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    L’eredità di Verona


     

    Racconto storico-sapienziale del Convegno

    Cesare Bissoli

    (NPG 2007-03-04)


    A Convegno concluso, un po’ ovunque nelle comunità italiane si sta facendo il bilancio, come si dice, cercando di individuare il tracciato che ne è uscito. Anche la pastorale giovanile - pur con una certa marginalità materiale al Convegno, ma ai giovani si è pensato e di essi si è parlato - ne sta facendo tema di confronto e di ispirazione, sia a livello di Servizio Nazionale di PG nella CEI, come nell’ambito dell’Azione Cattolica, sia nelle diverse diocesi e parrocchie. Consapevole del valore del Convegno, vi mette particolare attenzione anche il Centro Salesiano di PG, con questo numero di NPG.
    Questo intervento di apertura mira a fare una lettura sintetica che colga i tratti che, a mio parere, meritano siano accolti come eredità, rimarcando la prospettiva giovanile.
    Sottolineerò tre coordinate: la collocazione del Convegno nella Chiesa in Italia (un cammino che ha senso); l’osservatorio del Convegno (i punti caldi); il futuro del Convegno (sfide, risorse e compiti).

    UN CAMMINO CHE HA SENSO
    La collocazione del Convegno nella Chiesa in Italia

    In NPG del febbraio 2006, presentando il futuro Convegno di Verona, avevo messo all’inizio una espressione che secondo me ne delineava, e ancora oggi ne fissa sinteticamente, il profilo: «Un cammino che ha senso», dove il fattore dinamico è stato al centro del Convegno. Non si trattava di un incontro, magari ampio e ben preparato, come di fatto fu, in vista di fare commemorazione di qualche scadenza significativa (ad esempio, i dieci anni dal convegno di Palermo), e nemmeno aveva lo scopo di pervenire a qualcosa di concreto, come capita nelle convention dei partiti, da cui escono una precisa carta programmatica e l’elezione del segretario. A Verona ci sono stati diversi interventi, quello di Benedetto XVI anzitutto, ma da prendere tutti come orientamenti di marcia, avendo come punto fisso di riferimento, questo sì, Gesù Risorto speranza del mondo, dove per altro il motivo della risurrezione e della speranza spingono necessariamente lo sguardo in avanti.
    Questa figura del cammino corrisponde in fondo alla identità del popolo cristiano, per natura pellegrinante, in tensione escatologica. Lo ha sottolineato fortemente il Card. D. Tettamanzi nel discorso di apertura in Arena, e dovrebbe essere considerato come uno dei punti caldi che toccherò più sotto.
    Ad un livello storico, concreto, del qui e ora, la figura del «cammino» richiama la Chiesa alla sua vocazione specificamente missionaria. Ed infatti è la consegna che si è data la Chiesa italiana all’inizio del terzo millennio nei suoi Orientamenti pastorali raccolti in «Comunicare il vangelo in un mondo che cambia» (2001).
    A Verona dunque approdava una Chiesa messasi in cammino missionario, a partire dal Concilio, con questa convinzione significativa espressa nel citato documento programmatico:
    «Guardando agli anni dal Concilio fino ad oggi, ci pare di poter dire che la Chiesa italiana ha cercato di interrogarsi in profondità e l’ha fatto seguendo… il cammino della fede che nasce dall’ascolto e che attraverso l’esperienza vissuta si fa testimonianza dell’amore di Dio e condivisione con tutti gli uomini della speranza e della gioia cristiana» (n. 6).
    Dunque il Convegno di Verona, alla luce del rinnovamento conciliare, è venuto ad operare una verifica, una ripresa e un rilancio del piano pastorale decennale, affermandolo come proprio contesto vitale, senza del quale nemmeno il Convegno avrebbe assunto un senso pieno, esposto invece ad una sterile frammentazione di lettura. Ripetiamolo ancora una volta: il Convegno di Verona, se inteso chiuso in se stesso, sarebbe morto il giorno dopo che è stato concluso.
    Verona è stata piuttosto un posto di transito, come lo è simbolicamente la sua stessa collocazione geo-storica, scaturente dal Piano pastorale di inizio millennio, anzi prima ancora da una ispirazione conciliare tenacemente voluta, e progredente alla luce di orientamenti in precedenza dati, e ora a Verona come messi a fuoco e incentivati nelle idee, ma ancora prima nel cuore.
    Il Convegno di Verona è stato una cosa di cuore, nel senso biblico del termine, i cui stimoli di marcia raduniamo in certi punti caldi, di cui ora ci interessiamo.

    PUNTI CALDI
    L’osservatorio del Convegno

    Uno stile di essere Chiesa

    Questi Convegni di Chiesa esprimono un’esperienza che vale per sé. È stata l’esperienza dei quasi tremila partecipanti. Una Chiesa vestita a festa, se si vuole, come nel giorno di nozze, per un breve, ma intenso momento, fatto di segni, il più visibile quello della comunione fra tutte le diocesi italiane, concretamente tra uomini e donne, vescovi e laici, presbiteri, consacrati, membri di movimenti e parrocchie; una Chiesa, attenta ad esprimere la propria anima, il suo mondo interiore, quello dei pensieri (c’è una cultura cattolica in Italia), della fraternità (grazie per questo alla cordiale e fine ospitalità della Chiesa di S. Zeno), della preghiera, così ben modulata, una Chiesa aperta alla fiducia, sensibile al mondo di oggi. Si era sistemati nel cuore della Fiera di Verona, luogo per eccellenza di mercato, per questo freddo e funzionale nella sua architettura, ma questa volta si era trasformato in un mercato del cuore, come ai primi tempi di cui parlano Atti degli Apostoli. L’ultimo ricordo lo dedichiamo alla memoria dei Santi nell’Arena. Per chi conosce quale passerella di notorietà sia l’Arena di Verona, specialmente in ambito musicale, sarà rimasto ancora più colpito dai 220 volti di santi e sante illuminati nel buio della sera, nomi conosciuti, ma la maggioranza sconosciuti, che hanno fatto le radici della Chiesa in Italia, dai primi secoli - si può dire quando l’Arena fu costruita - fino ad oggi. Ebbene, una tale visione aveva in sé l’efficacia di un segno di speranza, più efficace di tanti discorsi.
    Sono convinto che un convenire ecclesiale a diversi livelli faccia del bene alle nostre comunità, anche giovanili, talvolta povere di esperienze come queste. In fondo si comprende la Chiesa se la si prova.

    Un «Concilio in italiano»

    La bella esperienza del convenire non era affatto la pausa di un sedativo, per lasciar fuori della porta i problemi angustianti la Chiesa, quel «senso di distacco affettivo ed effettivo, con un affievolimento della presenza cristiana, specialmente tra i giovani», che aveva affermato alla vigilia La Civiltà Cattolica. [1] Lo si avvertiva bene nei lavori di gruppo. Ma si era anche alla ricerca di superare tale «senso di smarrimento e di incertezza». Ebbene, riprendendo anche qui un orientamento affermato con forza in «Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia», costante fu il riferimento al Concilio Vaticano II, contro fughe e arretramenti. Ne determinò bene la specificità il Card. Tettamanzi con l’invito a «tradurre il Concilio in italiano», ricevendo il testimone consegnato dai Padri conciliari all’inizio di Gaudium et Spes, quello di condividere le gioie e le sofferenze degli uomini di oggi.
    Non si tratta però di una ripetizione materiale ma, come ebbe a dire il Card. Ruini, di un «rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa e dei principi del suo insegnamento, continuità che ammette forme di discontinuità in rapporto al variare delle situazioni storiche ai problemi nuovi che via via emergono».
    Si può leggere tra le righe la ripresa di una nuova fase del progetto culturale, di cui facciamo cenno qui sotto, ma intanto ricordiamo che il compito immediato del Convegno stava nel rivisitare alcuni cammini ecclesiali in atto, in risposta alle sfide da cui oggi sono segnati per superarle con la forza della testimonianza.
    Si potrebbe dire che da Verona emerga un invito pastorale molto pratico: Chiesa italiana, riprendi in mano il Concilio nel solco tracciato dagli Orientamenti Pastorali per questo primo decennio del 2000, non per imbalsamare testi, ma per non perdere il filo del cammino, di un camminare insieme, giusto e sicuro.

    Gesù risorto speranza del mondo

    Ma prima ancora che al Concilio e ad altri documenti ecclesiali, vi sta il «documento vivo» del Risorto. Su questo argomento cuore del Convegno in quanto cuore della fede cristiana, diversi riferimenti sono presenti negli articoli successivi in NPG. Da parte mia, intendo rimarcare la rilevanza del tema nelle sue ramificazioni per il futuro della Chiesa. Lo ha proposto Benedetto XVI subito all’inizio del suo grande intervento, come una vertiginosa scalata in verticale, senza indugi, come di una realtà, il «mistero di Dio», non soltanto da assicurare dentro alla costruzione cristiana, ma da rendere visibile con convinzione assoluta, ragione e forza dell’essere cristiano e di farsene testimoni-portabandiera all’inizio di millennio. Si può dire - e questo è apparso ancora più marcatamente nell’Eucaristia allo stadio - che il Papa in un Convegno orientato necessariamente a cose importanti da fare, ha voluto mettere in luce, con un magistero vigoroso e intelligente, la componente mistica, contemplativa della Chiesa, per cui la riflessione su Cristo speranza del mondo si è profilata anzitutto come incontro personale con Cristo di ogni cristiano: «Solo se, come Cristo, non sono del mondo (ma di Cristo), i cristiani possono essere speranza nel mondo e per il mondo».
    È una «ontologia» del Risorto, e quindi non solo una «funzione» di esso, che sta al cuore del Papa, di fronte alle sabbie mobili di un indistinto religioso o di un sentimento umanitario che rischia di infiltrarsi nelle comunità cristiane, irretite da una simpatia puramente orizzontalista dell’evento cristiano, o tentate di minimalismo teologico per meglio essere accettati.
    Da questa «ontologia» del Risorto non si giunge al ghetto ecclesiale. Il Papa ne ricava tre grandi ricadute che appena nominiamo:
    - «Quel grande ‘sì’ che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza; come pertanto la fede nel Dio dal volto umano porti la gioia nel mondo»;
    - l’apertura fondata sulla speranza, in quanto sorretta dalla condizione escatologica, definitiva del Risorto, per cui camminiamo verso un futuro né incerto né pauroso, ma vi andiamo in compagnia di Colui cui andiamo incontro;
    - l’impegno della testimonianza, raccolta in alcuni nodi che ritroveremo.
    Prima di vederne l’applicazione nei successivi punti caldi, rammentiamo ancora una volta la piena consonanza con quanto diceva «Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia» nella sua prima parte, con una completezza ancora maggiore di «sguardo», in quanto considera Gesù nella globalità del suo mistero di incarnazione, di missione, di passione e quindi di risurrezione.
    In riferimento ad una pastorale giovanile, va colta dalle parole del Papa la provocazione, che si fa sfida: compiere le opere di Gesù, anzi prima ancora annunciarlo, è possibile (e cioè verace ed efficace) soltanto se l’animatore ha fatto - e continua fare - di Gesù un’esperienza personale profonda, mistica, tanto motivata razionalmente quanto esperita nell’esistenza. La triade che fa seguito, il «sì» alla vita, l’effetto speranza, la forza e la gioia di testimoniare, ne sarà una sicura verifica.

    «Rendere visibile il grande sì» della fede

    È diventata una convinzione profonda di Papa Benedetto, come ebbe a dire più volte ai giovani, dalla GMG di Colonia in qua: «Accettare Dio (Cristo), significa non perdere niente e ricevere tutto». E a Verona in termini espliciti: «Dio in Gesù Cristo ha detto un grande ‘sì’ all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza».
    L’affermazione, che vale ovviamente come assioma, non come ricetta, chiede anzitutto il riconoscimento delle aree della vita in cui la fede può portare il suo sì, altrimenti rimane frase retorica e incontrollabile. Sì alla fede come sì alla vita. Quale vita? La vita delle persone del nostro tempo. Converrà qui ricordare che i Convegni ecclesiali non sono nati come esibizione di qualcosa, fosse pure la fede, fuori dei sacri recinti, ma per esprimere la volontà di partecipare alla città dell’uomo con le risorse della fede. Dove quindi le alte motivazioni che portavano e portano il cittadino a pregare, si traducono subito, alla scuola del Maestro, in motivazioni che portano il credente ad essere cittadino che opera. L’attenzione si è portata subito sul concreto dell’esistenza, in continuità con gli Orientamenti pastorali che avevano invitato a porre l’interesse per gli ambienti di vita (n. 61), ma con una esplicitazione più articolata, dando forma così al contenuto più innovativo del Convegno, innovativo anche rispetto alla più tradizionale usanza di trattare tematiche direttamente religiose, come l’eucaristia, la preghiera, la carità… Si è voluto in certo modo non portare le realtà terrestri nella fede, ma la fede dentro la realtà umana colta nelle sue manifestazioni più significative, bisognose di luce e di consolazione, quali il mondo degli affetti, il tempo del lavoro e della festa, la situazione di fragilità come sono la malattia e la sofferenza nelle forme più svariate, il compito della tradizione, ossia della trasmissione dei valori alle generazioni nuove (e qui l’attenzione ai giovani diventava primaria), infine l’impegno di cittadinanza con le sue espressioni sociali e politiche. Non è qui il tempo di sviluppare i contenuti specifici, nelle domande e nelle risposte. Merita vedere gli Atti.
    I risultati confluiscono globalmente in due indicazioni di fondo, di particolare rilievo in una educazione giovanile: una visione dell’uomo o antropologia caratterizzata in senso cristiano, rispetto alle antropologie secolarizzate in circolazione, e dunque una presa in considerazione di problematiche acute riguardanti il rapporto verità-valore, il senso di libertà, il relativismo e la scelta morale, la valutazione delle scienze e del loro apporto… per sfociare ovviamente non in una riflessione filosofica, ma in concrete operazioni di carità, nel senso alto di competente intervento per amore della vita di una persona.
    La seconda indicazione è riassumibile nella categoria della testimonianza. Di essa ora ci occupiamo come quinto «punto caldo».

    Dalla presenza alla testimonianza: essere cristiano come laico

    «La comunità cristiana - annota Mons. F. Lambiasi - non può dare conto della speranza che l’abita senza la testimonianza dei cristiani laici. Proprio i laici (maggioranza al Convegno) hanno mostrato il volto sereno e maturo dell’assemblea veronese e ne sono stati i protagonisti umili, responsabili e costruttivi». Ne aveva in certo modo rivendicato la validità il Card. Tettamanzi, richiamando ancora una volta il Concilio e affermando: «È venuta l’ora in cui la splendida teoria conciliare sul laicato diventi un’autentica prassi ecclesiale». Quali possono essere i vettori di questo salto di visibilità?
    All’interno della comunità, il Cardinale di Milano ha invocato il trinomio di «comunione, collaborazione e corresponsabilità». Annota ancora Mons. Lambiasi: «Nonostante i molti passi in avanti, subiamo ancora gli effetti di un’anacronistica frammentazione e dello scarso riconoscimento dell’esperienza ‘mondana’ dei laici nel pensare e interpretare la missione cristiana. Su di essi il Convegno ha concentrato fiducia e attesa; non rispondere con maturità sarebbe sprecare la grazia di questo momento». Cosa del tutto vera, anche soltanto considerando l’alto livello dei contributi dei laici al Convegno con le loro relazioni. Su undici interventi, tre erano di ecclesiastici, uno soltanto di un presbitero in quanto teologo, gli altri otto erano di laici.
    Chiaramente proprio la logica del discorso portava sulla testimonianza come modalità specifica di impegno laicale e insieme verifica del medesimo.
    In un bell’articolo in Aggiornamenti Sociali del dicembre 2006, P. B. Sorge, con la competenza che lo accredita, ha visto nella Chiesa italiana il dipanarsi di un percorso che va dalla scelta religiosa di Paolo VI, alla presenza di una Chiesa intesa come forza sociale da parte di Giovanni Paolo II, alla testimonianza in forza della fede che dà «il senso e l’orientamento dell’esistenza», per Benedetto XVI. Secondo il leitmotiv del Convegno, «Testimoni di Gesù risorto speranza del mondo», il binomio speranza-testimonianza ha fatto da volano operativo (come la memoria di Cristo Risorto lo è stato nell’ordine delle motivazioni), portando prima a riflettere a tutto campo sui nodi cruciali dell’esperienza di fede e delle modalità della sua comunicazione. E non vi è dubbio di essere legittimamente preoccupati su alcuni problemi e tendenze del presente che L. Caimi riassume così: «‘Disagio’del soggetto, crisi dei rapporti familiari, neo-scientismo, forme vecchie e nuove di povertà, fenomeni migratori, frammentazione socio-politica, illegalità, ecc. Ma tale sguardo non ha impedito di cogliere i molteplici fermenti di bene e di generosità diffusi nel tessuto sociale, ad alimentare il quale concorrono in modo significativo i credenti».
    Finalmente lo sguardo sapienziale del discernimento, sorretto dalle ragioni di fondo dell’ottimismo cristiano riposanti sulla certezza dell’amore di Dio per il mondo, porta la testimonianza a farsi azione. Gli ambiti maggiori li abbiamo già indicati: rappresentano l’area dell’«umano significativo».
    Le modalità della testimonianza sono orientate dal Papa in due direzioni.
    * La prima direzione riguarda la realtà stessa del mistero di Dio, in quanto «la nuova ondata di illuminismo e laicismo» per cui «la libertà individuale viene eretta a valore fondamentale al quale tutti gli altri dovrebbero sottostare», fa sì che «così Dio rimane escluso dalla cultura e dalla vita pubblica, e la fede in Lui diventa più difficile, anche perché viviamo in un mondo che si presenta quasi sempre come opera nostra, nel quale, per così dire, Dio non compare più direttamente, sembra divenuto superfluo, anzi estraneo». Al polo opposto si accompagna una ricerca religiosa cui attendere, come ad esempio ha cercato la «Cattedra dei non credenti» del Card. Martini a Milano, ma anche prendendo le distanze dai cosiddetti «atei devoti», fautori di una «religione civile», che puntano piuttosto a strumentalizzare la fede cristiana a fini politici. Già il solo cenno a cui è chiamata la testimonianza del credente (laico) in questa prima direzione indica l’elevatezza e la finezza della proposta, della cui ricaduta in ambito di pastorale giovanile avvertiamo le esigenze formative. Non per nulla il Papa Benedetto ha espresso con tutta chiarezza una parola piuttosto dimenticata: «educazione». L’accenniamo tra le sfide.
    * La seconda direzione, che in certo modo garantisce la prima e la rende convincente, non sta certo nel cedere alla sovraesposizione mediatica o alla collusione con il potere (tentazioni ricorrenti del «narcisismo» ecclesiale), ma dando la priorità a molteplici testimonianze di carità negli ambiti quotidiani nei quali si articola l’esperienza umana. Merita che ne parliamo come sfida, tanto deve essere «alto e luminoso il profilo specifico» di tali testimonianze, come avverte il Papa.
    Si può pensare, anche qui, quale decisivo impatto possa avere una coniugazione forte tra giovani e formazione alla «carità».

    SFIDE, RISORSE E COMPITI
    Il futuro del Convegno

    Verona è stata un osservatorio straordinario per riflettere su un cammino di Chiesa iniziato già prima, diciamo almeno dal Concilio in qua, per poter procedere con il coraggio della fede che guardando in avanti si chiama speranza.

    Avere speranza

    È la prima sfida e insieme risorsa che ci viene da Verona.
    Al Convegno si è parlato di speranza e sono apparsi segnali di speranza, che ora vanno posti come i paletti-guida nella non facile marcia della vita, in quanto forniscono le risorse necessarie per un buon procedere, «senza avere paura».
    La prima ed essenziale risorsa «è una Persona: il Signore Gesù, crocifisso e risorto. In Lui la vita è trasfigurata: per ciascuno di noi, per la storia umana, per la creazione tutta. Su di Lui si fonda l’attesa di quel mondo nuovo ed eterno, nel quale saranno vinti il dolore, la violenza e la morte, e il creato rispenderà nella sua straordinaria bellezza» (dal Messaggio finale).
    Una seconda risorsa che deriva dalla prima sono i cristiani che vivono la speranza ogni giorno, anche nelle situazioni più difficili. E qui la memoria - partendo dalla Prima Lettera di Pietro, lettera per eccellenza della speranza, scelta come testo-icona del Convegno, passando attraverso la visione dei santi - è diventata in certo modo la consegna, così circoscritta dal Card. Tettamanzi nella sua prolusione tutta dedicata alla speranza: «Occorre parlare non solo di speranza, ma anche anzitutto con speranza», cioè mostrandone i frutti nel proprio stile di vivere non aggressivo, né presuntuoso, né pessimista e ipercritico, ma fiducioso, aperto alla vita e operoso per la vita.
    Il citato Messaggio ha poi indicate così cumulativamente «le grandi sfide di oggi: la promozione della vita, della dignità di ogni persona e del valore della famiglia fondata sul matrimonio; l’attenzione al disagio e al senso di smarrimento che avvertiamo attorno e dentro di noi; il dialogo tra le religioni e le culture; la ricerca umile e coraggiosa della santità come misura alta della vita cristiana ordinaria; la comunione e la corresponsabilità nella comunità cristiana; la necessità per le vostre Chiese di dirigersi decisamente verso modelli e stili essenziali ed evangelicamente trasparenti».
    È l’indice di un’agenda ben carica, da cui riprendiamo alcuni aspetti più idonei ad un servizio ai giovani, da intendere come fattori motivazionali che precedono ogni azione concreta, tematizzati sostanzialmente dallo stesso Benedetto XVI e poi ripresi e in certo modo storicizzati dalla relazione conclusiva del presidente della CEI, Card. C. Ruini [2]. Sono tre: rapporto ragione e fede, la componente educativa, le testimonianze di carità.
    Poche battute per ciascuno.

    «La persona umana: ragione, intelligenza, amore»

    È la formulazione usata dal Papa stesso, diventata, come è noto, asse portante del suo Magistero, chiave di volta dell’interpretazione teologico-culturale che egli dà al tempo presente. Riflettendo sul rapporto tra il Logos eterno del Padre e il logos dell’uomo, creatura di Dio (è un capitolo di teologia, questo, del rapporto tra creatura e Creatore nella mediazione di Cristo di cui Benedetto XVI è sensibilissimo esperto), il Papa propone una visione che lui stesso chiama «affascinante», rigorosa nel rispetto del processo scientifico, ma proprio per questo plausibile nel ritenere «capovolta la tendenza a dare il primato all’irrazionale, al caso e alla necessità, a ricondurre ad esso anche la nostra intelligenza e la nostra libertà. Su queste basi diventa anche di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità, riportarla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme. È questo un compito che sta davanti a noi, un’avventura affascinante nella quale merita spendersi, per dare nuovo slancio alla cultura del nostro tempo e per restituire in essa alla fede cristiana piena cittadinanza».
    Da questa visione il Papa perviene a due conseguenze: il richiamo a una «fede amica dell’intelligenza», che deve indurre a proseguire nel lavoro di «argomentazione» delle ragioni del credere, sottraendo pertanto l’esperienza cristiana al rischio dell’«afasia» dinanzi agli incalzanti interrogativi dell’odierna socio-cultura; l’appello ad una prassi di vita caratterizzata dall’amore reciproco e dall’attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti. «Questa rimane la strada maestra per l’evangelizzazione: il Signore ci guidi a vivere questa unità tra verità e amore nelle condizioni proprie del nostro tempo, per l’evangelizzazione dell’Italia e del mondo di oggi». Anche l’Italia delle giovani generazioni. Ed infatti il Papa richiama subito « un punto importante e fondamentale, cioè l’educazione».
    Ma prima di procedere avvertiamo l’opzione pastorale del Papa di proporre una antropologia teologica o teologia antropologica, l’uomo e Dio in una unità di dialogo. L’importante è proporla come lui l’intende, di un Dio così amico dell’uomo, che l’uomo è intrinsecamente relazionato all’amicizia con Dio. La traduzione italiana di questa impostazione è chiamata «progetto culturale». Lo riconosce il Papa, definendola « un’intuizione felice e un contributo assai importante». Sarebbe toccato al Card. Ruini, il regista riconosciuto del «progetto culturale orientato in senso cristiano», annunciare l’avvio della «fase due» del «progetto» nella testimonianza missionaria dei laici, pronti ad «aiutare ogni uomo e donna con cui hanno a che fare a riscoprire lo sguardo della fede e saldare fede e vita negli spazi del quotidiano».
    Una domanda provocatoria: non sarebbe bene che anche gli animatori giovanili, alla luce delle parole del Papa, prendessero sul serio ciò che evoca «progetto culturale», proprio per la sua pregnanza culturale ed esistenziale, introducendovi i giovani, almeno a livello universitario? Purtroppo, forse a causa del nome un po’ «criptico», il «progetto» è rimasto «criptico» nella cosa che contiene. A mio parere la nostra educazione cristiana giovanile resta venata di un certo anti-intellettualismo, per dare spazio ad un volontarismo sperimentale ed emotivo, che non mette «al centro della cura pastorale la formazione di coscienze credenti ’adulte’, capaci, quindi, di legare, nell’unità della persona, libertà e responsabilità, dedizione ecclesiale e passione per il mondo» (L. Caimi). Il rimando al punto seguente è indispensabile.

    «Una questione fondamentale e decisiva: l’educazione della persona»

    Il soggetto di riferimento sono le «nuove generazioni». Merita ricordare la visione-proposta del Papa. Sono tre aspetti:
    - Il primo, riguarda l’area dei contenuti: «la formazione dell’intelligenza, della libertà e capacità di amare… con l’aiuto anche della Grazia»;
    - Il secondo aspetto indica l’obiettivo e insieme il metodo. Tenuto conto dello «squilibrio» di «una crescita così rapida del potere tecnico e quella più faticosa delle risorse morali», il Papa afferma incisivamente: «Un’educazione vera ha bisogno di risvegliare il coraggio delle decisioni definitive, che oggi vengono considerate un vincolo che mortifica la nostra libertà, ma in realtà sono indispensabili per crescere e raggiungere qualcosa di grande nella vita, in particolare per far maturare l’amore in tutta la sua bellezza: quindi per dare consistenza e significato alla stessa libertà».
    - Il terzo aspetto intende esprimere la motivazione religiosa profonda, articolata secondo l’originale intuizione di Benedetto XVI, spesso ripetuta, e già citata sopra: il sì di Dio alla vita. Ebbene, in ambito educativo, sono necessari «i nostri ‘no’ a forme deboli e deviate di amore e alle contraffazioni della libertà, come anche alla riduzione della ragione soltanto a ciò che è calcolabile e manipolabile. In verità questi ‘no’ sono piuttosto dei ‘sì’ all’amore autentico, alla realtà dell’uomo come è stato creato da Dio».
    Anche qui, prima di procedere, cogliamo il profilo di un’istanza educativa esigente, ma illuminante focalizzata nel trinomio di «intelligenza, libertà, capacità di amare», tramite il risveglio del «coraggio delle decisioni definitive» che sole danno maturità e gioia alla scelte della vita, apprendendo l’arte di dire dei «no», che appaiano l’altra faccia del «sì».
    È facile vedere come all’interno di questa sfida e della precedente, si profila quella che viene ritenuta la sfida per eccellenza della fede, determinata dal cambio profondo di antropologia, ossia di autocomprensione che l’uomo ha di sé, con luci e ombre inerenti, per cui non è più possibile ripetere cose antiche della tradizione senza la percezione delle nuove che stanno sbocciando, particolarmente nel mondo giovanile.

    «Testimonianze di carità»

    È l’espressione di Benedetto XVI a conclusione del suo intervento. È un plurale che mira alla prassi (parlare di carità senza farla sarebbe una feroce ironia), conseguente alla visione della persona alla luce del Risorto, secondo le motivazioni dell’Enciclica Deus caritas est, ampiamente citata nel Convegno.
    L’area della carità corrisponde a tutti i bisogni dell’altro. I cinque ambiti esistenziali nominati prima ne diventano per loro natura ambiti privilegiati. Il Papa ne precisa due in cui egli vede «l’alto e luminoso profilo» che qualifica la carità cristiana
    - La prima testimonianza sarà sempre la carità verso i bisognosi, gli ammalati, gli emarginati, carità che trova «la sua espressione più alta nei Santi della carità».
    - La seconda testimonianza alta di carità il Papa la vede nell’assunzione di «responsabilità civili e politiche» da parte dei fedeli laici: «Cristo infatti è venuto per salvare l’uomo reale e concreto che vive nella storia e nella comunità». Il Card. Ruini su questo punto evidenzia quanto sia difficile eppur necessario esprimersi, tenuto conto della marginalizzazione riservata ai cattolici nella vita pubblica.
    In un quadro di pastorale giovanile si intravedono degli orizzonti che appaiono ancora troppo defilati nella formazione delle nuove generazioni. Si tratta globalmente di educazione alla carità, in quanto è la «carità che rende visibile l’amore di Dio nel mondo e rende così convincente la nostra fede nel Dio incarnato, crocifisso e risorto», la fede anzitutto dei giovani stessi.
    Confessiamolo: si dovrebbe fare molto, molto di più, a partire dal primo livello, ma non mancando l’appuntamento con il secondo, quello sociale-politico, di cui S. Pezzotta prima e L. Diotallevi dopo si sono fatti portavoce, ampiamente applauditi dai convegnisti.
    Conclusione
    L’Italia, come Chiesa, ma anche come paese, ha fatto «bella figura». Modo forse ingenuo di dire, ma che regge, se preso nel senso di una presenza di notevoli risorse ispirate dalla fede. Ricordiamo le tre volte in cui Benedetto XVI ha esplicitamente espresso la sua riconoscenza. La prima volta, dopo aver accennato che anche l’Italia è bisognosa di testimonianza evangelica, il Papa aggiunge: «L’Italia costituisce al tempo stesso un terreno assai favorevole per la testimonianza cristiana. La Chiesa, infatti, qui è una realtà molto viva, e lo vediamo…». Il teologo Brambilla ha insistito sul «volto popolare del cattolicesimo italiano». Una seconda volta, il Papa esprime «apprezzamento per il grande lavoro formativo ed educativo che le singole Chiese non si stancano di svolgere in Italia per la loro attenzione pastorale alle nuove generazioni e alle famiglie. Grazie per questa attenzione».
    La terza volta riguarda la testimonianza della carità, della quale «la Chiesa in Italia ha una grande tradizione (i Santi della carità) di vicinanza, aiuto e solidarietà verso i bisognosi… dà prova di straordinaria solidarietà verso le sterminate moltitudini dei poveri della terra. Grazie».
    Un grazie non di prammatica, meritato dalla Chiesa di questo paese, di certo non per fermarsi, ma per continuare «un cammino che ha senso».


    NOTE

    [1] «In Italia l’85% o più di battezzati hanno perso o stanno perdendo il senso di appartenenza alla Chiesa. Non si riconoscono più nei suoi valori e nei suoi simboli. Davanti ad una minoranza vivace (per lo più dell’associazionismo di vario segno) c’è la stragrande maggioranza che va lentamente e progressivamente alla deriva» (da Settimana, 5 novembre 2006, 2).
    [2] Le grandi relazioni del Papa, dei Card. Tettamanzi e Ruini, del teologo Brambilla e finalmente le Conclusioni dei lavori dei gruppi, dovrebbero essere oggetto di lettura meditata con il gruppo giovanile. Si trovano su www.chiesacattolica.it. È in preparazione una Nota dei Vescovi per il prossimo maggio 2007.


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