordia di cui fa dono lo spirito del Crocifisso non è emotiva, legata all’ordine del sentire, e neppure estetica, legata all’ordine del parlare, ma economica, legata all’ordine delle cose e del denaro da condividere. È la concordia come espressione della giustizia e della fraternità, radice e linfa della stessa concordia emotiva ed estetica, la concordia come instaurazione di una muova umanità – rapporti con gli altri e con le cose – dove l’ingiustizia è vinta («nessuno tra loro era bisognoso») in forza della gratuità ritrovata e riattivata («nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune»).
    Questa umanità nuova che fiorisce sul gratuito era l’umanità voluta da Dio da sempre con la creazione ma che, per la colpa umana, non si è mai pienamente realizzata. Per il racconto fondatore d’Israele abbiamo visto da una parte come a fondamento dell’umano ci sia la gratuità divina da accogliere (il primo nucleo del racconto esodico), da ridonare (il secondo nucleo del racconto esodico) e, su questo unico/duplice principio, da fruire (il terzo nucleo del racconto esodico), dall’altra però come di fatto questa logica del gratuito sia stata rinnegata avendo l’uomo preferito alla riconoscenza l’autosufficienza e alla giustizia l’appropriazione.
    Con l’affermazione che, con la discesa dello spirito «la moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune», il Nuovo Testamento formula il convincimento che, grazie al messia crocifisso, nella storia è riapparso il principio gratuità («nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva») per cui essa può disalienarsi e riedificarsi come storia di fraternità.


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