I vizi capitali. Le figure dell’esistenza inautentica /1
Carmine Di Sante
(NPG 2008-01-50)
“Conquistare le passioni mi pare di gran lunga più difficile
che conquistare il mondo con la forza delle armi.
Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me.
Finché l’uomo non si metterà di sua volontà all’ultimo posto
non ci sarà per lui alcuna salvezza” (Gandhi 1925)
La prima figura dell’esistenza inautentica per la bibbia è la superbia, non solo in ordine cronologico ma soprattutto genealogico, perché è da essa che si generano tutte le altre forme inautentiche.
In italiano superbo vuol dire letteralmente essere sopra, composto da super e dalla parola bo, quest’ultima di non facile derivazione etimologica che può rimandare sia al verbo greco baino, che vuol dire camminare, sia alla radice ebraica bo che vuol dire venire, sia al sanscrito bhu, che vuol dire essere e sia infine al verbo greco phaino che vuol dire apparire, potendo la ph trasformarsi facilmente in b come in befana, termine che proviene da epifania.
Se super-bo è chi si autocomprende e si pone sopra l’altro, il contrario di pro-bo, che gli si pone di fronte e a suo favore, superbia è l’insieme delle strategie – desideri, pensieri, parole, progetti e azioni – che si pongono in atto per affermare e consolidare la propria autocomprensione e volontà di potenza.
La superbia, come vuole Agostino, è volontà cattiva che si fa tale per la sua pretesa di superiorità:
«Cosa poté essere l’inizio di una cattiva volontà, se non la superbia? Infatti, principio della superbia è il peccato; ma che altro è la superbia, se non l’ambizione di una perversa superiorità? E la perversa superiorità è possibile, una volta abbandonato quel principio al quale l’anima si deve unire, per diventare ed essere principio a se stessa. Ciò accade quando ci si compiace smisuratamente di sé; e ciò accade quando ci si allontana da quel bene immutabile che si dovrebbe preferire a se stessi» (Città di Dio, Rusconi, Milano 1990, p. 669).
Per esprimere il peccato o vizio della superbia il Nuovo Testamento ricorre soprattutto al termine yperphania (Mc 7,22; Lc 1,51; Rm 1,30; 2Tim 3,2; Gc 4,6: 1Pt 5,5) che etimologicamente vuol dire «mostrarsi» o «apparire più e sopra» e che a volte, in italiano, è tradotto con arroganza, il chiedere (rogare) per (ad) sé pretendendo che ciò che si chiede lo si ottenga necessariamente.
Ad esso la bibbia contrappone il termine tapeinos, da cui l’italiano tapino, che allude a chi è infelice, povero, tribolato, misero e impotente (significato rimasto anche nella nostra lingua) su cui veglia e si china lo sguardo di Dio (quest’ultimo significato scomparso però nella nostra lingua). Nella sua lettera Giacomo afferma che «lo Spirito di Dio ci ama fino alla gelosia» (4,5), cioè in un modo personale e impensabile, e che «resiste agli arroganti (iperphanoi) mentre agli umili (tapeinoi) dà la sua grazia» (4,6). Il termine utilizzato da Paolo per dire che Dio «resiste agli arroganti» o «superbi» è anti-tasso la cui radice verbale vuol dire «mettere» o «disporre le cose in ordine». Chi si costituisce al di sopra degli altri viola l’ordine divino della grazia, dove ciò che si è e ciò che si ha, lo si è e lo si ha per grazia, non perché conquistato ma perché donato. Ai superbi e agli arroganti, che istituiscono il loro ordine intorno al loro io, Dio oppone il suo ordine dove l’io non si istituisce perché istituito da Dio come io amato che ha tutto e può godere di tutto gratuitamente.
Il sovvertimento dell’ordine della grazia
Per la bibbia qui è da individuare la radice della superbia: nel sovvertimento dell’ordine della grazia con cui l’io sovrano nega l’origine, istitutrice e donante, e si sostituisce a Dio, prendendone e pretendendone il posto. In questa radice la bibbia ravvisa l’essenza stessa del peccato di cui, con la potenza del simbolo, parla il terzo capitolo della Genesi mettendo in scena la figura del serpente «la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio», che si rivolge alla donna chiedendo: «È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?» (Gn 3, 1). È nota la risposta della donna: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete» (vv. 2-3).
Nel giardino dell’eden all’uomo è dato di fruire e di godere di tutti i frutti degli alberi: gli è dato, cioè donato e regalato. Di un unico albero non può mangiare, quello al centro del giardino che, più che un albero, è il simbolo di ciò che permette agli altri alberi di essere fruizione e godimento. Toccare e mangiare di quest’albero è morire, non perché a morire è il bios – mero materialismo – bensì perché a morire è l’umano dell’io che, da umano «graziato», cioè pieno di grazia, perché avvolto nella grazia, secondo il saluto dell’angelo a Maria (cf Lc 1, 28), si aliena in umano autocentrato, separato dall’altro e dagli altri. Mangiare dell’albero che cresce al centro dell’eden, chiamato anche l’albero del bene e del male (cf Gn 2, 9), è contraddizione logica e ontologica con cui l’io nega l’altro, dal quale dipende e riceve tutto gratis, come la pianta dalla linfa, e si autocostituisce padrone degli altri e del mondo. La superbia, per la bibbia, è l’autocostituirsi dell’io come padrone che su tutto e tutti, cose e persone, oggetti e affetti, imprime il suo marchio di dominio e di possesso. Ma negando la relazione di grazia con l’altro, dal quale è originato e amato, l’io precipita nell’esistenza inautentica, come mostra il seguito del racconto biblico della Genesi in cui la donna acconsente alla «voce del serpente», metafora della possibilità reale della negazione del bene iscritta nella libertà umana: «Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture».
Negarsi all’anteriorità del Bene e alla sua istanza, non è entrare nella felicità, come si illudeva la donna al cui sguardo l’albero era apparso «buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza», ma perderla, come vogliono le immagini dell’apertura degli occhi, della nudità e del tentativo di occultarla con le foglie. Ed è perderla oggettivamente e irreversibilmente, se è vero che «il Signore Dio lo [Adamo] scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto. Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all’albero della vita» (Gn 3, 23-24). La cacciata dell’uomo «dal giardino di Eden» e l’impossibilità di tornarvi a causa dei cherubini che, con le spade fiammeggianti, ne impediscono l’accesso, più che traccia di un pensiero arcaico non ancora depurato dalla cattiva immagine di Dio che punisce, è la trascrizione, in linguaggio mitico, della convinzione che sottrarsi alla relazione d’amore con il bene che crea e destina al bene non è perdita apparente ma oggettiva, indipendente dal volere dell’io, come lo sono un incidente, la malattia o la morte.
L’alienazione della signoria contro l’altro
La ragione dell’alienazione in cui la superbia precipita l’io è che, più che sottrarsi all’anteriorità del bene e più che negare la signoria del bene, il superbo se ne appropria e le ingloba nella sua volontà, pretendendosi lui stesso bene come Dio. È quanto constata Dio stesso dopo la disobbedienza adamitica: «Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male» (Gn 3, 22). Il superbo, per la bibbia, non è colui che non riconosce Dio come signore sopra a tutto e sopra a tutti ma chi ne prende il posto mettendosi lui sopra a tutto e sopra a tutti e, in questo senso, facendosi veramente «come Dio». La superbia, pertanto, più che negazione di Dio ne è l’appropriazione, e appropriazione paradossale che ne è la contraffazione e la parodia: perché mentre la signoria di Dio è signoria non per sé ma per l’altro, la signoria dell’uomo che ne prende il posto è signoria per sé e contro l’altro. Cioè: mentre Dio è sopra a tutto e sopra a tutti per promuoverne il bene, non curandosi del proprio, il superbo si costituisce sopra a tutto e sopra a tutti per curare il proprio bene, non promuovendo più quello dell’altro. Per la bibbia l’essenza della superbia, come rivendicazione di superiorità nei confronti degli altri e del mondo, è in questa vertiginosa trasmutazione del bene che, da bene che l’io deve all’altro, si perverte in bene che l’altro deve all’io. Se l’essenza del bene è nel suo essere per l’altro e non per l’io, la trasmutazione del bene nel suo essere per l’io e non per l’altro cancella la realtà stessa del bene e il mondo, da «sette volte» buono, creato dal bene e per il bene, si degrada in giungla di interessi ed egoismi da promuovere e difendere con la forza, il «diritto» e la violenza delle armi.
Per questo la superbia è il primo dei vizi e coincide, per la bibbia, con l’essenza stessa del peccato e di ogni peccato:
È il peggiore dei peccati, sostiene Tommaso d’Aquino, perché per sua natura rappresenta un’avversione nei confronti di Dio e dei suoi comandamenti, cosa che è indirettamente o conseguentemente vera per tutti i peccati. La superbia è la fonte di tutti gli altri peccati, afferma Tommaso d’Aquino, perché è il primo per intenzione. Innanzitutto, ogni peccato trae origine dall’allontanarsi da Dio e, dunque, tutti i peccati traggono origine dalla superbia. Inoltre, sempre secondo Tommaso, la superbia rappresenta lo stimolo a procurarsi tutti i beni di minore importanza che vengono preferiti a Dio, perché attraverso di essi «si può conquistare una certa perfezione ed eccellenza». La cupidigia è il primo peccato in ordine di esecuzione perché desidera ciò che diventerà il mezzo attraverso cui commettere altri peccati […]. Di conseguenza, il primo peccato deve essere stato la cupidigia nei confronti di un determinato bene spirituale, non in maniera ordinata ma disordinata, «al di là di ogni limite stabilito dalla legge divina», e questo, conclude Tommaso, è tipico della superbia (E. Sweeney, cit in M. E. Dyson, Superbia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004, p. 19).
Negazione dell’origine e pretesa di sostituirsi all’origine, la superbia, se all’inizio è libera scelta e, per questo, peccato o colpa, con il tempo si trasforma in stile di vita e di comportamento, cioè in habitus, in una quasi seconda natura e vera natura, in cui si dissolve la coscienza della colpa e il proprio agire lo si pretende e vive per principio sempre buono e giusto. Stile di vita e di comportamento, la superbia altera tutto ciò che incontra; si esprime in una molteplicità di linguaggi che vanno dall’orgoglio alla vanagloria, dall’autosufficienza al disprezzo, dal narcisismo all’autoindulgenza, dall’ambizione al vanto, dall’autogiustificazione all’irresponsabilità, dall’autarchia all’insofferenza, dalla disperazione all’aggressione, dalla cattiveria al vittimismo; si nasconde in una pluralità di forme che vanno dal carrierismo, alla ricerca del potere, alla cura del proprio corpo, allo stesso apparente altruismo o false opere di beneficenza e può anche tradursi in figure ideologiche, pubbliche e consolidate, come il fanatismo, il razzismo, il nazionalismo o il nichilismo.
SUPERBIA
“il rapporto deformato con l’origine”
Scheda operativa a cura di Giuseppe Morante
L’animatore di pastorale, il catechista, il genitore-educatore, il pastore di anime… davanti al vizio capitale della superbia con i suoi significati etimologici ed antropologici (basati sulla visione biblica dell’uomo creato da Dio), si domanda: come mediare questi messaggi per aiutare ragazzi e giovani a essere più «autentici», correggendo deformazioni psicologiche e conseguenze morali frutti dell’orgoglio? Le indicazioni operative offerte mirano al raggiungimento di tre obiettivi.
1°. Far pendere coscienza del «vizio umano» della superbia spesso inconscio
* Il vizio «originale» della superbia non abita fuori dell’uomo, negli altri; ognuno se lo cova dentro. Bisogna snidarlo. Il superbo, psicologicamente parlando, vive nella costante proiezione falsata di sé e nella incapacità di riconoscere il limite personale. Per questo il superbo non può maturare umanamente e non può crescere spiritualmente, perché parte da un’autoaffermazione e da un narcisistico compiacimento, vanificando l’atto creativo di Dio.
Ciò può nascere da una disistima che la persona ha verso se stessa, vittima di una continua competizione tra il reale di sé e l’ideale di sé (cioè una sua «proiezione» sbagliata). Se questo ideale basato sull’autostima acquistata nel rapporto primario della relazione genitoriale è falsato o distorto, la persona vive in costante competizione frustante tra ciò che (reale di sé) è e ciò che vuole essere (ideale di sé), nella bramosa voglia di «eccellere sugli altri».
* Se il peccato è dentro, quali indicazioni umane possono aiutare a prenderne coscienza? Si può partire da una riflessione-analisi su casi «incarnati»… che si incontrano in ogni ambiente:
- chi si offende facilmente e stenta a perdonare;
- chi si compiace di essere sempre al centro dell’attenzione, ammirato, lodato, coccolato;
- chi soffre maledettamente e si irrita se viene rimproverato o biasimato;
- chi non pensa ad altro che a far bella figura, a comparire, ad emergere;
- chi vede tutto bello in sé e tutto brutto negli altri;
- chi vuole avere sempre ragione e nelle discussioni non cede mai;
- chi parla volentieri e spesso di sé, e il pronome “io” appare sempre nel proprio parlare;
- chi pretende di dar consigli a tutti, senza accettarne da nessuno...
* Sono atteggiamenti «viziosi» che denotano una categoria morale, cioè una condotta negativa rispetto al sistema di valori, codificato a livello naturale o a livello spirituale in ambito sociale e di comportamento personale. L’orgoglio è un amore eccessivo del proprio «io», per cui ci si compiace di se stessi e si cade in una forma idolatrica (non sempre consapevole) del proprio «nulla». E ciò capita quando:
- ci si vanta delle proprie buone qualità come se fosse merito proprio, dimenticando ciò che afferma la parola di Dio: «Ogni dono perfetto viene dall’alto, discendendo dal Padre dei lumi» (Gc 1, 17), mentre di veramente «proprio» c’è solo il peccato;
- ci si gloria dei pregi che si hanno, come se non fossero talenti donati da Dio;
- si guardano gli altri con forme di un certo disprezzo che denota la propria superiorità.
Il messaggio cristiano taglia alla radice la pianta viziosa della superbia (individuale-sociale), e la orienta nella giusta direzione: «Ciascuno di voi consideri gli altri superiori a se stesso» (Fil 2, 3). Riconoscere la grandezza di sé è inseparabile dal riconoscere la grandezza dell’altro; la stima di sé è inseparabile dalla stima dell’altro.
2°. Orientare al confronto attraverso l’analisi dei comportamenti
* Il vocabolario italiano definisce la superbia «orgoglio smodato, esagerata considerazione di sé e dei propri meriti accompagnata da ambizione eccessiva e da scarsa stima per gli altri». Per cui la persona cerca la propria eccellenza fuori misura e con mezzi illeciti, per prevalere sopra gli altri e sottrarsi completamente a Dio. Da essa sono scaturiti proverbi come «La superbia è figlia dell’ignoranza», perché il sapere abilita all’umiltà; «La superbia andò a cavallo e tornò a piedi», detto di persona superba che ha subìto uno smacco, oppure, più genericamente, per ammonire tutti che una sconfitta, un’umiliazione prima o poi arriva a smascherare l’eccessiva presunzione di sé. Sinonimi della superbia sono: presunzione, immodestia, protervia, vanagloria, boria, alterigia, tracotanza, sufficienza.
La scoperta personale e di gruppo dei significati di questi termini porta alla presa di coscienza personale del vizio che come orgoglio produce una eccessiva stima di sé.
* Esempi proverbiali: l’immagine di quel politico, facoltoso industriale, o «commendatore» che viene fermato dalla polizia per aver commesso un’infrazione del codice stradale e sta per essere multato, e che risponde al poliziotto: «Lei non sa chi sono io!». Avere vera o presunta posizione di prestigio nella società non esonera dal rispetto delle leggi. Si dice di chi si ritiene importante e che ambisce a posizioni di prestigio: «quello ha la puzza sotto il naso», «quello pensa di essere chissà chi… Chi si crede d’essere?». Vantare privilegi, ritenersi grandi, fare sfoggio di ricchezza, pretendere che tutti si inchinino al proprio passaggio, è un’espressione di superbia e di arroganza...
* L’attuale stato culturale, fatto di apparenza e narcisismo, di reality e di gossip, non fa che alimentare questa deviazione psichica e generare dei mostri radicalmente soli ed incapaci di maturare. Prigioniero nella sua paura di essere mediocre e normale, bisognoso di approvazione, il superbo, anche senza saperlo, tende a cosificare rapporti significativi a vantaggio di una proiezione smisurata di essere come Dio, ma senza Dio.
E poiché la superbia presuppone implicitamente un concetto di relatività (io sono più ricco di te, ho più potere, appartengo a una razza o a una classe migliore della tua…), è quasi inevitabile che il vizio della superbia si radichi nel cuore. Infatti, la convinzione di essere migliore di qualcuno spesso conduce al confronto-scontro con chi appare superiore, e, di conseguenza, l’auto-convincimento dell’eccellenza dei propri talenti è destinato a sfaldarsi in un sentimento di invidia bruciante e impotente i cui sinonimi sono: vanità, arroganza, millanteria, presunzione, ambizione, impudenza, insolenza, impazienza, permalosità, ostinazione, prepotenza, ostentazione, disobbedienza, irriverenza, disprezzo per gli altri, spirito di contesa, egoismo, ipocrisia: chi ne prende coscienza si accorge che si tratta di atteggiamenti che rendono incapaci di ascoltare e relazionarsi significativamente sia nella vita sociale che nella vita personale.
3°. Offrire proposte di autenticità
* Quali rimedi offrire, oltre alla vigilanza davanti ad una tentazione sempre presente?
- Innanzitutto la radicalità di una vita di preghiera sulla Parola di Dio e sull’autenticità del cuore. È lo Spirito che «convince» al peccato e che fa verità nel cuore (esperienze da guidare…).
- Avviare anche ad una robusta vita ecclesiale fatta di confronto per essere veri e autentici. Primo tra questi mezzi la Chiesa, nella sua sapienza, propone la direzione spirituale.
- Educare capacità di ascolto: se non si è capaci di ascoltare significa che dentro c’è il veleno della superbia, che a volte appare come falsa umiltà generata da alcune maschere che si indossano per «apparire» migliori.
Segni di questa maschera possono essere il fare opere di carità o di volontariato, per sentirsi (e far vedere) che si è a posto, migliori. Per cui sembra necessario indicare modalità operative:
- smascherarsi appena ci si rende conto del problema, concentrando l’attenzione in qualche cosa di opposto o di diverso dall’oggetto del desiderio;
- sostituire il desiderio disordinato con il desiderio di Dio. È questa la soluzione adeguata come risposta ai desideri autodistruttivi e che portano a stati depressivi e all’isolamento;
- osservare con attenzione lo sviluppo del desiderio, i sentimenti che suscita e i pensieri a cui dà origine: in questo modo svaniranno, perché sentire non è consentire;
- donarsi in modo disinteressato e gratuito in qualche opera buona per il servizio e l’utilità del prossimo, accettando anche con serenità le immancabili piccole umiliazioni ed incomprensioni della vita quotidiana; che se non sono ancora l’umiltà (perché potrebbero essere subìte con rabbia e ribellione...), sono certamente la via più rapida e sicura per un cambiamento e una conversione.