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    Avarizia. Il rapporto deformato con il denaro



    I vizi capitali. Le figure dell’esistenza in autentica /4

    Carmine Di Sante

    (NPG 2008-05-53)


    L’uomo non gode solo del mondo e di quel mondo che è il suo corpo alla presenza di altri corpi, ma anche e soprattutto di quel mondo simbolico particolare e universale che è il denaro e che oggi, per molti, è diventato l’unico regolatore simbolico dei rapporti umani, per cui si vale di fronte all’altro per quello che si guadagna, e il lavoro lo si sceglie non «perché piace» (il lavoro come espressione della propria autorealizzazione) o «perché promuove il bene generale» (il lavoro come espressione della trasformazione del mondo e della sua concreazione quotidiana), ma in base alla lex mercatoria, la legge del mercato che trasforma gli uomini in mercanti e le azioni umane – amori e relazioni, sentimenti e ideali – in merci da produrre e da smaltire. Il bene più desiderato perché condizione di possibilità per l’acquisto e il godimento di ogni altro bene, il denaro è, da sempre, al centro dell’interesse delle famiglie e delle società e, oggi, del mondo che, con la globalizzazione, si sta facendo sempre più villaggio. Per questo è intorno ad esso che ruotano le istituzioni politiche e gli ordinamenti giuridici fondati sul diritto di proprietà (definito dal codice romano come ius utendi et abutendi, come diritto di «usare» e «abusare» di ciò che si ha), ed è per il suo raggiungimento e potenziamento che si commettono ingiustizie e violenze, si fanno rivoluzioni e sommosse, si proclamano guerre fino, personalmente, a prostituirsi e vendere l’anima al diavolo. Consapevole del potere negativo del denaro, Gesù, nel vangelo, ispirandosi alla tradizione profetica, ha parole impietose nei confronti dei ricchi, di coloro che del denaro sono schiavi: «Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione. Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete. Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti» (Lc 6, 24-25).

    La ragione della «maledizione»

    Si fraintenderebbe però sostanzialmente la condanna di Gesù nei confronti dei ricchi se la si interpretasse come condanna della ricchezza in quanto tale, come se egli avesse inteso modificare – per alcuni negativamente, per altri positivamente – la concezione del Primo Testamento per il quale la ricchezza è segno di benedizione e di protezione divina, come testimonia la storia dei patriarchi: Abramo «era molto ricco in bestiame, argento e oro (Gn 13,2), Isacco «crebbe tanto in ricchezze fino a diventare ricchissimo» (Gn 26,13) e Giacobbe «si arricchì oltre misura e possedette greggi in grande quantità, schiavi e schiave, cammelli e asini» (Gn 30, 43).
    Il Nuovo Testamento, più che contestare la ricchezza come benedizione, in realtà mette in luce la ragione che la trasforma da benedizione in maledizione: la volontà di possesso e di appropriazione che ne cancella la dimensione di dono – di dono di Dio all’uomo e di dono dell’uomo all’altro uomo – alterandone il senso e così alienandola. L’avarizia, per la bibbia, è amore per la ricchezza in quanto tale, voluta e accumulata per sé e cancellata come dono provenente dall’alterità divina e destinata all’alterità umana. I termini biblici per avarizia sono pleonexia (Mc 7,22; Rom 1,29; 2Cor 9,5), il volere avere (ekein) più e sempre di più (pleon), e philargyria (1Tim 6,10; cf Lc 16,14; 2Tim 3,2) che letteralmente vuol dire l’amore (philia) per il denaro (argyria). Per Paolo l’avarizia, volontà di avere e possedere più e sempre di più, non solo è un male che deforma l’umano ma, come scrive a Timoteo, è quel male dal quale derivano tutti gli altri mali, tutte le altre deformazioni dell’umano: «radice di tutti i mali è l’amore al denaro (riza gar panteon ton kakon estin e philargyria): per tale sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti» (1Tim 6,10).
    Perché il possesso delle cose e del denaro, condizione di possesso di ogni altra cosa, è, per la bibbia, riza panton ton kakon, la radice di tutti i mali, di tutto ciò che riversa sull’umano bruttura e cattiveria come magma o lava? La ragione non va individuata nella contrapposizione tra l’avere da una parte e l’essere dall’altra, come vuole il noto libro di E. Fromm del 1976 To have or to be? tradotto in italiano con il titolo Avere o essere?
    Una contrapposizione come questa risente più della concezione antropologica della filosofia greca, per la quale l’essenza dell’uomo è nella sua dimensione spirituale di anima incorporea e immateriale, che di quella biblica, che concepisce l’uomo come essere carnale, la cui soggettività si iscrive in un corpo che, come ogni corpo, per essere, ha bisogno di cose e come ogni carne è fragile e vulnerabile, destinata alla morte. Per la bibbia, non c’è essere senza avere perché, per essa, l’essere dell’uomo è di avere necessariamente, dall’aria che respira alla carezza che ne sfiora il viso. Se il libro di Fromm ha il merito di denunciare quell’avere che, invece di essere espressivo dell’umano, ne costituisce il tradimento (e la denuncia del filosofo ebreo resta ancora più vera oggi nel capitalismo vincente che si va globalizzando), fallisce invece il bersaglio nel pensare che alla cura dell’avere sia da preferire quella dell’essere, perché l’uomo, come si è detto, per essere ha bisogno dell’avere.
    Per la bibbia la contrapposizione va colta altrove: non tra l’avere e l’essere, bensì tra l’avere per sé e l’avere per l’altro, e ciò che trasforma il possesso delle cose e del denaro in avarizia o vizio non è il desiderarli o il volerli, ma il desiderarli e il volerli da sé e per sé, cancellandone la loro dimensione di gratuità o dono.
    Al popolo che sta per entrare nella terra promessa, terra dove «non mangerai con scarsità il pane», «dove non ti mancherà nulla» e dove «le pietre sono ferro e dai cui monti scaverai il rame» (cf Dt 8, 9), Dio ordina: «Mangerai a sazietà e benedirai il Signore Dio tuo a causa del paese fertile che ti avrà dato» (Dt 8, 10).
    Su questo imperativo, che contesta alla radice qualsiasi visione dualistica e ascetica dell’uomo nel suo stare al mondo, la tradizione ebraica ha istituito la sua prassi liturgica organizzata intorno alla categoria della benedizione, e, cosa ancora più sorprendente, le stesse modalità e strategie di produzione, se è vero, come testimoniano i due talmudim, quello di Babilonia e quello di Gerusalemme, la raccolta del sapere orale che accompagnava il testo biblico, che la prima sezione intitolata Zeraim («Sementi»), dedicata alle leggi agricole, si apre con il trattato Berakot, dedicato alla preghiera di benedizione. Questa non consiste nel benedire le cose o gli oggetti, secondo la prassi nota alla tradizione cristiana, ma nel dire bene di Dio di fronte ai beni di cui l’uomo dispone riconoscendo in essi la sua bontà in cui si visibilizza.
    Per il Talmud a nessuno è consentito porsi di fronte alle cose del mondo per impossessarsene e goderne, se prima non ha pronunciato la preghiera di benedizione, la cui formula breve ed essenziale si compone di due parti, la prima standardizzata («Benedetto tu, Signore nostro Dio, re dell’universo»), la seconda che cambia di volta in volta, esplicativa della motivazione della benedizione: «perché estrae il pane», se si tratta di mangiare, «perché estrae il frutto della vite», se si tratta di bere del vino o «perché compie l’opera della creazione», se si tratta di contemplare il paesaggio, «perché ci ha fatto pervenire fino a questo giorno», se si tratta di rivedere un amico, ecc.
    Parole come queste non sono, per l’uomo biblico, magiche o rituali ma performative. Performativa, secondo la celebre definizione di Austin, è la parola che non descrive ciò che esiste ma fa essere ciò che non esiste e che, a far esistere, è la parola de-cisiva del soggetto. L’amico che dice all’amico: «domani vengo a trovarti» o il ragazzo alla ragazza: «prometto di amarti» fa essere una realtà – la realtà del dover essere - sottraendo la sua libertà all’immediatezza della spontaneità e della psiche e così autovincolandola e autovincolandosi. In un mondo dove l’uomo è libertà, possibilità di rimettersi in gioco continuamente, la promessa, come vuole H. Arendt, è unico punto stabile nell’instabilità dell’umano e, insieme con il perdono, è il vero miracolo ed evento che sottrae la storia al determinismo della spontaneità.

    La parola di benedizione

    Come la promessa, anche la parola di benedizione che l’uomo biblico premette al suo rapporto con le cose prima di possederle e di goderne è parola performativa, cioè istitutrice, di una nuova realtà, quella della gratuità. Dicendo, prima di mangiare del pane o di bere del vino, «benedetto tu Signore, re dell’universo che estrai il pane dalla terra» o «che produci il frutto della vita», l’uomo biblico riconosce che ciò di cui si nutre non è suo ma di Dio e, se di Dio, non può appropriarsene e rivendicare su di esso il diritto di proprietà, per cui se ne gode può solo goderne in quanto gli è dato gratuitamente. La benedizione, che l’uomo biblico incunea tra il suo essere di bisogno e le cose del mondo che rispondono al suo bisogno, è parola performativa che istituisce l’impossibile appropriazione del mondo da parte dell’uomo, non perché il mondo gli sia estraneo, secondo la linea dualistica o gnostica sempre ricorrente e spesso dominante nella tradizione cristiana, ma perché gli è donato dalla bontà divina che gli è anteriore e lo previene. Nel celebre romanzo I miserabili di V. Hugo, a chi gli aveva rubato le posate d’argento dalla casa e che i poliziotti avevano arrestato per il suo fare sospetto e glielo avevano portato per interrogarlo, il vescovo «ah! – eccovi – gridò – guardando Jean Valjean. – Sono contento di vedervi. Ebbene, come mai? Vi avevo regalato anche i candelieri, che sono d’argento come il resto e dai quali potrete ricavare duecento franchi. Perché non li avete presi con le posate?». Dicendo: «vi avevo regalato anche i candelieri», il vescovo istituisce una nuova realtà – la realtà del dono e della gratuità – dove non vige più la logica del prendere e del rubare per cui Jean Valian non può essere arrestato, non avendo più commesso il reato.
    Questo vige nell’orizzonte della proprietà, dove l’io si definisce come possessore, ma non in quello della gratuità, dove è ricettore.
    Ciò che, per la bibbia, fa dell’avarizia una patologia e la traforma in peccato e vizio, è la negazione della gratuità che istituisce, e la ragione per cui Paolo la ritiene riza panton ton kakon, la radice di tutti i mali, è perché, negando la gratuità, nega la fiducia e l’abbandono in Dio, riducendo e degradando l’io a io proprietario, solitario e idiota, termine che etimologicamente rimanda a chi fa riferimento solo al proprio io e, per questo, incomprensibile, pazzo o folle. Scrive l’apostolo: «per tale sfrenato desiderio [della philargyria o avarizia] alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti» (1Tim 6,10). L’avarizia è tradimento della fiducia nella bontà del Padre celeste che, se «veste l’erba del campo» (cf Mt 6,31) e «nutre gli uccelli del cielo» (cf Mt 6, 26), tanto più si preoccupa e provvede ai suoi figli (Mt 6, 30ss). Gli avari, quanti soccombono al potere della philargyria, dell’amore per il denaro, si autoprocurano molti tormenti, letteralmente «trafiggono se stessi con molti dolori», perché si escludono dalla logica della bontà recettiva e attiva. Del personaggio anonimo della nota parabola lucana noto come ricco epulone, «che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava» (Lc 16,19) incurante del «povero Lazzaro coperto di piaghe e bramoso di sfamarsi», Gesù annota che «morì» e andò «all’inferno tra i tormenti» (Lc 16,23). Il tormento dell’inferno al quale è condannato il ricco della parabola evangelica è il tormento dell’avaro che, nella sua avarizia, precipita nell’insensatezza, sommerso dal grido di rimprovero dei poveri lazzari ai quali quella ricchezza sarebbe dovuta essere destinata. Tratto non più solo individuale, di alcuni gruppi o solo classi privilegiate, ma dell’intera società occidentale che consuma la maggior parte delle risorse mondiali, l’avarizia – come volontà di produzione e di accumulo per sé e non per l’altro – oggi minaccia di configurarsi come il volto stesso del capitalismo che della competizione e del mercato pretende fare il suo idolo.
    E se il gemito che sale dalle vittime – gli affamati, i dimenticati, gli abbandonati e i violentati del terzo e quarto mondo (designazione delle aree più emarginate del mondo, non solo esterne ma sempre più interne allo stesso occidente ricco e cristiano, dove il divario tra chi ha e non ha si allarga scandalosamente) – e dal pianeta minacciato nella sua stessa sopravvivenza fosse il segno dell’inferno di infelicità e insensatezza in cui precipita la società – ogni società – quando in essa si eclissa il nomos della giustizia, della compassione e della fraternità?

    AVARIZIA
    «il rapporto deformato con il denaro»
    Scheda operativa a cura di Giuseppe Morante


    La bibbia insegna che non bisogna avere con il denaro un atteggiamento possessivo. Mentre nella cultura attuale l’uomo vale per quello che guadagna e per quanto ammonta il suo conto in banca.

    1. Educarsi a dare un giusto valore ai beni materiali
    Partiamo dalla definizione: il dizionario precisa che l’avarizia è un morboso attaccamento al denaro che induce a spenderlo malvolentieri, o a non spenderlo affatto. Questa definizione dà il significato letterale del concetto riferito ai «beni materiali».
    Ma l’avarizia ha anche un significato metaforico: si può essere avari di ciò che è nostro senza darlo volentieri, anche dei sentimenti. Dopo questa presa di coscienza si può avviare un gioco di gruppo in cui ciascuno dice chi gli sembra il più avaro e perché…
    Pedagogicamente, si tratta smascherare questa «idolatria» perché la «realtà non finisce dove arriva il nostro occhio materiale». Oltre le apparenze dell’avere c’è anche la realtà dell’essere; e la felicità non è acquistabile coi beni materiali e l’avidità del guadagno, ma occorre riequilibrare, nel piano di Dio, l’essere e l’avere.
    * A livello personale, sarà necessario che l’animatore porti a far fare una prima revisione di quello che uno prova nei confronti delle cose e delle persone: far riflettere cioè sul fatto che non si deve cercare un Paperon de Paperoni, ma osservare dentro di sé i pensieri a cui si associa felicità e benessere materiale:
    – l’avarizia è un vizio frequente, quasi diventato oggi un luogo comune: ritenere che la felicità possa essere acquistata o posseduta per sempre. L’illusione del denaro è quella che esso possa fornire o acquistare ciò di cui più profondamente uno ha bisogno; molti sanno bene che l’equazione denaro=felicità è sbagliata, ma difficilmente cambiano atteggiamento nei suoi confronti;
    – l’avarizia è un attaccamento disordinato al denaro e alle ricchezze, per cui o si possiede con troppo attacco quello che si ha, o si cerca avidamente quello che non si ha:
    • non è un vizio esclusivo dei ricchi; ci possono essere dei poveri che sono più attaccati ai loro cinque centesimi, mentre c’è gente ricca che è libera e generosa;
    • è avaro anche chi cerca avidamente roba, soldi, mezzi, per servirsene e soddisfare altre passioni.
    L’animatore evidenzia che il vizio dell’avarizia è subdolo, perché difficilmente lo si riconosce, avendo esso una logica strana. L’avaro identifica il vizio con i valori della virtù dell’ascesi (i suoi), non con quelli dello sperpero (degli altri).
    * A livello sociale, l’avaro è una figura consolidata della cultura (L’Avaro di Moliere, il Mr. Scrooge di Dickens), e descritta con rappresentazioni metaforiche. Sarebbe ingenuo individuare questi personaggi nella società di oggi. Ma se l’universo è composto da materia e spirito, l’avarizia dilata ed espande il mondo della materia rendendolo assoluto, illimitato, dominante. La spiritualità finisce così per non avere più alcun posto, alcuna forza, e l’unico assioma che sembra possibile è: «io sono ciò che ho, ciò che posseggo». L’avarizia diventa così il peccato dell’onnipotente supremazia della materia sullo spirito. Il denaro è tanto onnipotente da prendere letteralmente il posto dell’Onnipotente dei cieli: il denaro quindi diventa un Dio, possesso del potere assoluto. Perciò va protetto, non sprecato, e amministrato con la massima cura. Esso è quindi trasformato da mezzo per realizzare qualcosa, in una finalità in sé. Non è più lo strumento che aiuta nei progetti importanti, ma diventa un valore in se stesso, il fine ultimo.
    In verità, l’accumulo e l’immobilizzazione delle potenzialità inespresse non fanno altro che condurre all’isolamento affettivo, facendo da stimolo a competizione, a continua ricerca di vantaggi e interessi, generando a catena nei macrosistemi le condizioni per le ingiustizie, e per le varie forme di criminalità. Basti far riferimento alla cronaca nera di ogni giorno.
    L’ideale dell’abbondanza materiale dell’umanità finisce per essere in realtà un’abbondanza limitata esclusivamente ai paesi ricchi, e fondata sullo sfruttamento di quelli poveri. L’ideale del superpotere dell’uomo sulla natura è in realtà fonte di conflitti e di disastri ecologici. E infine l’ideale della felicità intesa come soddisfacimento di tutti i bisogni narcisistici è in verità la causa dell’alienazione, basata non sul valore di dar senso alla vita, ma sul valore d’uso di una cosa o una persona. Il cuore dell’avaro è freddo e difficilmente viene scaldato dagli eventi della vita, i quali vengono affrontati esclusivamente attraverso una loro contabilizzazione economica. Così ogni elemento viene monetizzato e trasformato nel suo equivalente in denaro: quanto costa avere un figlio? Quanto costa sposarsi? Quanto costa ammalarsi? Quanto costa vivere?

    2. L’avarizia… a confronto con la Parola di Dio
    Per la bibbia non c’è contrapposizione tra l’essere e l’avere, perché l’uomo per essere ha bisogno di avere. La radice del vizio sta nell’avere per sé e non per l’altro… Vizio è il desiderare e avere solo per sé i beni materiali… cancellando il senso del dono e del gratuito… Da qui sorge il vero compito educativo.
    * La comunità cristiana deve educare il ragazzo, negli anni dell’età evolutiva, all’atteggiamento del dono, del mettersi al servizio senza calcoli opportunistici, del vivere la propria vita come una missione. Il vero spirito ecclesiale consiste nel perdersi nella comunità e per la comunità. Impegnare in questa direzione i momenti più significativi della stessa vita sacramentale:
    – mensa eucaristica e condivisione dei beni. Si deve sentire il bisogno di prolungarla nella vita quotidiana e nelle più varie situazioni umane come «eucaristia» per gli altri;
    – diventare confermati nella fede. Bisogna esercitarsi al servizio permanente e generoso del Regno, esercitandosi in questa espropriazione evangelica contro l’egoistico dell’avarizia.
    * La famiglia cristiana ha un compito urgente (integrabile sì, sostituibile no):
    – lavorare contro le varie forme di materialismo incancrenito, con scelte austere di ascesi del distacco e di aiuto ai poveri;
    – impegnarsi a ricostruire la società sulle basi dell’amore oblativo, quando troppe strutture, mentalità, abitudini si sono cristallizzate nell’egoismo più pacchiano e volgare…
    * Il gruppo deve imparare a motivare le scelte con un confronto evangelico. Per la bibbia il credente è invitato a «dire bene» (= benedizione) di Dio, di fronte ai tanti doni che egli mette a disposizione dell’uomo. La parola benedizione (= dono delle cose ricevute) trasforma, nell’uso e nella gratuità, i doni di Dio. L’avaro è il possessore del dono per sé; il generoso è colui che restituisce ciò che ha ricevuto. Chi è più felice e sereno?
    Vizio dell’avarizia è negare la gratuità… Tale situazione produce infelicità, perché diventa tradimento della bontà di Dio. Ciò vale anche per i paesi ricchi e i paesi poveri, a livello sociale e globale… L’avarizia può essere ritenuta dannosa per la società, poiché ignora il bene degli altri.
    Per il mensile Ok, la malattia dell’avarizia è di quelle «vere». È possibile uscirne riconoscendone i sintomi, riflettendo: «Pensi che gli altri si godano la vita più di te?». «Menti per non offrire?». «Provi dolore nell’invitare a casa gli amici?». Il confronto aiuta…
    L’avarizia non è un vizio raro o di poco conto se nella bibbia si lanciano tanti anatemi. Cf Ger 6, 10-13; Mt 5, 3; Lc 16; Col 3, 5-6; «guai a voi ricchi…» di Gesù. L’avaro trasferisce alla roba e al denaro il culto che è dovuto solo a Dio. Infatti il culto dovuto a Dio ci chiede di riconoscere Lui come ultimo fine, aderendo a Lui con viva fede, speranza e amore, pronti a sacrificare tutto per Lui («Chi non perde la sua vita per me…»). L’avaro, invece, pone ogni sua sollecitudine e desiderio nel possesso, nel denaro, nella roba e sacrifica ad essi corpo, sanità, coscienza, salvezza dell’anima… Non è questa una mostruosa schiavitù e idolatria? Calpestando l’amore di Dio, l’avaro calpesta anche quello del prossimo. Non ha mai tempo per le cose di Dio e per i doveri religiosi, nessun interesse per la vita spirituale, ma anche nessun riguardo per il bene comune.


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