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    L’impegno cristiano nell’economico /2



    Luis A. Gallo

    (NPG 2007-03-46)



    IL LAVORO NELLE DICHIARAZIONI DEL MAGISTERO SOCIALE

    Più di una volta nell’esposizione precedente (cf NPG 8/2006) si è accennato a una tematica che è nel cuore stesso dell’economia e che merita perciò un’attenzione particolare, quella del lavoro. È infatti principalmente grazie all’attività dell’uomo nel suo rapporto con la natura che i beni materiali gli si rendono disponibili per soddisfare i suoi bisogni e anche i suoi desideri. Un’attività che, come si è visto, si è andata evolvendo in maniera quasi vertiginosa negli ultimi secoli.
    Del lavoro umano si è occupato il Magistero sociale della Chiesa, sollecitato soprattutto inizialmente dalla rivolta socialista del sec. XIX, che mise a nudo «la questione operaia». Esso, infatti, «si trova al centro stesso di quella «questione sociale»»; «è, in qualche modo, una componente fissa come della vita sociale, così dell’insegnamento della Chiesa»; è, persino, «una chiave, e probabilmente la chiave essenziale, di tutta la questione sociale» («Laborem exercens» nn. 2.3, corsivo del testo).
    Sia pure con una certa lentezza i documenti magisteriali andarono accompagnando l’evoluzione di tale questione con una sempre maggiore attenzione. L’Enciclica «Laborem exercens» di Giovanni Paolo II, un papa che da giovane conobbe personalmente la complessa realtà del mondo del lavoro, segnò indubbiamente uno dei punti più alti di una serie di interventi papali precedenti.
    Raccogliamo brevemente alcuni dei punti che sembrano più significativi in vista di un sempre più illuminato impegno cristiano in questo campo.

    Dimensioni antropologiche e sociali del lavoro

    Sin dal primo momento in cui cominciò ad affrontare la questione sociale, il Magistero si è premurato di sottolineare il senso umano del lavoro: esso è un’espressione di un essere personale, quale è l’uomo che lo realizza, e ciò gli conferisce la sua inalienabile dignità (cf «Rerum novarum» nn. 7.13). Proprio perché è tale, il lavoro «deve essere valutato e trattato non già alla stregua di una merce, ma come espressione della persona umana», sottolineò a metà del sec. XX Giovanni XXIII nella «Mater et Magistra» (n. 10).
    Ma è stato soprattutto Giovanni Paolo II, precisamente nella sua Enciclica dedicata al lavoro, colui che ha messo più nettamente in luce tale senso. Dice, infatti, nel suo esordio:

    «Il lavoro è una delle caratteristiche che distinguono l’uomo dal resto delle creature, la cui attività, connessa col mantenimento della vita, non si può chiamare lavoro; solo l’uomo ne è capace e solo l’uomo lo compie, riempiendo al tempo stesso con il lavoro la sua esistenza sulla terra. Così il lavoro porta su di sé un particolare segno dell’uomo e dell’umanità, il segno di una persona operante in una comunità di persone; e questo segno determina la sua qualifica interiore e costituisce, in un certo senso, la stessa sua natura» (corsivi del testo; cf anche «Centesimus Annus» n. 6).

    In questa realtà umana, spesso marcata da segni negativi, la fede cristiana coglie tuttavia uno spessore teologico. Lo fa appellandosi al fatto che lo stesso Gesù Cristo ha lavorato durante la sua vita terrena esercitando un mestiere. Lo enunciava già Leone XIII nella «Rerum novarum»:

    «Gesù Cristo confermò questa verità con l’esempio suo mentre, a salute degli uomini, essendo ricco, si fece povero ed essendo Figlio di Dio, e Dio egli stesso, volle comparire ed essere creduto figlio di un falegname; anzi non ricusò di passare lavorando la maggior parte della sua vita: Non è costui il fabbro, il figlio di Maria?» (n. 20).

    Alcuni decenni più tardi la Costituzione «Gaudium et Spes» del Vaticano II, nel portare a compimento il suo capitolo sulla dignità della persona umana, riprendeva tale idea e accennando all’Uomo nuovo, Gesù Cristo, che rivela pienamente il mistero dell’uomo, sostenne che con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo, e fra le altre cose «ha lavorato con mani d’uomo» (n. 22).
    Nella «Populorum Progressio» Paolo VI, ricollegandosi ad alcuni documenti precedenti, esplicitò maggiormente tale senso teologico. Si espresse nei seguenti termini:

    «Creato a immagine di Dio, ‘l’uomo deve cooperare col Creatore al compimento della creazione, e segnare a sua volta la terra dell’impronta spirituale che egli stesso ha ricevuto’. Dio, che ha dotato l’uomo d’intelligenza, d’immaginazione e di sensibilità, gli ha in tal modo fornito il mezzo onde portare in certo modo a compimento la sua opera: sia egli artista o artigiano, imprenditore, operaio o contadino, ogni lavoratore è un creatore. Chino su una materia che gli resiste, l’operaio le imprime il suo segno, sviluppando nel contempo la sua tenacia, la sua ingegnosità e il suo spirito inventivo. Diremo di più: vissuto in comune, condividendo speranze, sofferenze, ambizioni e gioie, il lavoro unisce le volontà, ravvicina gli spiriti e fonde i cuori: nel compierlo, gli uomini si scoprono fratelli» (n. 27).

    Giovanni Paolo II, poi, nella sua Enciclica «Laborem exercens» si appellò principalmente alle prime pagine della rivelazione biblica per esplorare la dimensione teologica del lavoro (nn. 4 e seg.), mettendo in luce

    «quel significato che esso ha agli occhi di Dio, e mediante il quale esso entra nell’opera della salvezza al pari delle sue trame e componenti ordinarie e, al tempo stesso, particolarmente importanti» (n. 24, corsivi del testo, e i nn. 24-27).

    Occorre aggiungere che, oltre a rilevare il valore personalistico del lavoro dell’uomo, il Magistero sottolineò anche sin dal principio il suo risvolto sociale («Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» n. 269). Infatti, se il Magistero iniziò a occuparsi di esso fu precisamente perché era sorta, come si è visto, la «questione operaia», la quale era in fondo una questione nata nell’ambito dei rapporti nel mondo del lavoro. Si trattava di illuminare tali rapporti con la luce del Vangelo affinché fossero retti dalla giustizia e non viceversa dalla soprafazione e dal sopruso di alcuni nei confronti di altri. Ciò portò a evidenziare la componente sociale del lavoro, considerandolo non già solo come qualcosa che interessava i singoli individui umani, ma anche la società come tale.
    Lo enunciava chiaramente Pio XI nella «Quadragesimo anno», che di tale enunciato tirava poi le logiche conseguenze, particolarmente in difesa degli operai:

    «È facile intendere che oltre al carattere personale e individuale si deve considerare il carattere sociale, come della proprietà, così anche del lavoro, massime di quello che per contratto si cede ad altri; giacché se non sussiste un corpo veramente sociale o organico, se un ordine sociale e giuridico non tutela l’esercizio del lavoro, se le varie parti, le une dipendenti dalle altre, non si collegano fra di loro e mutuamente non si compiono, se, quel che è più, non si associano, quasi a formare una cosa sola, l’intelligenza, il capitale, il lavoro, l’umana attività non può produrre i suoi frutti; e quindi non si potrà valutare giustamente né retribuire adeguatamente, dove non si tenga conto della sua natura sociale e individuale» (n. 70).

    E nella sua Enciclica sul lavoro Giovanni Paolo II specificava che, dopo aver confermato la dimensione personale del lavoro, si doveva arrivare al secondo cerchio di valori, che è ad esso necessariamente unito, la sua funzione di fondamento su cui poggia la vita familiare, diritto naturale e vocazione dell’uomo (n. 10a); aggiungeva ancora che il terzo cerchio di valori riguardava quella grande società alla quale l’uomo appartiene in base a particolari legami culturali e storici (n. 10b).

    «Tutto questo – sosteneva – fa sì che l’uomo unisca la sua più profonda identità umana con l’appartenenza alla nazione, ed intenda il suo lavoro anche come incremento del bene comune elaborato insieme con i suoi compatrioti, rendendosi così conto che per questa via il lavoro serve a moltiplicare il patrimonio di tutta la famiglia umana, di tutti gli uomini viventi nel mondo» (cf anche «Centesimus Annus» n. 6a).

    Il che gli offriva la possibilità di impostare l’intero discorso sul tema nelle nuove condizioni conflittuali (n. 13c.d) in cui il lavoro si è venuto a trovare nei tempi attuali sul fronte mondiale, tema al quale egli dedica l’intero documento.

    Umanizzazione delle condizioni del lavoro

    Conseguenza di quanto è stato rilevato nel paragrafo precedente fu la costante preoccupazione del Magistero per una maggior umanizzazione della condizione dei lavoratori.
    Quella in cui si trovavano gli operai – i proletari – al momento in cui Leone XIII iniziò la nuova strada dell’insegnamento sociale, era indubbiamente poco umana. Se ci fu un «manifesto del ‘48» non fu per motivi futili e inconsistenti: la maggior parte dei lavoratori svolgevano il loro compito in condizioni notevolmente negative. Erano deprivati della loro dignità umana.
    Certamente uno dei principali moventi del primo intervento papale fu la difesa della proprietà privata, contestata con forza dal movimento socialista del tempo in favore di una maggior giustizia nei rapporti tra capitale e lavoro. Ad essa il documento dedicò buona parte della sua esposizione, ma in essa non ebbe molto minore spazio la denuncia dell’ingiusta situazione degli operai e l’incalzante sollecitazione di condizioni più umane in loro favore.
    Infatti, quasi in apertura della «Rerum novarum» Leone XIII denunciava:

    «Soppresse nel secolo passato le corporazioni di arti e mestieri, senza nulla sostituire in loro vece, nel tempo stesso che le istituzioni e le leggi venivano allontanandosi dallo spirito cristiano, avvenne che poco a poco gli operai rimanessero soli e indifesi in balia della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza» (n. 2, corsivi nostri).

    E in maniera molto stringata e incisiva, non dissimile di quella dei profeti biblici, rivolgendosi a coloro che ne erano responsabili aggiungeva:

    «Si ricordino i capitalisti e i padroni che le umane leggi non permettono di opprimere per utile proprio i bisognosi e gli infelici, e di trafficare sulla miseria del prossimo. Defraudare poi la dovuta mercede è colpa così enorme che grida vendetta al cospetto di Dio» (n. 17).

    Ed è estremamente interessante constatare con quanta concretezza il papa abbia affrontato la questione. Merita di essere citato, malgrado la sua lunghezza, un testo nel quale ciò appare con nitidezza:

    «Non è giusto né umano esigere dall’uomo tanto lavoro da farne inebetire la mente per troppa fatica e da fiaccarne il corpo. Come la sua natura, così l’attività dell’uomo è limitata e circoscritta entro confini ben stabiliti, oltre i quali non può andare. L’esercizio e l’uso l’affina, a condizione però che di quando in quando venga sospeso, per dar luogo al riposo. Non deve dunque il lavoro prolungarsi più di quanto lo comportino le forze. Il determinare la quantità del riposo dipende dalla qualità del lavoro, dalle circostanze di tempo e di luogo, dalla stessa complessione e sanità degli operai. Ad esempio, il lavoro dei minatori che estraggono dalla terra pietra, ferro, rame e altre materie nascoste nel sottosuolo, essendo più grave e nocivo alla salute, va compensato con una durata più breve. Si deve avere ancor riguardo alle stagioni, perché non di rado un lavoro, facilmente sopportabile in una stagione, è in un’altra o del tutto insopportabile o tale che si sopporta con difficoltà. Infine, un lavoro proporzionato all’uomo alto e robusto, non è ragionevole che s’imponga a una donna o a un fanciullo. Anzi, quanto ai fanciulli, si badi a non ammetterli nelle officine prima che l’età ne abbia sufficientemente sviluppate le forze fisiche, intellettuali e morali. Le forze, che nella puerizia sbocciano simili all’erba in fiore, un movimento precoce le sciupa, e allora si rende impossibile la stessa educazione dei fanciulli. Così, certe specie di lavoro non si addicono alle donne, fatte da natura per i lavori domestici, i quali grandemente proteggono l’onestà del sesso debole, e hanno naturale corrispondenza con l’educazione dei figli e il benessere della casa. In generale si tenga questa regola, che la quantità del riposo necessario all’operaio deve essere proporzionata alla quantità delle forze consumate nel lavoro, perché le forze consumate con l’uso debbono venire riparate col riposo» (n. 33).

    Sarebbe lungo elencare la serie degli ulteriori interventi magisteriali a riguardo di questa tematica. Ce ne sono tantissimi. La vasta serie arriva a culminazione con l’enciclica sul lavoro di Giovanni Paolo II, nella quale la dignità dei lavoratori tanto a livello personale quanto a quello sociale, nel suo più largo raggio, occupa un posto veramente centrale, richiede di conseguenza che il loro lavoro venga svolto in condizioni sempre più adeguate ad essa e si modifichino quelle condizioni «di vergognosa e indegna miseria in cui vivono i milioni di uomini oggi» (n. 3c).

    Diritto al lavoro e disoccupazione

    Uno degli aspetti più rilevanti messo in evidenza dai testi magisteriali riguardanti l’economia è quello del lavoro come diritto dell’uomo.
    È già presente, anche se in modo alquanto sommesso, nella prima Enciclica sociale della storia, nella quale Leone XIII affermava:

    «Ha dunque il lavoro dell’uomo come due caratteri impressigli da natura, cioè di essere personale, perché la forza attiva è inerente alla persona, e del tutto proprio di chi la esercita e al cui vantaggio fu data; poi di essere necessario, perché il frutto del lavoro è necessario all’uomo per il mantenimento della vita, mantenimento che è un dovere imprescindibile imposto dalla natura» (n. 34, corsivi nostri).

    Affermando che è una necessità di natura, il papa afferma indirettamente che l’uomo ne ha un naturale diritto. Si tratta di una dichiarazione che venne ripresa più di una volta nel Magistero successivo.
    Così, Pio XII nel «Radiomessaggio di Pentecoste 1941» la commenta in questo modo:

    «[Il lavoro] è necessario, perché senza di esso non si può procurare ciò che è indispensabile alla vita, mantenere la quale è un dovere naturale, grave, individuale. Al dovere personale del lavoro imposto dalla natura corrisponde e consegue il diritto naturale di ciascun individuo a fare del lavoro il mezzo per provvedere alla vita propria e dei figli: tanto altamente è ordinato per la conservazione dell’uomo l’impero della natura» (n. 19, corsivi nostri).

    E Paolo VI nella «Populorum Progressio» ribadisce:

    «Ogni uomo ha diritto al lavoro, alla possibilità di sviluppare le proprie qualità e la propria personalità nell’esercizio della sua professione» (n. 14).

    Riferendosi poi alla reciproca dipendenza delle singole società e Stati e alla necessità di collaborazione da parte loro in vari settori, Giovanni Paolo II sostiene nella «Centesimus Annus» che

    «è necessario che il criterio di questi patti e di questi accordi diventi sempre più il lavoro umano, inteso come un fondamentale diritto di tutti gli uomini, il lavoro che dà a tutti coloro che lavorano analoghi diritti» (n. 18c).

    E parlando dei doveri dello Stato afferma che uno di essi è quello di sorvegliare e guidare l’esercizio dei diritti umani nel settore economico, specificando che in tale compito l’ultima responsabilità non è sua, ma dei diversi gruppi e associazioni in cui si articola la società, perché

    «non potrebbe lo Stato assicurare direttamente il diritto al lavoro di tutti i cittadini senza irreggimentare l’intera vita economica e mortificare la libera iniziativa dei singoli» (n. 48b).

    Il «Compendio della Dottrina sociale» sintetizza quanto è andato affermando il Magistero al riguardo in queste stringate parole:

    «Il lavoro è un diritto fondamentale ed è un bene per l’uomo: un bene utile, degno di lui perché adatto appunto ad esprimere e ad accrescere la dignità umana» (n. 287).

    Ora, proprio perché esiste tale diritto fondato sulle motivazioni di cui si è detto, la mancanza di lavoro, la disoccupazione forzata, è un fatto negativo che va combattuto e debellato. L’uomo ha il diritto alla vita e a ciò che gliela rende possibile e degna di essere vissuta.
    A dire il vero il tema appare in maniera esplicita per la prima volta, e per di più quasi appena accennata, nella «Mater et Magistra» di Giovanni XXIII. La si ritrova nel riferimento fatta alla situazione sociale descritta nella «Rerum novarum» (n. 8); si tratta, occorre riconoscerlo, di una rilettura dell’Enciclica di Leone XIII, perché in essa in realtà non se ne fa menzione. Una seconda allusione, di non maggiore entità, appare nell’esposizione di alcune precisazioni e sviluppi degli insegnamenti della stessa Enciclica (n. 41.66).
    Come si sa, la disoccupazione si è andata acuendo sempre maggiormente nel mondo intero, anche in quello cosiddetto sviluppato. Le periodiche statistiche degli organismi nazionali ed internazionali ne sono una palese conferma. Che il Magistero abbia iniziato a prenderla espressamente in considerazione è un segno di una sua maggior concretezza nell’affrontare la situazione sociale.
    Nella sua Lettera «Octogesima Adveniens» papa Paolo VI la annovera come primo tra gli effetti negativi che porta con sé la crescita smisurata delle città a causa dell’espansione industriale (n. 9).
    E Giovanni Paolo II la prende molto più ampiamente in considerazione nella «Laborem exercens». Anzitutto, elenca come prima tra le conseguenze delle nuove condizioni ed esigenze che richiederanno un riordinamento e un ridimensionamento delle strutture dell’economia odierna, nonché della distribuzione del lavoro, la disoccupazione di milioni di lavoratori qualificati (n. 1c), non esclusi gli intellettuali (n. 8d), e arriva a qualificarla come una «piaga» (n. 8e). Ad essa dedica poi l’intero n. 18, nel quale sostiene che

    «si deve prima di tutto rivolgere l’attenzione ad un problema fondamentale. Si tratta del problema di avere un lavoro, cioè, in altre parole, del problema di un’occupazione adatta per tutti i soggetti che ne sono capaci. L’opposto di una giusta e corretta situazione in questo settore è la disoccupazione, cioè la mancanza di posti di lavoro per i soggetti che di esso sono capaci» (n. 18a., corsivi del testo).

    E aggiunge che occorre

    «agire contro la disoccupazione, la quale è in ogni caso un male e, quando assume certe dimensioni, può diventare una vera calamità sociale» (ibid., corsivi del testo).

    Perciò è indispensabile provvedere ad una pianificazione globale che la contrasti. Conclude quel paragrafo dicendo:

    «Gettando lo sguardo sull’intera famiglia umana, sparsa su tutta la terra, non si può non rimanere colpiti da un fatto sconcertante di proporzioni immense; e cioè che, mentre da una parte cospicue risorse della natura rimangono inutilizzate, dall’altra esistono schiere di disoccupati o di sotto-occupati e sterminate moltitudini di affamati: un fatto che, senza dubbio, sta ad attestare che sia all’interno delle singole comunità politiche, sia nei rapporti tra esse su piano continentale e mondiale – per quanto concerne l’organizzazione del lavoro e dell’occupazione – vi è qualcosa che non funziona, e proprio nei punti più critici e di maggiore rilevanza sociale» (n. 18f, corsivi del testo).

    Sono tematiche che riprende quasi letteralmente ma accentuandole maggiormente nella «Sollicitudo rei socialis» (cf nn. 18.49) e nella «Centesimus Annus» (cf nn. 4.15.19.34).

    Priorità del lavoro sul capitale

    Un altro tema dell’ambito economico affrontato nei testi del Magistero è quello del rapporto tra capitale e lavoro, tema al quale divenne sensibile ad opera del movimento operaio sorto in grembo alla rivoluzione industriale.
    Afferma il «Compendio della Dottrina sociale»:

    «Gli eventi di natura economica che si produssero nel XIX secolo ebbero conseguenze sociali, politiche e culturale dirompenti... In tale quadro la Chiesa avvertì la necessità di dover intervenire in modo nuovo […]; occorreva un rinnovato discernimento della situazione, in grado di delineare soluzioni appropriate a problemi inconsueti e inesplorati» (n. 88).

    Dovette così far fronte a una questione che Leone XIII riteneva

    «difficile e pericolosa. Difficile, perché ardua cosa è segnare i precisi confini nelle relazioni tra proprietari e proletari, tra capitale e lavoro. Pericolosa perché uomini turbolenti ed astuti si sforzano ovunque di falsare i giudizi e volgere la questione stessa a perturbamento dei popoli» («Rerum novarum» n. 3).

    In altri tempi, in cui una certa concezione religiosa attribuiva direttamente a Dio l’origine della ricchezza e della povertà, tale rapporto era vissuto più o meno pacificamente. Si potrebbe dire rassegnatamente. Da quando invece tale concezione venne meno, anche per via della nuova visione del mondo provocata dal processo scientifico-tecnico, le cose cominciarono ad impostarsi in un altro modo. Nacque, infatti, la contestazione di un sistema ritenuto ingiusto perché offriva i maggiori e quasi esclusivi vantaggi al capitale – meglio ancora agli imprenditori, proprietari o detentori dei mezzi di produzione – e manteneva il lavoro – meglio ancora i lavoratori – in una chiara situazione di svantaggio.
    In questo contesto nei tempi in cui «capitale» e «lavoro» identificavano con una certa precisione due classi sociali in conflitto, venne enunciato un principio che doveva regolare i loro rapporti con sano equilibrio, quello della complementarietà: «Non può sussistere capitale senza lavoro, né lavoro senza capitale («Rerum novarum» n. 16; «Quadragesimo Anno» nn. 54.100). Si voleva sottolineare così l’importanza delle due componenti del mondo del lavoro, evitando tanto il vantaggio avuto per secoli dal capitale quanto lo scatenarsi di una ribellione dei lavoratori in ordine ad un superamento di tale vantaggio.
    Acquista notevole rilievo a questa luce l’enunciazione di Giovanni Paolo II nella «Laborem exercens» con cui propugna una nuova impostazione del rapporto. Afferma, infatti, in essa:

    «Di fronte all’odierna realtà, nella cui struttura si trovano così profondamente inscritti tanti conflitti causati dall’uomo, e nella quale i mezzi tecnici – frutto del lavoro umano – giocano un ruolo primario (si pensi qui anche alla prospettiva di un cataclisma mondiale nell’eventualità di una guerra nucleare dalle possibilità distruttive quasi inimmaginabili), si deve prima di tutto ricordare un principio sempre insegnato dalla Chiesa. Questo è il principio della priorità del ‘lavoro’ nei confronti del ‘capitale’» (n. 12a, corsivi del testo; cf anche nn. 13a. 15a).

    Tre cose sono da rilevare in questo testo.
    Anzitutto, che in realtà, malgrado l’affermazione di una costante presenza del menzionato principio (che nel n. 15a viene considerato «un postulato appartenente all’ordine della morale sociale») nell’insegnamento della Chiesa, tale presenza non è facilmente riscontrabile nei documenti magisteriali precedenti. Il che permette di cogliere la novità dell’impostazione del papa in risposta alle nuove condizioni in cui è venuto a trovarsi il lavoro umano.
    In secondo luogo, che essa è convalidata nelle linee seguenti da un ragionamento a carattere prettamente filosofico: «Questo principio riguarda direttamente il processo stesso di produzione, in rapporto al quale il lavoro è sempre una causa efficiente primaria, mentre il ‘capitale’, essendo l’insieme dei mezzi di produzione, rimane solo uno strumento o la causa strumentale».
    Infine, che a questo ragionamento filosofico viene affiancato anche un appello all’esperienza: «Questo principio è verità evidente che risulta da tutta l’esperienza storica dell’uomo». Così, la novità delle condizioni odierne hanno portato il Magistero ad elaborare un principio di altissimo valore umano e cristiano.
    Un paragrafo della stessa Enciclica riassume egregiamente il pensiero del papa:

    «Questa verità, che appartiene al patrimonio stabile della dottrina della Chiesa, deve esser sempre sottolineata in relazione al problema del sistema di lavoro, ed anche di tutto il sistema socio-economico. Bisogna sottolineare e mettere in risalto il primato dell’uomo nel processo di produzione, il primato dell’uomo di fronte alle cose. Tutto ciò che è contenuto nel concetto di ‘capitale’ – in senso ristretto – è solamente un insieme di cose. L’uomo come soggetto del lavoro, ed indipendentemente dal lavoro che compie, l’uomo, egli solo, è una persona. Questa verità contiene in sé conseguenze importanti e decisive (n. 12f, corsivi del testo).

    Nel numeri seguenti del documento Giovanni Paolo II ne deduce con logica le conseguenze che ne derivano, particolarmente quelle del superamento dell’economicismo e del materialismo nell’ambito del lavoro.
    Come si vede chiaramente, l’affermazione è in chiara continuità con il tema del senso umano del lavoro, più sopra esposto. La si ritrova nel «Compendio della Dottrina sociale» nei suoi nn. 276.277.

    L’impresa come comunità di persone

    All’insegna del carattere umano del lavoro, di cui si è parlato più sopra, nel Magistero si è andata aprendo strada l’idea della partecipazione attiva degli operai nelle imprese. Essi non sono delle semplici macchine che prestano il loro servizio, ma degli esseri umani, e in quanto tali dotati di dignità incontestabile. Anche se presente almeno germinalmente in scritti precedenti (cf «Rerum novarum» n. 27b; «Quadragesimo Anno» n. 58.67), fu particolarmente nella «Mater et Magistra» di Giovanni XXIII che tale idea acquistò consistenza ed esplicita formulazione. Dice il papa in essa:

    «Una concezione umana dell’impresa deve senza dubbio salvaguardare l’autorità e la necessaria efficienza della unità di direzione; ma non può ridurre i suoi collaboratori di ogni giorno al rango di semplici, silenziosi esecutori, senza alcuna possibilità di far valere la loro esperienza, interamente passivi nei riguardi di decisioni che dirigono la loro attività» (n. 79, corsivi nostri).

    E poco prima aveva affermato:

    «Muovendoci sulla linea tracciata dai nostri predecessori, noi pure riteniamo che sia legittima nei lavoratori l’aspirazione a partecipare attivamente alla vita delle imprese, nelle quali sono inseriti e operano […]. Crediamo […] opportuno richiamare l’attenzione sul fatto che il problema della presenza attiva dei lavoratori esiste sempre, sia l’impresa privata o pubblica: e, in ogni caso, si deve tendere a che l’impresa divenga una comunità di persone nelle relazioni, nelle funzioni e nella posizione di tutti i suoi soggetti» (n. 78, corsivi nostri).

    Viene quindi suggerita l’idea dell’impresa come «comunità di persone», proprio in ragione del criterio, già enunciato da Pio XII (Discorso dell’8 ottobre 1956), stando al quale la funzione economica e sociale che ognuno aspira a compiere in essa esige che lo svolgimento dell’attività di ciascuno non sia totalmente sottomesso alla volontà altrui. L’impresa non è pertanto solo degli imprenditori, proprietari o detentori dei mezzi di produzione che danno lavoro agli operai, ma è in qualche modo di tutti.
    Giovanni XXIII, che come si disse enunciò per primo esplicitamente il criterio, si premurò anche di precisare con sano realismo che

    «non è possibile predeterminare i modi e i gradi di una tale partecipazione, essendo essi in rapporto con la situazione concreta che presenta ogni impresa: situazione che può variare da impresa a impresa, e nell’interno di ogni impresa è soggetta a cambiamenti spesso rapidi e sostanziali» («Mater et Magistra» n. 78).

    L’idea fu poi ripresa da Paolo VI nella «Populorum Progressio» (n. 28), e da Giovanni Paolo II nella «Laborem exercens», nella quale venne ancora maggiormente precisata. Parlando, infatti, della socializzazione, il papa asserisce:

    «Si può parlare di socializzazione solo quando sia assicurata la soggettività della società, cioè quando ognuno, in base al proprio lavoro, abbia il pieno titolo di considerarsi al tempo stesso il ‘com-proprietario’ del grande banco di lavoro, al quale s’impegna insieme con tutti. E una via verso tale traguardo potrebbe essere quella di associare, per quanto è possibile, il lavoro alla proprietà del capitale […]» (n. 14, corsivi nostri).


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