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    Spiritualità dello studio /3

    Armando Matteo

    (NPG 2006-03-54)


    Ripartiamo da Delfi. In questa località dell’antica Grecia, sul frontone del Tempio dedicato al dio Apollo, si trovava incisa la famosa sentenza: conosci te stesso. Chissà quante volte avrai sentito citare tale massima. Ora ciò che più mi colpisce in questa esortazione, rivolta a quanti si recavano in pellegrinaggio in quel luogo, è l’oggetto cui l’imperativo conosci è indirizzato: te stesso. In tal modo proprio alle origini della nostra civiltà vengono collocate insieme la conoscenza e il nostro io. L’invito di quel comando è chiaro: la vera conoscenza parte da noi stessi e termina a noi stessi, e mi sembra che tale lezione non abbia perso nulla della sua validità, in modo particolare per noi avventurati sulle tracce di una possibile spiritualità dello studio.
    Non di rado, infatti, almeno in modo inconsapevole, riteniamo che la conoscenza sia l’accumulo di una serie di notizie sulla realtà che ci sta di fronte o su qualcosa che è già accaduto o che potrebbe accadere. Del resto, a scuola e all’università, è quasi impossibile evitare l’impressione che chi studia sia una specie di «sacco vuoto» che debba essere rimpinzato da centinaia e centinaia di notizie: una sorta di hard disk vergine su cui debbano essere registrati istruzioni e programmi da far funzionare al momento giusto. Così, tuttavia, colui che conosce non solo non è più oggetto del conoscere, ma anche come «attore» della conoscenza quasi sparisce dal campo visivo: diventa un (sacco) vuoto da riempire. Ma l’oracolo non dice che conoscere è innanzitutto conoscere se stessi? Che cosa dire dunque?
    Al riguardo potrebbe darci una mano la versione francese del termine conoscenza – connaissance – , che deriva dal verbo connaître. Quest’ultimo tradotto in modo letterale in italiano suonerebbe più o meno co-nascere. Sì, hai letto bene: «co-nascere», non è un errore di battitura. Conoscere è co-nascere. Il francese ci invita a scoprire la profonda parentela tra i due verbi e i relativi sostantivi, nascondendo nel seno del verbo connaître (e della parola connaissance) il verbo che dice «venire alla luce». E cosa significherebbe, appunto, conoscere se non esattamente un nascere di nuovo con una nuova coscienza, con un nuovo sguardo sulla vita? Nulla a che vedere quindi con un accumulo passivo, noioso e patetico di ciò che è stato, di ciò che normalmente accade, di ciò che potrebbe accadere; bensì nuovo sguardo sulla vita, sul suo indicibile mistero, sulla sua fragile bellezza, sul suo irripetibile fascino.
    Finché pensiamo che ciò che per motivi di studio dobbiamo «conoscere» stia lì davanti a noi come cosa morta da incamerare e che non ci sia richiesto altro che far spazio nella nostra memoria a quell’informazione, allora la conoscenza non mostrerà la sua profonda verità, il suo più affascinate segreto. E tale piega interna della conoscenza siamo proprio noi: ciò che conosciamo ci permette infatti di (co-)nascere al mondo con occhi nuovi, di sperimentare inedite prospettive, di saggiare impreviste possibilità.
    Tutto ciò, come avrai ormai già previsto, non accade però in modo spontaneo. In verità, nella vita dello spirito nulla accade in modo automatico: ogni gesto richiede uno sforzo, una convinta disponibilità alla fatica, una capacità di affidarsi a ciò che di più grande si fa innanzi.
    D’altro canto chi potrebbe sostenere a cuor leggero che la nascita di un nuovo essere umano sia un fatto privo di sofferenza, di preoccupazioni, di attenzioni, di premure e di delicatezza? Qualcosa di analogo accade per la conoscenza/co-nascenza: senza una forma di attenzione, senza una serena apertura a mettere in questione quanto abbiamo già appreso, senza la volontà di distruggere gli idoli e i pregiudizi che ci siamo costruiti, non ci è consentito l’accesso al mondo vero e reale, alle infinite variazioni della natura e della storia singolare e collettiva degli uomini; ma soprattutto non ci è consentito l’accesso al nostro io.
    Conosci te stesso: tale impegno doveva essere assunto da colui che desiderava far ingresso nel tempio di Apollo, cioè da colui che desiderava entrare in contatto con la sfera divina. Ebbene, la strada per il cielo passa anche per la conoscenza, perché conoscendo, nasciamo di nuovo, ritorniamo alle origini del nostro io; conoscendo, ci è consentito di accedere a quel mistero che alimenta le nostre radici più remote, a quella trama di infinito su cui è scritta la nostra esistenza, a quello strano miscuglio di terra e di cielo che normalmente chiamiamo «io».

    Per continuare a riflettere

    Ti trascrivo ora un brano di un filosofo italiano non molto conosciuto, Andrea Emo, scomparso alcuni anni fa. Egli passò molta parte della sua vita a stendere un lungo diario filosofico, in parte edito solo dopo la sua morte. La sua fu una vita di ricerca e il testo qui proposto è una sorta di piccolo commento poetico, autobiografico e sapienziale all’oracolo di Delfi.
    Delfo. Un pellegrino, un devoto di Febo Apollineo, visitava piamente i templi di Delfo, cercava l’oracolo; l’oracolo che aveva ammonito l’antico saggio: conosci te stesso […]. Il pellegrino era nel tempio […] e la domanda era sulla fronte e nell’occhio del pellegrino, dell’orante, dell’amico della Sapienza: e allora la sacerdotessa apparve improvvisa: il sorriso che riluceva nei suoi occhi, nell’unico sguardo, era inimmaginabile. Il sorriso durò nell’attimo dello sguardo, ma l’attimo era eterno, appunto perché puramente attimo; nel suo lampo indicibile conteneva tutte le domande e tutte le risposte; diceva: conosci te stesso e sorrideva dell’impossibilità, dell’ineseguibilità del comando, perché il suo sorriso rendeva impossibile ogni conoscenza, era l’al di là di ogni conoscenza: rivelava all’uomo che egli è inconoscibile, inconoscibile come il sorriso che lo folgorava; il sorriso inconoscibile che rendeva l’uomo inconoscibile a se stesso, proprio mentre lo invitava a conoscersi. Il pellegrino si allontanò e seguì i suoi lontani sentieri: ma non era più se stesso: che avrebbe dovuto ancora conoscere? Per tutti i suoi sentieri, per tutta la sua vita non cercò più se stesso, ma l’inimmaginabile sorriso, dove l’anima sua era rimasta, l’inimmaginabile, l’inconoscibile sorriso, dove tutto l’inconoscibile e tutta la luce erano riuniti, e tutto l’impossibile e tutta la presenza.
    (A. Emo, Le voci delle Muse. Scritti sulla religione e sull’arte 1918-1981, a cura di M. Donà-R. Gasparotti, Marsilio, Venezia 1992, 17).

    Per la preghiera

    Ti propongo, a questo punto, la recita del Salmo 89. Di questa preghiera stupenda, la cui paternità è attribuita a Mosè, spesso riecheggia nel mio intimo un versetto, quello che dice: «Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore». È bene farne tesoro.

    Signore, tu sei stato per noi un rifugio
    di generazione in generazione.
    Prima che nascessero i monti
    e la terra e il mondo fossero generati,
    da sempre e per sempre tu sei, Dio.
    Tu fai ritornare l’uomo in polvere
    e dici: «Ritornate, figli dell’uomo».
    Ai tuoi occhi, mille anni
    sono come il giorno di ieri
    che è passato,
    come un turno di veglia nella notte.
    Li annienti: li sommergi nel sonno;
    sono come l’erba che germoglia
    al mattino:
    al mattino fiorisce, germoglia,
    alla sera è falciata e dissecca.
    Perché siamo distrutti dalla tua ira,
    siamo atterriti dal tuo furore.
    Davanti a te poni le nostre colpe,
    i nostri peccati occulti alla luce
    del tuo volto.
    Tutti i nostri giorni svaniscono
    per la tua ira,
    finiamo i nostri anni come un soffio.
    Gli anni della nostra vita sono settanta,
    ottanta per i più robusti,
    ma quasi tutti sono fatica, dolore;
    passano presto e noi ci dileguiamo.
    Chi conosce l’impeto della tua ira,
    tuo sdegno, con il timore a te dovuto?
    Insegnaci a contare i nostri giorni
    e giungeremo alla sapienza del cuore.
    Volgiti, Signore; fino a quando?
    Muoviti a pietà dei tuoi servi.
    Saziaci al mattino con la tua grazia:
    esulteremo e gioiremo
    per tutti i nostri giorni.
    Rendici la gioia per i giorni
    di afflizione,
    per gli anni in cui abbiamo visto
    la sventura.
    Si manifesti ai tuoi servi la tua opera
    e la tua gloria ai loro figli.
    Sia su di noi la bontà del Signore,
    nostro Dio:
    rafforza per noi l’opera
    delle nostre mani,
    l’opera delle nostre mani rafforza.

    Un libro da non perdere
    S. Weil, L’attesa di Dio, Rusconi, Milano 1972


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