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    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2008-04-61)


    “Il cielo stellato sopra di me»: la frase del filosofo di Königsberg rimane ancora oggi una delle sintesi più efficaci dello stupore e della meraviglia che da sempre uomini e donne hanno provato alzando gli occhi al cielo: una filosofia dell’educazione non può, se non vuole condannarsi a una nuova forma di provincialismo culturale, ignorare che la Terra non è che uno dei tanti oggetti che vagano in un Universo sempre più misterioso, anche se sempre più conosciuto.

    L’Universo e noi

    La conoscenza dell’Universo è di tipo particolare: più essa progredisce, più fa aumentare il nostro senso di ignoranza; più cose nuove scopre, più ci costringe a ridefinire la nostra idea di «cosalità»; più andiamo avanti nella esplorazione del Cosmo, più scopriamo zone d’ombra, abissi di incomprensibilità, fino a intuire che la stessa nozione di Cosmo è insufficiente e incompleta; più cerchiamo di comprendere pianeti e stelle, supernovae e galassie, più ci scopriamo piccoli e insignificanti.
    L’idea baconiana che la conoscenza potesse portare l’uomo a dominare la natura appare, di fronte allo scatenamento di fenomeni cosmici ai quali noi assistiamo incuriositi e impotenti a milioni di anni dal loro verificarsi, quasi uno scherno. L’idea millenaria che la nostra conoscenza potesse in qualche modo dissolvere la stranezza e il mistero degli oggetti, esponendoli alla luce della ragione, trova i suoi limiti nel continuo mistero che scopriamo osservando il Cosmo, che ci riesce sempre più difficile considerare come casa nostra:
    «Ora il cielo che pende sopra il nostro capo non è più domestico. Si fa sempre più intricato, imprevisto, violento e strano; il suo mistero cresce invece di ridursi, ogni scoperta, ogni risposta alle vecchie domande, fa nascere miriadi di domande nuove. Copernico e Galileo avevano sbalzato l’umanità dal centro del creato: non era stato che un trasloco, da cui pure molti si erano sentiti destituiti e umiliati. Oggi ci accorgiamo di ben altro: che la fantasia dell’artefice dell’Universo non ha confini, e sconfinato diventa anche il nostro stupore. Non solo non siamo il centro dell’Universo, ma ne siamo estranei: siamo una singolarità. È strano l’Universo per noi, noi siamo strani nell’Universo».[1]
    L’Universo, insieme contenitore e contenuto delle nostre esplorazioni, soggetto e oggetto delle nostre ricerche, ridefinisce la direzione dei nostri sguardi: per guardare il cielo occorre alzare gli occhi, ma la crisi del paradigma geocentrico ci ha mostrato come le nozioni di «sopra», «sotto», «alto», «basso» siano del tutto insufficienti per l’elaborazione di una cosmologia; l’Universo è fuori di noi ma anche al nostro interno, è un «intorno» che vive dentro noi: i tentativi di Giordano Bruno [2] di definire i rapporti magici tra cosmo e anima ci sembrano molto meno risibili, oggi che piuttosto che di Universo si parla di pluri-versi, infiniti mondi possibili.

    Cosmologie ed educazione

    L’educazione del XXI secolo, se vuole puntare a costituire l’uomo e la donna planetari, non può non cercare di tracciare le direttive per la costituzione dell’uomo e della donna cosmici. Le cosmologie sono nate per cercare di lenire il senso di inadeguatezza e di spaesamento che la contemplazione del cielo stellato ci causa: hanno avuto origine come sfondi di senso che però contenevano comunque in sé tracce di quel mistero e quello stupore dal quale prendevano avvio; la magia della contemplazione dello spazio è conservata nelle cosmologie, e forse paradossalmente viene meno solo oggi, nel momento in cui un Universo complesso e terribile viene addomesticato da un paradigma ipertecnologico che nello spazio vede solo un immenso accumulo di materia prima da sfruttare.
    Ma noi che cosa ci facciamo qui? Perché siamo nati, perché questo Universo inospitale ci ha visti crescere fino al punto da scambiarlo per la nostra casa?
    All’antropocentrismo del passato le nuove cosmologie sostituiscono quello che viene definito principio antropico:
    «Ci sono due versioni del principio antropico: quella debole e quella forte. Il principio antropico debole dice che, in un Universo che è grande o infinito nello spazio e/o nel tempo, le condizioni necessarie per lo sviluppo della vita intelligente si troveranno solo in certe regioni che sono limitate nello spazio e nel tempo. Gli esseri intelligenti presenti in queste regioni non dovrebbero perciò sorprendersi nel constatare che la regione in cui essi vivono nell’Universo soddisfa le condizioni che sono necessarie per la loro esistenza».[3]
    Secondo il principio antropico forte, «esistono o molti universi differenti o molte regioni differenti di un singolo Universo, ciascuno dei quali ha la sua propria configurazione iniziale e, forse, un suo proprio insieme peculiare di leggi scientifiche. Nella maggior parte di questi universi le condizioni non sarebbero idonee allo sviluppo di organismi complicati; solo nei pochi universi simili al nostro si svilupperebbero degli esseri intelligenti capaci di porre la domanda ‘Perché l’Universo è come lo vediamo?’. La risposta è quindi semplice: ‘Se l’Universo fosse stato differente, non saremmo qui’».[4]
    Si tratta di una relativizzazione dell’antropocentrismo e soprattutto della ricerca disperata di un senso per tutto; sfiora certamente il truismo e addirittura la tautologia, ma è certamente meno antropocentrico dei messaggi del Voyager e del Pioneer alla ricerca di intelligenze extraterrestri: messaggi che presentano la Terra e il sistema solare come cose esclusive dell’uomo e della donna, anzi soprattutto del primo. Siamo nell’Universo perché l’Universo è fatto così, e se fosse fatto diversamente non ci saremmo: questo non significa però che l’Universo è fatto così perché noi potessimo esserci; ma il fatto di esserci, e di domandarci perché ci siamo costituisce la più alta forma di gratitudine nei confronti di un cosmo che per caso ci ha previsti come suoi ospiti.
    Ecco perché le conquiste dell’astronomia e le nuove cosmologie ci vedono tutti coinvolti:
    «Come ogni uomo, anche il più innocente, anche la stessa vittima, si sente corresponsabile di Hiroshima, di Dallas e del Vietnam, e prova vergogna, così anche il più estraneo al colossale travaglio dei voli cosmici sente ricadere sull’intero genere umano, e quindi anche su di sé, una particella di merito, e ne esce rivalutato».[5]
    Le scoperte astronomiche non ci fanno necessariamente sentire più piccoli: semmai, questa piccolezza viene vista dall’esterno, da un nuovo sguardo vergine, e rende conto comunque della dignità di chi ha saputo, primo tra tutti gli animali,[6] osservare l’«arancia blu» dall’esterno.

    Capire la propria incapacità di capire

    Uomini e donne, nella loro piccolezza e fragilità, sono i titolari di questo sguardo, forse umile e disincantato ma comunque straordinario e terribile:
    «Sembra non esservi soluzione da questa impasse, in cui si agita il mondo della pace e del benessere. Forse solo una svolta improvvisa, inimmaginabile, una soluzione che nessun profeta può intuire, una di quelle sorprese che ha la vita quando vuole continuare. Forse il sorriso degli astronauti: quello, forse, è il sorriso della vera speranza, della vera pace. Interrotte, o chiuse, o sanguinanti le vie della terra, ecco che si apre, timidamente, la via del cosmo».[7]
    Uno sguardo che non vuole per forza capire tutto, ma che vuole perlomeno capire la propria piccolezza, la propria incapacità di capire; l’aveva forse pregustato il marito della signora di Bari, che nel 1969, sofferente «per un male che non si cura e perfino non è più possibile, a un certo punto, alleviare»,[8] si faceva installare un televisore nella camera d’ospedale perché «egli vuol vedere, minuto per minuto, il volo di Apollo sulla Luna».[9]
    La morte è il profondo mistero e il profondo dolore di qui; la ricerca non consolatoria di uno sguardo altro non la sconfigge ma la rende più dignitosa: «Non poteva questo esercito combattere qui, cancellare una sola delle nostre sofferenze? Io non so rispondermi.
    E vuol sapere la risposta di mio marito? La sua risposta è ‘no’. (...) Lui muore, e lo sa, ma aspetta come una festa di vedere l’uomo toccare il suolo lunare».[10]
    Centinaia di migliaia di persone sono morte nella settimana di viaggio che ha portato l’Apollo nel Mare della Tranquillità: da lassù queste morti non possono essere dimenticate, forse nemmeno capite.
    Ma da lassù la Terra sembra ancora più fragile e precaria: forse proprio la consapevolezza della possibilità di annichilirla per sempre ha portato nel sorriso degli astronauti la voglia di attribuirle senso e valore in un Universo insensato.

    NOTE

    [1] Primo Levi, L’altrui mestiere, Torino, Einaudi, 1985, pag. 174. Abbiamo scelto questo passo (e altri) dell’autore torinese anche perché crediamo che la sua figura di frontiera e di contaminazione tra umanesimo e scienza possa costituire un valido paradigma per l’educazione del XXI secolo.

    [2] Fr. Giordano Bruno, La monade, il numero e la figura e L’immenso e gli innumerevoli, ossia l’Universo e i mondi, in Opere latine, Torino, Utet, 1980 pagg. 293/414 e 415/811, e De l’infinito Universo e mondi, in Dialoghi italiani, Firenze, Sansoni, 1985, vol. I pagg. 343/539.

    [3] Ibidem, pag. 146.

    [4] Ibidem.

    [5] Primo Levi, Il fabbricante di specchi, Torino, La Stampa, 1986, pag. 129

    [6] Veramente prima di noi sono state le cavie a poterlo fare: in particolare, la povera cagnetta Laika, sacrificata sul discutibile altare del progesso!

    [7] Pier Paolo Pasolini, I Dialoghi, Roma, Riuniti, 1992,pag. 298

    [8] «Epoca», 20 luglio 1969, pag.3.

    [9] Ibidem.

    [10] Ibidem.


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