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    Vangelo e volontariato, spazi di incontro tra chiesa e giovani


     

    Intervista a Domenico Sigalini

    (NPG 2007-01-13)


    Domanda. Lei ha partecipato (prima come responsabile del servizio nazionale di PG, poi come vescovo) a tutte le GMG.
    Esse sono state certamente rivelatrici non solo di una intuizione pastorale di Giovanni Paolo II, ma anche di un nuovo modo di essere e sentirsi chiesa da parte dei giovani: questi hanno potuto uscire dal loro isolamento, hanno avuto l’opportunità di esistere socialmente (e «corporalmente»), di rendersi presenti nello spazio pubblico, oltre ad avere momenti di comunione (tra loro e con Dio) e di incontri interculturali.
    Tutto ciò rivela qualcosa sulla Chiesa e sul modo di essere chiesa (o cristiani) da parte dei giovani.
    Come commenta questo fatto?

    Risposta. Nelle GMG i giovani si sono sentiti per la prima volta una generazione valorizzata in quanto tale nella Chiesa e vorrei dire anche nella società. Non dimentichiamo che il Papa ha mobilitato tutta la struttura portante della chiesa per loro. Attorno a sé voleva vescovi e cardinali, movimenti e associazioni, capi di governo e politici, televisioni e testate giornalistiche Chi mai è riuscito a mobilitare, spesso di ferragosto, tutta questa gente determinante per la vita della chiesa e del mondo attorno ai giovani? Per una settimana ogni due anni i giovani si sono sentiti almeno rispettati e sono stati descritti per il dono e la risorsa che sono e non per i misfatti che compiono. È un fatto che ha in sé il suo valore. Se poi non è solo immagine, perché l’esperienza delle GMG tocca il cuore delle persone e la loro scelta di fede, allora si può dire che i giovani possono vedere in questi appuntamenti uno spazio da offrire e da vivere con sempre maggior consapevolezza, di non essere una generazione da scarto, ma una generazione da assalto, che offre e si aspetta un ruolo nel mondo.
    Nella Chiesa l’effetto è stato ancora più evidente perché dalle GMG i giovani sono diventati l’attenzione personale e esplicita di ogni vescovo, cosa che prima non capitava; quindi hanno potuto contare su una Chiesa dialogante che è costretta a fare un posto o a crearlo o a ridefinirlo per loro. I sinodi per i giovani e molti uffici di pastorale giovanile sono nati dalle GMG.

    D. Un’altra modalità viva e coinvolgente dei giovani verso l’essere credenti è costituito dalla presenza di nuovi movimenti, che certamente puntano molto sui contenuti di fede e sulla comunità, ma corrono anche il rischio di puntare sulla dimensione emozionale e di porsi in contrapposizione alle istituzioni ecclesiali.
    Quale la sua posizione di vescovo, al positivo e al negativo?

    R. I nuovi movimenti sono una necessità espressiva del mondo di oggi e a maggior ragione dei giovani. Come non esiste più una gioventù sola, ma tanti volti e raggruppamenti di giovani, così anche la chiesa si è arricchita di tutte le loro molteplici espressività di vita cristiana. Molti gruppi o movimenti giovanili sono sorti spontaneamente e portati avanti con intelligenza da bravi animatori. Non sono i famosi gruppi spontanei degli anni Settanta, ma gruppi di spiritualità, di ideali nuovi, di comunicazione tramite web, di obiettivi, di vocazioni. Desidererebbero anche farsi preti o suore in movimenti come questi.
    Come vescovo dico sempre che è meglio litigare tra le tante espressività del mondo giovanile che avere la pace del cimitero. Il problema poi della dimensione emozionale o della eventuale contrapposizione non mi pare rappresenti una deriva. Rappresenta una modalità da far crescere la prima e da approfondire come scelta radicale di vita cristiana la seconda, non certo da cancellare.

    D. La socializzazione religiosa oggi è profondamente mutata, quando non più funzionante (almeno per i giovani). I dispositivi pastorali per accostare ragazzi e giovani che hanno funzionato per tanti secoli ora sembrano limitarsi e terminare con la preadolescenza e la confermazione.
    Parrocchia e oratorio sembrano esprimere una modalità di relazione con la chiesa in fase di superamento (territoriale e locale come opposti al movimento e all’internazionale).
    Quali le ragioni, quali gli interrogativi posti alla pastorale?

    R. La socializzazione religiosa era data soprattutto dalla vita familiare e dalla appartenenza alla parrocchia. La famiglia oggi non socializza più al mondo religioso, e il riferimento automatico alla parrocchia, soprattutto nelle città, ma anche nelle grosse borgate, e al mondo cattolico o ecclesiale non esiste più da un pezzo. Questo esige che la comunità cristiana entri nei circuiti della loro vita, dei loro gusti, dei loro interessi, delle loro mode, dei loro mondi comunicativi. Noi oggi siamo ancora fermi all’invito alla riunione in parrocchia con un bigliettino. Questo non è più un canale che raggiunge il giovane. Loro hanno i loro tam tam, i loro canali, le loro attese, i loro riconoscimenti: questi occorre abitare. Un luogo viene frequentato dal giovane se ha un riconoscimento almeno nel loro gruppo di amici.
    Che facciamo per rendere le nostre iniziative capaci di dirsi senza timore nei loro dialoghi tra pari o nei loro ambienti? È solo seguire la moda e il principio del successo o è darci da fare per essere capaci di comunicare le grandezze e le bellezze che possediamo di vita cristiana nel loro mondo?
    Che un ragazzo dopo la Cresima se ne vada è scritto indipendentemente da noi come un forte metamessaggio nel modo con cui li prepariamo alla Cresima e nell’assetto di una comunità che potrebbe continuare successivamente. Che cosa presenta una parrocchia media a degli adolescenti oltre alla famosa riunione di gruppo che loro sostituiscono con una sms list? Che volto offriamo per i loro circuiti: scolastici, sportivi, del tempo libero, della musica? Come interpretiamo la scoperta di un mondo nuovo che abita ogni ragazzino o ragazzina di terza media che va alla scuola superiore? A loro sembra di conquistare un mondo nuovo e noi ripresentiamo quello di sempre. C’è un salto qualitativo di apertura, di interessi nuovi, di nuovi giri di amicizia, di nuove sfide alla libertà, di nuovi rapporti con i genitori nelle nostre proposte ecclesiali?
    Se si decide che un oratorio è necessario per educare alla fede le giovani generazioni, si fa una scelta molto impegnativa; non coincide con l’allargare il campo sportivo o col predisporre alcuni locali. Si tratta di offrire agli adolescenti e ai ragazzi degli spazi di tempo libero che possono competere o per lo meno stare alla pari con quelli della loro vita di tutti i giorni. Non possono essere squallidi, buttati lì a caso, luoghi in cui si va a posare le ossa quando non si sa dove andare, passivi, abitati solo da chi non ha fantasia di crearsi un tempo libero proprio. Devono interpretare la loro ricerca di amicizia, la loro sete di contare, il loro interesse per il mondo, la loro passione per la musica, i loro primi approcci affettivi. Esigono una comunità che si preoccupi del loro tempo libero come si preoccupano i proprietari di pub e di sale musicali. Entro questo ambiente deve trovare posto intelligente, ben definito, nobile, attrezzato, preparato e pensato il dialogo serio sulla fede, sulla vita cristiana, la conoscenza di Gesù, senza nascondersi dietro un dito e senza dare per scontato che questa parte è un dovere per chi viene all’oratorio. L’oratorio è una piazza che fa proposte con tante bancarelle, tutte orientate a dare alla vita il senso che la fede è capace di sprigionare da ogni esistenza.
    Non può essere ridotto alle aule di catechismo, nemmeno solo alle stanze da gioco, ma è un intreccio educativo serio tra fede e vita, e la vita è quella dei ragazzi di oggi che vengono interpretati da un campo di calcio forse solo al due per cento. Sono più interpretati dalla musica, dallo stare insieme, dal mondo delle comunicazioni…
    Non è detto che per educare i giovani occorra tutto questo, ma se lo si decide, se ci si cimenta su un ambiente che fa da ponte tra la strada e la chiesa, occorre che sia un vero ponte, non una strada o una sacrestia.

    D. Tempo e spazio dell’esperienza dei giovani contrastano con quello dell’esperienza ecclesiale.
    I giovani oggi privilegiano i tempi e momenti forti rispetto alla durata e alla quotidianità; futuro rispetto a memoria; il pellegrinaggio e happenings (dunque esposizione sociale e mediatica) rispetto al territoriale…
    Come farli dialogare? Come passare dai tempi forti ai tempi quotidiani, dall’internazionalità alla località?

    R. La quotidianità deve essere sempre proposta. Ogni comunità cristiana deve rendere possibile cammini quotidiani; se anche solo pochi giovani li frequentano, sono sempre un segno per tutti gli altri. Le attività straordinarie sono provocate proprio dal piccolo del quotidiano.
    Se abolissimo la quotidianità della parrocchia o della associazione non avremmo lo straordinario. Il problema di far consistere solo nel quotidiano o nel settimanale l’educazione alla fede o la formazione oggi va articolato su esperienze varie. Abbiamo assolutizzato la riunione di gruppo come unico momento formativo.
    Non è la riunione che educa, ma la relazione di gruppo, e questa può essere mantenuta con diverse forme di aggregazione, iniziative, esperienze purché siano collegate. Tenendo conto poi che sono pochi quelli che partecipano con regolarità, la consapevolezza di questo ci porterebbe ad essere più creativi, ad abitare di più le scuole e gli spazi di vita dei giovani.

    D. Anche altri elementi rientrano nel campo religioso odierno dei giovani (adulti): una diversa attenzione al corpo, il rapporto con lo straniero, una ricerca relativistica del meglio da tutto, una visione individualistica della religione e della loro felicità…
    Come possono i giovani riappropriarsi di questo nella chiesa?
    Intravede uno nuovo spazio ecclesiale attraente per i giovani?

    R. Uno spazio attraente è quello del silenzio e delle proposte qualificate di ascolto della Parola di Dio e quello del volontariato. Molti giovani chiedono di capire, di capirsi, di ascoltare qualcosa che va oltre le solite cose e molti di più sono disposti a fare. Solo che non si riesce a intercettare questa volontà per vari motivi:
    - il nostro linguaggio, spesso troppo approssimato e incomprensibile;
    - la mancanza di ambienti in cui accogliere queste domande; o, se ci sono gli ambienti, non sono orientati a questo;
    - le scarse relazioni personali, che oggi fanno la differenza nell’incontro coi giovani, da parte della comunità cristiana;
    - una percezione troppo debole della gratuità della chiesa nei loro confronti;
    - un collegamento tra i vari ambienti ecclesiali che si allargano al territorio e non solo alla parrocchia; in una cittadina i giovani non possono essere smistati per parrocchie, ma pur curando l’appartenenza alle parrocchie, devono poter incontrarsi su progetti comuni e in spazi intercambiabili.

    D. Quale il suo giudizio sul bisogno di esperienza religiosa e spiritualità «forte», molte volte intimista o vissuta solo all’interno di gruppi o movimenti emotivamente coinvolgenti… Cosa c’è di «vero» e soprattutto come ci sfida... soprattutto una PG che punta sull’educativo ed è dunque sempre un po’ diffidente rispetto a queste forme?

    R. Una PG che punta sull’educativo è capace di aiutare tutte le esperienze anche le più intimiste a dialogare: basta rispettarle nel loro carisma, chiedere loro servizi e accoglienza, e immaginare che i giovani non sono fatti con lo stampino e che per un certo periodo della vita a qualcuno fa proprio bene una esperienza un po’ chiusa. Penserà la vita e la comunione ecclesiale ad aprire. Per i giovani che ci sono oggi abbiamo bisogno di tutte le esperienze, purché valide; la varietà non è il problema principale. Il problema principale è che pur con tante varietà, la maggioranza dei giovani è di nessuno.

    D. Quali le possibilità di una trasmissione creativa della fede per questi giovani diversamente socializzati, oltre quelle (staticamente) offerte dall’ambiente parrocchiale?
    E a questo proposito, rispetto alla trasmissione della fede, non crede che venga soprattutto sottolineato l’aspetto di un’eredità da accogliere e conservare piuttosto che di una proposta significativa da fare?

    R. Nel nostro mondo italiano la possibilità che un giovane «incappi» in qualche bella esperienza religiosa è molto alta: pensiamo alla capillarità delle parrocchie, alla scuola, ai santuari, ai religiosi e alle religiose, alle esperienze di volontariato, alle pagine Internet, ai movimenti e alle missioni di strada, alla radio e alle trasmissioni religiose, alle stesse pratiche sacramentali… Occorre che tutti questi attori si diano un colpo di reni e si convincano che per i giovani che incontrano è sempre in gioco la fede e non un indice di gradimento o un piccolo potere o una tradizione. Arrivano sempre con domande vere e queste opportunità non possono essere consumate nell’insignificanza o nella controtestimonianza.
    La parola trasmissione non piace molto ai giovani e non è la migliore che si deve usare; proprio perché la vita cristiana è incontro tra ciò che la Parola ha da offrire a questi giovani e ciò che questi giovani hanno da offrire alla Parola. Trasmissione dice solo la prima parte.

    D. Dove trovare per i giovani oggi il «punto d’acqua» (At 8, 36), la sorgente, che possa permettere loro di accedere a un’esperienza interiore di sé e di Dio? Quale l’esperienza spirituale che scaturisce o può scaturire dalla loro vita? Quali itinerari di vita e di Vangelo suggerisce?

    R. Vedo che i giovani ascoltano sempre molto volentieri il vangelo. Amano sentire parlare di Gesù; ascoltano con gioia di essere interpretati da Lui nelle loro pulsioni interiori. Occorre riuscire a innamorarli del vangelo, farglielo capire, aiutarli a scandagliarlo, ad andare al cuore di Gesù, che palpita dentro ogni parabola, dentro ogni diatriba, dentro ogni segno. Poi occorre aiutarli a riesprimerlo con i loro linguaggi, a caricarlo della loro gioia di vivere, della loro vita scanzonata, del loro entusiasmo e delle loro sofferenze. E questo lo sanno fare con la musica, con l’arte, col gioco, con le pagine web, con gli sms.


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