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    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2006-07-44)

    Perché la pace che ho sentito
    in certi monasteri
    O la vibrante intesa
    di tutti i sensi in festa
    Sono solo l’ombra della luce
    (Franco Battiato)

    Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa posso sperare? Le tre domande fondamentali che Kant pone all’uomo con le cosiddette tre critiche (Critica della ragion pura, Critica della ragion pratica, Critica del giudizio) sono a nostro parere ancora di estrema attualità e possono determinare i confini del nostro discorso sulla conoscenza dell’anima.
    L’anima, anzitutto, conosce. Ma la sua conoscenza è di tipo del tutto particolare. Lascia dentro noi lo stupore che è provocato anche dall’osservazione del «cielo stellato sopra di me», per usare un’altra espressione del filosofo di Königsberg che rimane ancora oggi delle sintesi più efficaci dello stupore e della meraviglia che da sempre uomini e donne hanno provato alzando gli occhi al cielo: la conoscenza dell’anima è stata ridefinita nel momento in cui nel XX secolo l’uomo si è accorto che la Terra non è che uno dei tanti oggetti che vagano in un Universo sempre più misterioso, anche se sempre più conosciuto. La conoscenza dell’anima (nel duplice senso del genitivo; l’anima che conosce e l’anima che conosciamo) come quella dell’Universo è di tipo particolare: più essa progredisce, più fa aumentare il nostro senso di ignoranza; più cose nuove scopre, più ci costringe a ridefinire la nostra idea di «cosalità»; più andiamo avanti nella esplorazione del Cosmo e della nostra interiorità, più scopriamo zone d’ombra, abissi di incomprensibilità, fino a intuire che la stessa nozione di Cosmo come quella di Io, è insufficiente e incompleta; più cerchiamo di comprendere pianeti e sentimenti, emozioni e supernove, più ci scopriamo piccoli e insignificanti. L’idea baconiana che la conoscenza potesse portare l’uomo a dominare la natura appare quasi uno scherno. L’idea millenaria che la nostra conoscenza potesse in qualche modo dissolvere la stranezza e il mistero degli oggetti, esponendoli alla luce della ragione, trova i suoi limiti nel continuo mistero che scopriamo osservando il Cosmo e l’anima, dove ci riesce sempre più difficile considerare il primo come casa della seconda: «Ora il cielo che pende sopra il nostro capo non è più domestico. Si fa sempre più intricato, imprevisto, violento e strano; il suo mistero cresce invece di ridursi, ogni scoperta, ogni risposta alle vecchie domande fa nascere miriadi di domande nuove. Copernico e Galileo avevano sbalzato l’umanità dal centro del creato: non era stato che un trasloco, da cui pure molti si erano sentiti destituiti e umiliati. Oggi ci accorgiamo di ben altro: che la fantasia dell’artefice dell’Universo non ha confini, e sconfinato diventa anche il nostro stupore. Non solo non siamo il centro dell’Universo, ma ne siamo estranei: siamo una singolarità. È strano l’Universo per noi, noi siamo strani nell’Universo». [1]
    In questo contesto di disorientamento l’anima comunque deve fare: la sua conoscenza è di tipo eminentemente pratico, orientato all’azione e alla trasformazione del mondo. Per questo ha bisogno di un’etica, che sia però un’etica all’altezza della sua conoscenza: un’etica che sia ragionevole ma al tempo stesso non torni a proporre un’idea prometeica di ragione che abbraccia tutto il mondo e svela tutte le verità una volte per sempre. Le tre formule classiche dell’imperativo morale kantiano sono a nostro parere riproponibili per un’etica del XXI secolo: agisci in modo che la tua azione possa essere universalizzata (ovvero chiediti «che cosa accadrebbe se tutti facessero come me? Se tutti usassero l’automobile per percorrere i 100 metri da casa all’ufficio postale, se tutti sprecassero l’acqua, se tutti cercassero di prevaricare l’altro»); agisci in modo che la tua azione sia autonomamente fondata (e dunque cerca principi morali che siano auto-nomi, norme a se stessi, che dunque si liberino di ogni dipendenza dal denaro, dal potere, dagli integralismi e dei fondamentalismi); considera sempre l’altro come fine mai come mezzo; un comportamento così fondato forse non fonderebbe il Regno dei Fini ma renderebbe questo pianeta un posto decente sul quale vivere; ma ai tre imperativi kantiani la situazione attuale ne pone di fianco un altro, che discende dalla peculiarità della condizione atomica, che letteralmente deresponsabilizza l’uomo aumentando il portato della tecnologia all’interno del suo orizzonte di scelta: «Oggi siamo privati di questa esperienza immediata di nessi e di queste connessioni vissute. Preparazione, atto ed effetto sono separati tra loro e non solo in senso spaziale. Ciò che percepiamo rimane sempre frammentario; è la preparazione oppure l’effetto. E questo vale proprio per le situazioni fondamentali, cioè per quelle in cui decidiamo dell’essere o non essere degli altri o in cui è in gioco il nostro essere o non essere. A questa mutilazione percettiva corrisponde la sclerosi delle emozioni. Ciò che non so non turba i miei sonni». [2] Se il pilota di Hiroshima non ha visto gli effetti del suo gesto, poteva però immaginarseli: la conoscenza immaginifica dell’anima ci aiuta a definire i criteri per un’etica del XXI secolo formulando il quarto imperativo: «agisci solo quando puoi prevedere una considerevole parte delle conseguenze delle tue azioni», definendo così una pietà indirizzata al singolo uomo e alla singola donna e solo attraverso di lui o di lei a tutta l’umanità.
    Infine l’anima spera, e deve imparare a sperare. Crediamo che insegnare la speranza alle giovani generazioni sia forse l’unica vera e forte scommessa della nuova pedagogia. Ma la speranza non è vano sogno ad occhi aperti, ma ricerca delle reali possibilità insite nel mondo per un superamento del mondo stesso. «La speranza è oltrepassamento reale [che] conosce e attiva la tendenza che è dialettica nel suo corso, insita nella storia» [3]; conoscere sperando significa riuscire a determinare nel mondo attuale una tendenza reale che va al di là della attuale situazione bloccata e disperante: qualunque cosa possiamo pensare per il futuro, qualunque conoscenza vogliamo trasmettere ai ragazzi, l’unica cosa che non possiamo permetterci è la disperazione: «La mancanza di speranza è la cosa più insopportabile per i bisogni umani. È per questo che persino l’inganno per funzionare deve lavorare suscitando speranza» [4]; se le false promesse della pubblicità e delle campagne elettorali riescono a sedurre gli uomini e le donne, allora anche indicare nella realtà il germe del suo superamento può essere una opzione per coloro che vogliono fortemente un mondo differente. Ma allora la conoscenza deve essere colma di speranza perché deve essere riattivata la connessione tra verità e felicità, il che pone la domanda del cosa occorre conoscere ma soprattutto del come occorre conoscere. Il testo biblico usa a proposito della conoscenza il termine ebraico jada in due casi: in Genesi, per «Adamo conobbe Eva», e in Esodo quando YHWH conosce il dolore del suo popolo e decide di intervenire per liberarlo. Una forma di conoscenza che porta immediatamente all’emozione, che è un’emozione gettata nel presente e lì vissuta e gustata o dis-gustata, ma fin da subito orientata al futuro. È il tipo di conoscenza che cogliamo nello sguardo dell’innamorato per il quale nulla vale lo sguardo ricambiato dell’innamorata: una conoscenza esclusiva e totalitaria e soprattutto appassionata tale da far uscire YHWH dal nascondimento e Adamo dalla solitudine. Una conoscenza che è speranza nel suo stesso darsi: che ci spinge a sapere per potere agire, ad agire per poter sperare e a sperare per poter sapere, chiudendo il cerchio kantiano in un orizzonte di pace e di felicità.

    NOTE

    [1] Primo Levi, L’altrui mestiere, Torino, Einaudi, 1985, pag. 174.
    [2] Gunther Anders, Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki, Roma, Linea 1995, pag. 120.
    [3] Ernst Bloch, Il Principio Speranza, Milano, Garzanti, 2005 pag. 20.
    [4] Ibidem.


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