Educare al pensiero /12
Raffaele Mantegazza
(NPG 2008-05-34)
Al termine del nostro viaggio compare la ragione. Non come semplice punto di arrivo ma come punto di partenza per nuovi viaggi nel mondo affascinante del pensiero; ma comunque un porto sicuro, alla faccia degli irrazionalismi tanto alla moda. Occorre però anzitutto spiegare che cosa si intende per ragione, forse (insieme a «libertà») una delle parole più abusate negli ultimi decenni.
Esiste anzitutto una ragione soggettiva, intesa come facoltà di classificare, di operare induzioni e deduzioni, riferita al funzionamento astratto del meccanismo del pensiero. Per tale ragione il rapporto tra mezzi e fini viene analizzato solo in riferimento all’efficacia dei primi, dando per scontata la «ragionevolezza» dei secondi. Si tratta di una ragione relativistica, per la quale non esistono fini «ragionevoli in sé» indipendentemente dalla loro utilità per il soggetto; la ragione soggettiva è stata utile in passato all’uomo perché ha distrutto la falsa oggettività di miti e da un certo punto di vista, facendo piazza pulita di tutti i «principi di autorità» autofondantisi, ha creato una nuova oggettività. Il problema sorge però quando la ragione che ha compiuto questo processo di liberazione del soggetto da una falsa oggettività si formalizza e si soggettivizza ulteriormente, lasciando il campo libero al relativismo utilitaristico: ora non è più possibile dire che qualche affermazione sia «oggettivamente» vera, perché tutto viene ridotto alla sfera del giudizio soggettivo; anche le scienze e le tecniche non sono allora «buone» o «cattive» in sé, né possiedono dei fini propri: la loro finalità dipende dall’uso che se ne fa, e così la loro bontà o meno per l’uomo.
Esiste poi una ragione oggettiva, presente non nei soggetti ma nel mondo oggettivo (cioè nella natura, nelle istituzioni, ma anche nei rapporti tra i soggetti). In essa la ragionevolezza delle azioni e dei pensieri è sempre commisurata alla struttura oggettiva della totalità (naturale o sociale). Per la ragione oggettiva hanno importanza i fini ultimi (il telos), e la ragione soggettiva non è negata ma è concepita come espressione parziale di una universalità razionale. La ragione qui è a sua volta una struttura immanente alla realtà, è sforzo e capacità di riflettere l’ordine oggettivo del reale, e per questo motivo la sua critica alla convenzioni (soggettive) è più radicale di quella apportata dalla ragione soggettiva; è in questo campo che si può parlare di effettualità di una azione e di verità di un concetto. Esiste una ragione specifica dell’oggetto specifico (ragione immanente; verità immanente all’oggetto), come esiste una ragione universale che trascende l’oggetto in una oggettualità più ampia costituita dalla totalità delle relazioni tra l’oggetto in analisi e gli altri oggetti (anche qui si tratta di una ragione oggettiva – e non assoluta – che procede a una analisi che trascende l’oggetto presente). È chiaro che per la ragione oggettiva le tecniche non sono mai neutrali; ogni tecnica possiede una sua «verità immanente» che è studiabile analizzando le connessioni tra gli elementi che costituiscono la tecnica stessa, rimanendo sul piano dell’«oggetto» di studio, e una «verità trascendente» che le deriva dai rapporti complessi che essa intrattiene con la totalità sociale, con le altre tecniche, con la storia della scienza ecc.
La «ragione» dell’atto educativo e l’educazione alla ragione
Anche l’atto educativo possiede allora queste due dimensioni di ragionevolezza oggettiva: vi è una verità oggettiva immanente all’atto (una sorta di finalità immanente in senso kantiano, desumibile dallo studio dell’accordo o del disaccordo, dell’armonia o della disarmonia tra le parti costituenti l’oggetto in esame: attori, situazioni, metodi, tecniche, strategie, rappresentazioni dell’atto educativo stesso), così come esiste una verità oggettiva trascendente l’atto, che risiede nelle sue connessioni con il tutto sociale presente e con le dimensioni storiche in cui l’atto si colloca.
Ma il nostro porto sicuro sembra confinare e felicemente sconfinare nei territori «altri» che abbiamo cercato di indagare in questa rubrica. Stiamo parlando del difficile rapporto tra fede e ragione che è stato per secoli dibattuto in modo anche aspro; quello che però è certo è che anche la religione mette in scena una forma di conoscenza, differente rispetto alla ragione scientifica così come l’ha conosciuta e prodotta l’Occidente; tra queste due forme di conoscenza quello che occorre è un patto di non invasione e di non belligeranza reciproca: occorre che ambedue abbiano legittimità di operare e di muoversi nel campo del pensiero umano, smettendola di volersi confutare a vicenda e provando invece ad arricchirsi vicendevolmente. Sono patetici sia i tentativi di richiedere le prove scientifiche del discorso religioso, sia gli atteggiamenti apologetici del tipo «La scienza dimostra che la Bibbia aveva ragione», come se la Bibbia fosse un manuale di chimica per i licei. Sia la scienza che la Bibbia «hanno ragione», nel senso che fanno valere un determinato regime di verità valido all’interno dei loro confini e dei loro ambiti, molto meno o per nulla al di fuori di questi.
Tanto per fare un esempio, è del tutto insensato contrapporre adialetticamente modello causa-effettuale al complesso intreccio tra parola, cosa, gesto e azione tipico del pensiero giudaico. Ma per la scienza occidentale spesso troppo meccanicistica nel suo concepire il rapporto tra cause ed effetti è salutare confrontarsi con il nesso azione-esistenza concepito dal giudaismo; secondo questo nesso, «ogni azione crea una sfera d’azione che produce un destino: l’essere umano si crea una sfera che lo circonda stabilmente in senso favorevole o sfavorevole, e il suo destino è il compimento di ciò che egli stesso ha compiuto».[1]
Così «l’esistenza scaturisce dall’azione come il raccolto dalla semina: l’azione si trasforma in una sfera di potenza che chi agisce ha fatto nascere e in cui si trova prigioniero (...), e il giudizio di YHWH ha lo scopo di imprigionare nella catena misfatto-disgrazia (per la salvaguardia dell’ordine della creazione è necessario che l’autore del male muoia)».[2] Si tratta di una concezione che Israele condivide con altri popoli dell’Oriente antico e che non è lontana da alcune delle acquisizioni delle nuove e nuovissime cosmologie. Allo stesso modo l’insistenza del giudaismo, dell’Islam e del Tao sull’importanza delle strategie di nominazione (per il giudaismo a proposito della definizione di Adamo come potenza che nomina le cose; per l’Islam a proposito del tema dei novantanove nomi di Dio, per il Tao a proposito della necessaria fluidità e non rigidità della nominazione) possono trovare nel pensiero laico spazi di contaminazione e di attivazione verso una nuova definizione interculturale del linguaggio e della ragione.
Quando (e se mai) sarà conclusa l’inutile guerra di religione tra evoluzionisti e creazionisti, che si riduce a una lotta tra opposti e lucrosi fondamentalismi le cui posizioni dogmatiche si alimentano a vicenda, sarà forse possibile riflettere sul fatto che sia le religioni che le scienze sono narrazioni; raccontare la natura è stato da sempre uno dei modi privilegiati sia di comprenderla sia di trasmetterne le conoscenze e i misteri alle giovani generazioni. Così come raccontare l’origine, la nascita dell’uomo e del cosmo, è sempre stata una modalità pedagogica di contestualizzazione della vita del singolo (tu ti trovi qui per questo motivo e questo è il tuo posto) e dell’umanità intera.
Quanto meglio sarebbe compresa e quanto più sarebbe amata la scienza dalle giovani generazioni se la si presentasse appunto come una tra le tante narrazioni del mondo, senza la pretesa totalitaria di volere annullare o ridicolizzare le altre; e quanto maggiore e più autentico seguito avrebbero le religioni se si ponessero in un rapporto di feconda contaminazione reciproca con le scienze, scoprendo come la verità alberghi nel campo di forza tra differenti narrazioni e non nelle scomuniche reciproche che esse si lanciano.
Una ragione che non lascia parlare l’altro non ha ragione: ha torto, qualunque cosa affermi e da qualsiasi parte si schieri. Educare il (al) pensiero significa non permettere a nessuno di farci tacere, e soprattutto non permettere a noi stessi di cedere alle tentazioni di far tacere qualcuno, che occupi il territorio della fede o della ragione, della poesia o dell’intuizione, della sapienza o dell’empatia, dell’interpretazione o del mistero.