Spiritualità dello studio /8
Armando Matteo
(NPG 2006-09-65)
Siamo così giunti all’ultimo tratto del nostro cammino intorno alla spiritualità dello studio, ed è per questo che sono ben sicuro che sarai in grado non solo di trovare la risposta giusta alla domanda che abbiamo lasciato in sottofondo durante il nostro tragitto, ma che sarai all’altezza di intuire che quella domanda, quell’autentico interrogativo per chiunque si avventuri sui sentieri dello studio sia proprio il seguente: per chi studio, per chi mi impegno nel lavoro intellettuale? Altre domande e risposte che puntassero ad una visione strumentale dello studio (per che cosa studio) al termine delle nostre riflessioni sono ovviamente da scartare.
In verità, tu studi per te: studi per allargare l’orizzonte del tuo sguardo, per liberare la tua intelligenza da ogni pregiudizio e falso idolo che impedisce di far spazio a ciò che di nuovo ci viene incontro, per allargare la nativa ospitalità della tua anima sino ad accogliere il mondo intero. Tu studi per renderti attento alle infinte variazioni della esistenza umana, alla variopinte sfumature di ogni parola, di ogni gesto, di ogni scelta, alle implicazioni non immediate dell’esercizio della nostra fragilmente sconfinata libertà.
Tu studi – ora lo possiamo dire ad alta voce – per diventare (un) sapiente.
Sì, hai capito bene: (un) sapiente.
Già sei al corrente, ne sono sicuro, della parentela che questa nobile parola intrattiene con il comune, quotidiano, indispensabile termine di sapore. Ah quanto è particolare questo senso. Il sapore è quella sensazione che provoca sull’apparato gustativo ciò di cui ci cibiamo, ed apparentemente, dal punto di vista biologico, sembra quasi inutile, eppure che differenza tra un piatto sapido e uno scipito! È vero, entrambi i piatti ci donano le calorie necessarie per l’esercizio dei nostri muscoli, ma vuoi davvero negare l’abissale contrasto? La medesima osservazione vale per la differenza tra un sapiente e una persona che non si è impegnata a diventarlo: ad occhio nudo sembra impercettibile, eppure c’è.
Come possiamo ora fissare questa diversità?
Tre sono, a mio avviso, gli atteggiamenti che contraddistinguono un uomo sapiente: l’attenzione per la singolarità, la precisione dello sguardo, la gioia dell’ospitalità.
Il sapiente è, innanzitutto, uno che sa distinguere e apprezzare l’alterità, consapevole che non ci sono mai due gesti umani identici, perché esiste sempre una possibile differenziazione. Il sapiente non disprezza le divergenze, non nutre alcun culto per un mondo o bianco o nero, o per una convergenza ad ogni costo delle opinioni dissimili, non si lascia illudere mai dai luoghi comuni che «siamo tutti uguali» e che «ogni mondo è paese». Sa che il mondo si sorregge su tante piccole differenze che debbono essere rispettate.
Egli ha poi cura di rendere il suo sguardo sempre più pulito, limpido, eliminando tutto ciò che potrebbe offuscarlo, perché, come avrai anche tu modo di imparare, molta dell’infelicità umana nasce proprio dal guardare con un occhio malato, dal guardare «di mal occhio» (è questa l’etimologia della parola «invidia»), gli altri e ciò che essi realizzano. Il sapiente, invece, cura il suo sguardo, non invidiando più: si sforza di vedere bene, di leggere bene, di descrivere bene, e infine di dire bene ciò che gli capita, i suoi problemi, le sue potenzialità, i suoi desideri, lottando con tutte le forze contro l’onnipotente tentazione dell’approssimazione. In tal modo è in grado di dire bene e, alla fine, anche di bene dire la sua esistenza e la vita che lo circonda.
Spesso al contrario la maggior parte di noi dice male di sé e degli altri, perché vediamo male (invidiamo), e perciò (ci) malediciamo.
Il sapiente è, infine, dotato di uno spirito ospitale. Conosce la grandezza della vita, le sue incommensurabili potenzialità (non siamo nati in fondo dall’unione di due piccolissime cellule?), intravede sempre gli interstizi di energia e di recupero presenti anche nelle situazioni più disperate. Per questo abbraccia la vita, la ama, convinto che a nessuno debba essere negata la possibilità di migliorarsi. Soprattutto a se stessi. Sa accogliere e accogliersi. Sa compiacersi del bene che riscontra negli altri. E questo alla fine testimonia: che fare il bene è difficile, ma non è impossibile; evitare il male è difficile, ma non è impossibile; custodire il bello è difficile, ma non è impossibile.
Dall’incrocio dell’attenzione per la singolarità, della precisione dello sguardo e della gioia dell’accoglienza, prende forma il cosciente/sapiente stupore per la vita. Nulla di bello viene alla luce senza un gesto di stupore: stupore per quella gratuità con cui siamo stati offerti a noi stessi, con la nostra intelligenza, il nostro cuore, le nostre lacrime, il nostro tempo, la nostra libertà, e soprattutto la possibilità di amare.
Che cosa dirti, allora, in conclusione di questo viaggio? Innamorati del sapiente che c’è in te, continuamente disponibile a stupirti del mistero che sei.
Per continuare a riflettere
Ti offro ora alcune parole davvero illuminanti di Simone Weil, una pensatrice francese di grande spessore e carattere. La sua opera e la sua testimonianza di inesausta ricerca della verità continuano ancora oggi ad essere fonte d’ispirazione per tanti uomini e tante donne.
Oggi sembra che lo si ignori, ma lo scopo reale e l’interesse quasi unico degli studi è quello di formare la facoltà dell’attenzione. [...] Se c’è un vero desiderio, se l’oggetto del desiderio è veramente la luce, il desiderio della luce produce la luce. C’è un vero desiderio quando c’è uno sforzo di attenzione. E si desidera veramente la luce quando non è presente nessun altro movente. Quand’anche gli sforzi dell’attenzione rimanessero in apparenza sterili per anni, vi sarà un giorno in cui la luce, esattamente proporzionale a quegli sforzi, inonderà l’anima. Ogni sforzo aggiunge un poco d’oro a quel tesoro che nulla al mondo può rapire. [...] Questa funzione del desiderio permette di trasformare lo studio in una preparazione alla Vita Spirituale, poiché il desiderio orientato verso Dio è la sola forza capace di elevare l’anima. Certo è soltanto Dio che discende ad afferrare l’anima e ad elevarla, ma soltanto il desiderio costringe Dio a discendere. Egli viene soltanto per quelli che gli chiedono di venire; a quelli che glielo chiedono spesso, a lungo, ardentemente, egli non può rifiutarsi.
(S. Weil, Attesa di Dio, Borla, Torino 1970, 70-71)
Per la preghiera
Dopo aver pregato, le volte precedenti, con l’aiuto di testi dell’Antico Testamento, ti propongo ora il capitolo 12 della Lettera ai Romani di San Paolo. È un vero e proprio programma di vita, da cui tutti potremmo imparare qualcosa.
Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto. Per la grazia che mi è stata concessa, io dico a ciascuno di voi: non valutatevi più di quanto è conveniente valutarsi, ma valutatevi in maniera da avere di voi una giusta valutazione, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato.
Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri. Abbiamo pertanto doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi. Chi ha il dono della profezia la eserciti secondo la misura della fede; chi ha un ministero attenda al ministero; chi l’insegnamento, all’insegnamento; chi l’esortazione, all’esortazione. Chi dà, lo faccia con semplicità; chi presiede, lo faccia con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con gioia.
La carità non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore. Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità.
Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi.
Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto questo dipende da voi, vivete in pace con tutti. Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina. Sta scritto infatti: A me la vendetta, sono io che ricambierò, dice il Signore. Al contrario, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere: facendo questo, infatti, ammasserai carboni ardenti sopra il suo capo. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male.
Un libro da non perdere
J. Gaarder, Il mondo di Sofia. Romanzo sulla storia della filosofia, Longanesi, Milano 19942.