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    Educare l’anima /8

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2006-09-62)

    Mia madre alzò nel gran silenzio un dito
    Disse un nome, sonò alto un nitrito.
    (Giovanni Pascoli)


    In un suo ottimo romanzo l’autrice statunitense Sheri S. Tepper ipotizza che le rocce e gli immensi cristalli presenti su di un lontano pianeta possano pensare, cantare, parlare;[1] il teologo Eugene Drewermann in una sua breve opera disserta attorno all’anima degli animali;[2] nel famosissimo film «E.T.» Steven Spielberg fornice l’alieno di un’anima ancora più innamorata e poetica di quella degli umani, un’anima che solamente il bambino Eliot sarà in grado di interpretare e capire. Tre esempi perturbanti di come il discorso sull’anima non possa e non debba fermarsi unicamente all’essere umano, ma debba e possa estendersi anche a ciò che umano non è. Sottrarre l’anima è sempre stato un esercizio potente e terribile dei dominatori: c’è un filo sottile che lega la fazione dei teologi che nei colloqui di Valladolid negarono l’esistenza dell’anima del cosiddetti selvaggi, e i vivisezionisti che negano che le cavie che essi storpiano e torturano in nome di un concetto mostruoso di scienza possano davvero sentire dolore. La questione dell’anima e dell’educazione all’interiorità è spesso impostata rimanendo all’interno del paradigma dell’umanità, e dimenticando che essa attraversa in realtà tutti gli ambiti del vivente, ambiti nei quali essa ulteriormente si complica e riceve inedite declinazioni e torsioni. È nella natura che l’anima deve andare a sporcarsi i calzari; non per cercare qualcosa di simile a sé magari da assoggettare o violentare, ma per trovare spazi e tempi di un modo differente di essere «anima».
    Prima di fare tutto ciò, però, l’educazione interiore deve prendersi il coraggio di denunciare. Un inventario completo delle violenze che la natura ha dovuto subire dagli uomini farebbe impallidire chiunque avesse un minimo di coscienza (e appunto di anima)[3] e le cosiddette culture «altre» non sono del tutto aliene a questa crudeltà e a questa violenza; chi vuole salvaguardare le corride con la puerile scusa della tradizione e della cultura potrebbe utilmente chiedersi quale cultura legittimi lo scorrere del sangue di un animale innocente, e quale tradizione che metta in scena un macello senza scopo sia davvero da considerare desiderabile e salvaguardabile. Ammazzare il maiale sull’aia costituisce un rito di iniziazione per i ragazzini in molte culture, e in questo rito violento e disumano non c’è proprio nulla che vorremmo salvare; anche se una infinita distanza separa questo rito dalla deritualizzazione dei macelli che sono delle vere e proprie catene di montaggio della morte, tese unicamente e brutalmente alla massimizzazione del profitto.[4] Educare l’anima sarà una scelta animalista ed ecologista o non sarà affatto; e il suo essere animalista ed ecologista consisterà nel vedere il volto dell’animale violentato dietro il muso apparentemente alieno dall’umano. In questa posizione non c’è tanto antropocentrismo quanto sembrerebbe: una delle deliranti ragioni che dovrebbero consentire la vivisezione e la sperimentazione su animali di farmaci e prodotti per la cosmesi consiste nell’ipotesi che gli animali non proverebbero dolore e comunque non lo esprimerebbero, almeno non come lo provano e lo esprimono gli uomini; a parte il fatto che questa affermazione testimonierebbe semmai di una infinita distanza tra uomo e animale, distanza che di per sé vanificherebbe la possibilità di sperimentare sugli animali prodotti destinati all’uomo, è comunque sbagliato il punto di partenza: disquisire su come (e se) un animale possa esprimere una sensazione umana non ha senso proprio perché si parte in questo discorso dalla centralità assoluta dell’essere umano e dal suo modo di percepire ed esprimere; occorrerebbe allora partire da un decentramento che ponga una volta tanto l’uomo e la donna alla periferia e l’animale al centro; in questo caso sarebbe opportuna una sospensione del giudizio sulla qualità della sofferenza animale, che porterebbe alla rinuncia alla vivisezione e alla sperimentazione in virtù di un ragionevole dubbio; in questo senso, pretendendo che un coniglio cui è stato iniettato veleno negli occhi non soffra perché non parla, la vivisezione è molto più antropocentrica di quanto non lo siano i suoi avversari. Nello sguardo dell’animale ferito è allora possibile scorgere le tracce del volto: inteso come richiesta di aiuto, invocazione di soccorso, proposta di una alleanza. E proprio perché l’educazione è integralmente cultura, è possibile per l’uomo e la donna scoprire e prendersi cura dell’alterità della natura. È proprio tale dimensione culturale – della quale non possiamo liberarci, perché altrimenti non ricadremmo nella presunta natura ma piuttosto nell’autodistruzione e nell’annichilimento – che ci permette di prenderci cura dell’animale che soffre. Interpretare lo scodinzolio del cane come segno di affetto non è affatto «antropocentrismo»: significa invece cogliere del fenomeno naturale quanto rientra nel nostro schema di interpretazione della natura, lasciando però spazio al mistero e all’ignoto, che non si riveleranno mai del tutto. Una carezza al cane in questo caso potrà anche essere interpretata come antropocentrismo da qualche scienziato in vena di deliri narcisistici; per noi costituisce una risposta che è frutto della capacità di cogliere nell’altro l’invocazione e il dolore e di sintonizzarsi sul suo volto; senza cancellarne la differenza radicale ma anche senza abdicare al compito umano di prendersi cura del diverso; compito senza il quale l’educazione dell’anima si ridurrebbe a una facile moda per intellettuali in cerca di novità.
    Oltre l’anima c’è l’altro; oltre l’isolamento dell’altro, oltre l’affiancamento di un’anima a un’altra come una teoria di monadi senza finestre c’è la possibile contaminazione con e nell’altro, il possibile confronto e conflitto con gli altri e le altre. L’anima è un concetto sociale, ma è prima di tutto un concetto ecologico: degli altri, di quegli altri totalmente altri che sono gli animali e le piante, le montagne e i laghi, siamo chiamati a prenderci cura, ad avere responsabilità, come suona realmente la traduzione dall’ebraico di ciò che YHWH chiede ad Adam e che è stato comodamente tradotto come «dominio».
    Una leggenda araba dice che il mondo è stato affidato da Allah al gatto perché ne avesse cura; il gatto, un po’ pigro, lo ha subappaltato all’uomo, il quale dovrà poi restituirglielo, e renderne conto, nel Giorno Finale. Il fatto di avere ereditato il mondo da Dio ha solleticato il nostro amor proprio e il nostro senso di superiorità; forse l’idea di doverlo restituire al gatto ci farà sentire un po’ meno importanti ma certamente più responsabili. Al termine di questo percorso annuale nei meandri dell’anima occorre sfiorare delicatamente il pelo dell’amico felino che dorme; che si rigirerà nella sua cuccia e potrà continuare a dormire tranquillo, perché forse gli esseri umani avranno imparato che c’è anima ovunque; nelle risposte di un cavallo a chi gli domanda chi ha ucciso il suo padrone; nei cristalli cantanti di un pianeta lontano; nel più segreto interno di ciò che non è noi.

    NOTE

    [1] Sheri S. Tepper, Dopo il lungo silenzio, Roma, Fanucci, 1998.
    [2] Eugene Drewerman, Sull’immortalità degli animali, Neri Pozza, 2000.
    [3] Cf Richard S. Patterson, Un’eterna Treblinka, Roma, Editori Riuniti, 2004.
    [4] Una efficace e terribile denuncia di questa situazione è presente nel classico romanzo di Upton Sinclair The Jungle, New York, Simon & Schuster, 2004.


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