Paolo e i giovani /1
Il discorso di Paolo ad Atene (At 17,16-34)
Francesco Bargellini
(NPG 2008-09-48)
Prima di esaminare il discorso di Atene, occorre domandarsi chi ne sia l’autore. Se da una parte è Paolo che lo pronuncia, dall’altra è Luca – autore del vangelo e degli Atti degli Apostoli – che lo ha composto.[1]
Conformandosi ai canoni della storiografia greco-latina (cf Lc 1,1-4), Luca inserisce nella storia delle prime comunità cristiane dei discorsi, tenuti soprattutto dagli apostoli Pietro (8) e Paolo (9).[2]
Con tali discorsi Luca intende restituire il pensiero e la figura di un apostolo, come facevano gli storici dell’antichità con i protagonisti delle loro opere. Si potrebbero paragonare a «falsi d’autore», cioè a copie perfette di un originale.
La domanda è allora questa: il Paolo presentato da Luca è convincente? In particolare: i discorsi, attribuiti a Paolo, ne rispecchiano la personalità che emerge dalle lettere? Alla domanda è possibile rispondere di sì: il Paolo lucano è una riproduzione fedele dell’Apostolo delle genti.[3]
Se questo è vero, come si può spiegare un contrasto così stridente tra il discorso di At 17,22-32 e Rm 1,18-32? Come può lo stesso Paolo riconoscere all’uomo la facoltà naturale di conoscere Dio – come in Atti –, e poi negarne di fatto la possibilità nella lettera ai Romani, denunciando l’empietà e le perversioni idolatriche, a cui si sarebbe consegnato? Effettivamente, in At 17,22 Paolo esordisce con le parole: «Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete religiosissimi…». Mentre in Rm 1,21 scrive che i pagani «pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa». E, in tal modo, «hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili» (v. 23).
In realtà, un simile confronto è scorretto, come anche la conclusione cui si giunge: il discorso di Atti sarebbe una semplice «invenzione» di Luca, mentre la lettera ai Romani rifletterebbe il genuino pensiero dell’Apostolo. Ma prima di qualsiasi giudizio, i due testi devono essere valutati in rapporto al loro contesto e alla loro funzione. Inoltre, come non tenere nella dovuta considerazione il diverso uditorio? Mentre At 17 è un discorso di «propaganda religiosa», rivolto a non credenti, la lettera ai Romani si rivolge ai cristiani. La ricerca umana di Dio – punto di partenza della teologia naturale – svanisce di fronte alla sublimità della rivelazione di Gesù Cristo.[4] Ed è proprio da questa prospettiva che Paolo valuta la situazione religiosa dei pagani in Rm 1,18-32.
[5]Accennate le questioni introduttive, che richiederebbero una più ampia e adeguata trattazione, si può passare a studiare il testo di Atti nel suo contesto.
Il testo di Atti nel suo contesto
Il discorso di Atene rientra nella missione di Paolo in Asia e in Grecia, narrata da Luca nei capp. 15-19 di Atti. La base operativa dell’attività missionaria è Efeso, la capitale della provincia romana dell’Asia e sede di una delle sette meraviglie del mondo antico: il tempio di Atena (Arthemision).
Il discorso pronunciato da Paolo (At 17,22-31) è preceduto da un sommario iniziale (vv. 16-17) e da un antefatto (vv. 18-21), che ne è la preparazione: ne vengono infatti precisate sia l’occasione (la discussione con «filosofi epicurei e stoici», desiderosi di conoscere la «nuova dottrina» annunciata da Paolo), sia la giustificazione (la proverbiale curiosità degli ateniesi). Tra questa cornice iniziale e quella finale (cf vv. 32-34) si pone il discorso dell’Apostolo davanti all’Areòpago, che si articola in tre momenti: l’esordio (vv. 22b-23), l’argomentazione (vv. 24-29) e la conclusione (vv. 30-31).
Che il discorso di Paolo rispecchi l’annuncio missionario della primissima comunità cristiana – a sua volta debitrice al giudaismo ellenistico [6] – è tra l’altro confermato da 1 Tess 1,9-10, il più antico degli scritti presenti nel Nuovo Testamento, datato al 51 d.C.: «(…) e come vi siete convertiti a Dio, allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, che ci libera dall’ira ventura».
I due motivi fondamentali del monoteismo («allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero»)[7] e del giudizio finale («ira ventura»), che sarà compiuto dal Cristo risuscitato (il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù), ritornano nel discorso di Atene.
L’argomentazione (vv. 24-29) non è altro che il logico sviluppo della dichiarazione iniziale: «Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene…». Perciò non può dimorare all’interno di edifici costruiti dall’uomo, né avere bisogno di qualcosa (vv. 24b-25). Creatore e benefattore della famiglia umana, non può essere simile a statue recanti «l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana» (vv. 26-29).
Mentre nei vv. 30-31 la vigorosa esortazione a «ravvedersi» è motivata dal giudizio finale, che si compirà «per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti».
E, tuttavia, nel discorso di Atene si avverte tutta la genialità paolina. In effetti, questo canovaccio del primitivo annuncio missionario viene arricchito sotto diversi aspetti. Dopo l’elegante captatio benevolentiae dell’esordio (v. 22b),[8] Paolo sfrutta un motivo letterario: l’iscrizione sull’altare, attestato in almeno altre due opere del I secolo. Sia nella vita di Apollonio di Tiana, composta da Filostrato all’inizio del II secolo per mandato di Giulia Domna, sia nella quarta lettera pseudoeraclitea (I sec.?) è documentato lo stesso topos. In quest’ultimo scritto, in particolare, lo stesso motivo è collegato a quello dell’ignoranza, anche se declinato in modo diverso.
E questa è solo la prima pietra di una straordinaria opera: il ponte culturale, che Paolo costruisce tra il kerygma cristiano – il primo annuncio di fede – e il mondo dei suoi destinatari.[9] Anche se ciò spiccherà mirabilmente nel corso dell’argomentazione, già ora l’Apostolo dimostra la sua apertura e la sua creatività. La prassi di innalzare altari «agli dèi ignoti» era comune presso i pagani, timorosi di trascurare qualche divinità a loro sconosciuta. Che ad Atene esistesse un tale altare è attestato da Pausania, ed è certamente lo stesso che Apollonio di Tiana vide nel suo soggiorno. Ma l’iscrizione al singolare («al Dio ignoto») non è documentata da alcuna fonte letteraria o epigrafica. È in realtà una correzione di Paolo, che così monoteizza l’iscrizione politeistica originaria per il suo annuncio missionario[10]: «Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio». Ciò vale altresì come risposta all’accusa, fatta dai filosofi epicurei e stoici nel v. 18, che Paolo fosse un «ciarlatano»[11] e un «annunziatore di divinità straniere». In realtà, l’Apostolo annunzia il divino,[12] che essi adorano già senza conoscerlo!
La conoscenza di Dio
Nell’esordio è così messo a fuoco il tema fondamentale di tutto il discorso: la conoscenza di Dio, che ha come esito la conversione (metánoia). Tale conoscenza non è meramente intellettuale. Paolo annuncia il Dio «che ha fatto il mondo» e «che creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini», per i quali «ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio». È un Dio che agisce, per creare e beneficare la sua «stirpe». È un Dio che non è «lontano da ciascuno di noi».
Nell’argomentazione Paolo dialoga con la cultura del suo tempo, in particolare con lo stoicismo e il misticismo ellenistico. Ne deriva un’efficace propedeutica al monoteismo, in cui la fede biblica viene resa accessibile ai destinatari con un linguaggio a loro familiare e comprensibile. Per esempio, se si confronta la dichiarazione di fede in At 17,24a («Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che è in esso») con quella identica di At 4,24 e di At 14,15 («Signore, tu che hai fatto il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi»), si può verificare che è una citazione letterale di Es 20,11 (LXX). La variazione di «cielo, terra e mare» con «mondo» (kósmos) risponde alla volontà di tradurre il lessico biblico in quello proprio della filosofia greca. Sono infatti dei filosofi ad ascoltare per primi Paolo e a condurlo al colle (o dinanzi al tribunale) dell’Areòpago, per conoscerne (o accertare) la dottrina.[13]
Ma il dialogo con questa cultura è ancora più marcato nei vv. 24b-25, tanto che si può parlare di un connubio tra il pensiero biblico e quello greco. In effetti, l’idea che Dio «non abita in templi fatti da mani d’uomo» è nota allo stoicismo,[14] ma non altrettanto la spiegazione che ne dà la Bibbia (v. Is 66,2). Anche la critica nel v. 25 («né dalle mani dell’uomo si lascia servire, come se avesse bisogno di qualcosa») trova rispondenza nella filosofia greca:[15] la divinità, come essere perfetto, può essere soggetta a bisogni? Ciò viene giustificato di seguito: «essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa» (cf Is 42,5, oltre a Gn 2,7; Sap 1,7; 2 Mac 7,23).
I vv. 24-25 sono costruiti con estrema cura da un punto di vista stilistico nonché retorico, perché il contenuto suoni gradevole (e dunque più efficace) agli orecchi dei destinatari. Le frasi si possono disporre nel modo seguente:
Il seguito (vv. 26-29) sviluppa l’argomentazione paolina, segnandone al contempo il vertice. Alla creazione del «mondo», infatti, segue quella del genere umano «da uno solo». Come nel racconto di Gn 1, l’uomo rappresenta il vertice della creazione divina.
Come procede questa seconda ondata del discorso dimostrativo? Anzitutto, si può osservare facilmente il parallelismo tra le azioni divine e le corrispondenti finalità:
La dichiarazione iniziale «da uno solo» è essenziale, per afferrare il pensiero di Paolo. Se tutti gli uomini sono stati creati «da un unico principio» (come traduce la Bible de Jerusalem), allora tutti sono dotati per natura della stessa capacità di «cercare» Dio, riconoscendo nell’ordine dell’universo («l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio»)[16] il segno che rimanda al suo creatore.
L’argomentazione, tipica già della propaganda giudaica, trova chiara formulazione nel libro della Sapienza (cc. 13-14): «Davvero stolti per natura tutti gli uomini che vivevano nell’ignoranza di Dio, e dai beni visibili non riconobbero colui che è, non riconobbero l’artefice, pur riconoscendone le opere» (Sap 13,1). Ciò sarà ripreso e affermato da Paolo nella lettera ai Romani (Rm 1,20.21).
Pur ispirandosi a tale collaudato genere di argomentazione, e pur ammettendo che Dio ha dato la facoltà di cercarlo a tutti gli uomini, Paolo limita la possibilità effettiva di trovarlo nell’interrogativa indiretta: «se mai lo possano trovare andando a tentoni». La scelta del verbo pse-laphân (= «andare a tentoni, brancolare» e quindi: «toccare» in modo sensibile), l’uso dell’ottativo, e la frase seguente («appunto perché non è lontano da ciascuno di noi») lasciano intendere che la naturale aspirazione a conoscere Dio fallisce. In ciò il pensiero di Paolo riflette quello di Sap 13,6: «Forse essi cercano Dio e lo vogliono trovare, ma cadono in errore». E quindi le parole dell’Apostolo suonano come un giudizio, analogo a quello espresso in Rm 1,21 («inescusabili»).
Ma il punto è che il giudizio resta sfumato, come se non si volesse escludere definitivamente una possibilità: «se mai lo possano trovare andando a tentoni». Ora, il motivo del «cercare» e «trovare» Dio ricorre frequentemente negli scritti dell’Antico Testamento: valgano a titolo di esempio Am 5,6 («cercate il Signore e vivrete»); Is 55,6 («cercate il Signore e, nel trovarlo, invocatelo»); Dt 4,29 e il Sal 14,2 – citato dallo stesso Paolo in Rm 3,11. Ma altra cosa è cercare Dio da credenti, altra cosa è cercarlo da pagani. In altri termini, la prospettiva biblica presuppone e riflette la situazione di quanti conoscono già Dio, in conseguenza del fatto che egli si è rivelato loro.
Sostanzialmente, Paolo si muove tra due punti di vista: la religione naturale e la rivelazione. Ora, se la prima dà la possibilità di aprire un dialogo, la seconda mostra il limite radicale e gli errori della ricerca naturale.
Religione naturale e rivelazione
Non esiste contraddizione tra le due, provenendo entrambe dallo stesso Dio; ma la prima ha bisogno dell’altra, per essere purificata ed elevata al livello della sublime conoscenza del solo vero Dio.
L’incontro tra queste due prospettive, costantemente presenti nel discorso di Paolo, si realizza in tre momenti successivi. Anzitutto, mediante l’uso del verbo pse-laphân. Quindi, mediante l’idea che Dio «non è lontano da ciascuno da noi» (v. 27c). Infine nel v. 28, che è interamente una citazione di scrittori greci.
Il verbo pse-laphân, ben attestato nella traduzione greca dei LXX, è impiegato complessivamente quattro volte nel Nuovo Testamento, tra cui in Lc 24,39. Ciò che sorprende non è dunque il verbo in sé, ma il suo uso in riferimento a Dio. L’idea di toccare Dio nell’accezione concreta e sensibile, che è propria del verbo greco, è infatti estranea al pensiero biblico. Però è diffusa all’interno della Stoa, come fece già notare E. Norden all’inizio del secolo scorso. Ecco dunque un’altra apertura di Paolo alla cultura del suo tempo.
L’idea che Dio non sia lontano dall’uomo è biblica, ma non meno greca. Nell’Olimpico, o sulla prima idea di Dio (12,28), Dione di Prusa scrive: «poiché infatti non erano dispersi né lontano né al di fuori del divino, non potevano rimanere ottusi per molto». Il sorprendente parallelo indica che la fonte, da cui entrambi i passi dipendono, è la stessa: il pensiero stoico.
Infine, nel v. 28 risuonano due citazioni dotte, che agli ascoltatori dovevano apparire un classico. «In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» sembra una citazione, tratta da un’opera perduta di Epimenide di Creta (VI sec. a.C.), dove viene celebrata la figura del suo re Minosse. Così almeno testimonia il commentatore siriaco del sec. IX Isho‘dad di Merw, che pare dipendere da Teodoro di Mopsuestia. La citazione: «Di lui stirpe noi siamo» si riferisce alle opere di due autori stoici, in cui è sostanzialmente attestato il medesimo verso. Si tratta dei famosi Fenomeni (v. 5) del poeta Arato di Soli in Cilicia (la stessa regione in cui si trova Tarso, la patria di Paolo), e dell’altrettanto celebre Inno a Zeus (v. 5) di Cleante di Assos in Troade. Le loro opere sono manifesti del pensiero stoico e del caratteristico panteismo. È degno di nota il fatto che l’Apostolo, mentre si richiama a questi due scritti della Stoà antica, ne corregga radicalmente la visione filosofica fondamentale nel senso della trascendenza e dell’unicità di Dio.
Come si vede, Paolo sfodera tutte le armi utili a intessere un dialogo propedeutico con il proprio uditorio, senza per questo rinunciare a correggerne gli errori. Ciò risulta con estrema chiarezza nella conclusione dell’argomentazione (v. 29), in cui Paolo attinge alla tradizionale critica anti-idolatrica, frequente nel cosiddetto deutero-Isaia (cf Is 41,21; 42,8.17; 45,16.20; 46,5-7)[17] e ampiamente usata dalla propaganda giudaica.
Nell’esortazione finale (vv. 30-31) si passa decisamente dal dialogo interculturale all’esortazione diretta: le idee e i concetti sono infatti biblici (cf «tempi dell’ignoranza»; «giudicare la terra», ecc.). Il vertice della parenesi è rappresentato dalla menzione della risurrezione dai morti di «un uomo che egli ha designato»,[18] per compiere il giudizio. Ed è proprio questa affermazione di Paolo a suscitare derisione e un garbato congedo da parte del suo pubblico, anche se alcuni «divennero credenti».
Un insuccesso?
A questo punto ci si deve porre una domanda, che solo in apparenza è scontata: il discorso è stato un insuccesso? Indubbiamente Paolo non riscuote il grande seguito, che viene documentato altrove: infatti, soltanto «alcuni aderirono a lui e divennero credenti» (v. 34). Ma ciò significa che quel tipo di discorso sia in sé e per sé sbagliato? L’autore di Atti lascerebbe in tal modo intendere che l’unica forma di annuncio possibile sia quella kerygmatica, senza altre (inutili) mediazioni culturali?
Non sono pochi a crederlo. La deludente esperienza – si pensa – avrebbe segnato la predicazione seguente dell’Apostolo, come attesterebbe per esempio la prima lettera ai Corinzi, in cui alla sapienza del mondo viene contrapposta la stoltezza della croce: «Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo: non però con discorso sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo. La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio» (1 Cor 1,17-18).
La bruciante débâcle di Atene avrebbe persuaso Paolo che solo «la stoltezza della predicazione» è in grado di comunicare la salvezza, perché Dio stesso ha disposto così: «Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1,25).
L’idea che il discorso di Atene sia stato un errore, troverebbe perciò conferma nella stessa prassi dell’Apostolo, qual è restituita dalla 1 Cor. Un errore – si badi bene – non solo strategico, ma anche teologico, in quanto è la croce di Cristo che chiede e giustifica «la stoltezza della predicazione».
In realtà, diverse considerazioni militano contro tale lettura, che fraintende il pensiero e l’intento di Luca, autore dell’opera degli Atti.
Per prima cosa, non bisogna avere fretta di passare dagli Atti alle lettere di Paolo, usando queste per interpretare quelli. Limitandoci per ora alla scena degli Atti, la vera domanda è: l’insuccesso del discorso dipende da Paolo o, viceversa, dagli ascoltatori?
Il fatto che «alcuni aderirono» all’annuncio dell’Apostolo, tra i quali un membro dell’Areopago, non fa pensare a un errore di Paolo, quanto piuttosto al rifiuto irridente del pubblico. Questi filosofi epicurei e stoici (v. 18), avendo inteso che Paolo annunciasse due «divinità straniere»,[19] Gesù e la Risurrezione, cioè la «paredra», vollero avere chiarimenti in merito. Allora Paolo elabora una sapiente propedeutica (vv. 24-29), che prepara alla delucidazione attesa: la Risurrezione e Gesù non formano una coppia divina, bensì questi è stato risuscitato da Dio dai morti.
È al sentire parlare di risurrezione dai morti che quei filosofi abbandonano il campo, deridendo Paolo. Ciò che non ha funzionato, perciò, non è l’argomentazione precedente – in cui Paolo mostra di saper entrare in dialogo con quella cultura –, ma è proprio il kerigma, di cui la risurrezione è una parte essenziale (cf 1 Cor 15,3-5). Svanisce allora il sospetto (v. sopra) che Luca, mediante la scena dell’Areopago, mirasse a squalificare qualsiasi forma di annuncio che non fosse quella kerygmatica. È infatti il kerygma a essere rifiutato dagli uni e accolto dagli altri.
È vero che all’inizio della 1 Cor è documentata (e giustificata) una prassi di predicazione molto diversa, per non dire opposta; ma non è detto che fosse l’unica seguita da Paolo, il quale nella stessa lettera (cf 1 Cor 9,19-23) afferma di essersi «fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22). Tale principio di condotta, oltre al carattere occasionale di ogni lettera, non persuade in definitiva che l’errore – se di errore si può parlare – è stato commesso non da Paolo, ma dai suoi ascoltatori?
A quanto detto, si aggiungano due osservazioni di carattere generale. Il discorso di Atene si può considerare come espressione rappresentativa di quel fenomeno culturale – detto ellenizzazione –, che ha precocemente portato a tradurre il vangelo nelle categorie concettuali greche. Inoltre, non va trascurato il costante favore del discorso paolino nella tradizione della Chiesa, che ha sempre scorto in esso un modello esemplare di predicazione (cf nota 7).
In conclusione, se non vengono accentuate le differenze (pure innegabili) tra il discorso di Atti e Rm 1,18-23 minimizzandone i punti di contatto, i due testi risultano tra loro più complementari che contradditori. Sul loro sfondo si può intravedere l’annuncio missionario del «Paolo storico», il quale è profondamente inculturato,[20] ma non per ciò meno orientato dalla novità assoluta di Cristo. Anzi, è proprio quest’ultima a comandarne il discorso all’Areopago:
«Paolo adotta qui un tipo di approccio alla situazione dell’uomo, che è già comandato in partenza, oltre che da una precomprensione giudaica (apocalittica e sapienziale), soprattutto dal suo concetto di vangelo (cf 1,16-17), dalla sua comprensione dell’evento staurologico (cf 3,21-26), in definitiva dalla sua fede in Gesù Cristo (cf 3,27-31). È proprio vero che per lui, secondo la formula sintetica di E. P. Sanders, ‘la soluzione precede il problema’[21]. Anzi, si potrebbe precisare che è la soluzione a rivelare e in qualche modo a creare il problema stesso, poiché senza la croce di Cristo intesa come luogo della manifestazione escatologica della giustizia di Dio, neanche la situazione dell’uomo, tanto del Greco quanto del Giudeo, sarebbe apparsa in tutta la sua disperata gravità».[22]
Quello che R. Penna scrive a proposito di Rm 1,18-2,29 è sostanzialmente applicabile al discorso di Paolo ad Atene.
Nonostante le evidenti differenze, l’impostazione di fondo è identica in entrambi i casi: per Paolo ogni considerazione parte da Gesù Cristo «e questi crocifisso» (1 Cor 2,2), al punto che veramente «la soluzione precede il problema», e lo determina come tale. A mo’ di congedo, riporto il commento di Giovanni Crisostomo (+ 407 d.C.) a questo discorso di Paolo. In esso vede una «intelligenza apostolica fondata sull’amore, non una concessione teologica di una prevalenza della conoscenza pagana di Dio rispetto al vangelo e alla testimonianza dei profeti dell’Antico Testamento. Il suo intervento nel culto pagano mette in crisi la religiosità greca e il lavoro del pensiero greco».
Paolo offre qui – prosegue il Crisostomo – «una nuova visione della creazione e della storia, nelle quali Dio è loro vicino».
NOTE
[1] La fonte di Luca include la discussione con i filosofi di Atene; e il discorso di Paolo? L’ipotesi è comunemente esclusa dai commentatori. In senso contrario si pone ad es. R. Pesch, Atti degli apostoli (Commenti e studi biblici), Assisi 1992 (or. ted. 1984), pp. 668-673.
[2] Per l’importanza dei 24 discorsi in Atti v. Id., pp. 33-37.
[3] Cf il giudizio espresso in tal senso da J. Roloff, citato in Id., pp. 686-687.
[4] R. Penna, L’apostolo Paolo. Studi di esegesi e teologia (Parola di Dio. Seconda serie 12), Cinisello Balsamo (MI) 1991, pp. 593-629.
[5] Id., pp. 126-134. In particolare, quanto l’autore afferma a proposito della sezione di Rm 1,18-2,29 è riferibile anche al discorso di Paolo ad Atene: «Paolo vi sviluppa una riflessione teologica profondamente inculturata» (p. 132).
[6] Cf Sap 13-15.
[7] Questo motivo è tipico della propaganda missionaria giudaica, che viene cristologizzata dai cristiani.
[8] Collegandosi a quanto detto nel v. 16, la captatio suona ambigua: «molto religiosi» o «molto superstiziosi»? Il termine greco può avere entrambi i significati.
[9] Come è riconosciuto da tutti i padri della chiesa: cf la «storia dell’effetto» (ted. Wirkungsgeschichte) di At 17 in R. Pesch, Atti degli apostoli…, pp. 687-690.
[10] Così E. Norden, Agnostos Theos – Dio ignoto. Ricerche sulla storia della forma del discorso religioso (Letteratura cristiana antica. Studi), Brescia 2002 (or. ted. 1913), p. 240. Per la pratica delle «correzioni» (epanortho-seis) in ambito stoico: Id., p. 241.
[11] In greco spermológos, cioè ‘raccoglitore di parole’, ‘ciarlatano’. Originariamente riferito a un tipo di cornacchia nera, che raccoglie i semi, il termine è quindi impiegato in senso metaforico e dispregiativo, designando coloro che, incapaci di un proprio pensiero, raccolgono idee qua e là per spacciarle come proprie.
[12] Si noti che il greco usa il neutro: «ciò che è divino». Cò conferisce al concetto la portata più ampia e generale.
[13] I commentatori si trovano divisi su questo punto: Paolo è stato condotto «sull’Areopago» (cioè la collina di Ares), per essere ascoltato dai filosofi epicurei e stoici perplessi (cf vv. 19-20); oppure è stato condotto «davanti all’Areopago», cioè il tribunale supremo in Atene, che si riuniva nella stoa basileos?
[14] Cf i rimandi fatti da R. Pesch, Atti degli apostoli…, p. 679 nota 34.
[15] Già Clemente Alessandrino (Strom. V,11,75) confronta il passo di Atti con quello di Euripide: «Il Dio, se è realmente Dio, non ha bisogno di nulla» (Herc. 1346). La stessa idea ritorna in Antifonte, in Platone e negli stoici, secondo i quali anche l’uomo saggio gode di tale prerogativa.
[16] A prescindere dall’esatta interpretazione di tali parole, Paolo scorge un altro punto d’incontro con la cultura dei propri ascoltatori: le vicende dei popoli sono guidate da una (theía) . L’idea è tanto stoica quanto biblica.
[17] Oltre a Isaia, cf Ger 10,1-6; 51,15-19; Bar 6; Sal 115,3-8; Sap 13,11-15.
[18] Si noti che non viene fatto il nome di Gesù, come quello di Adamo nel v. 26.
[19] Anche a Socrate era stata mossa la stessa accusa, come attesta Senofonte, Memorabilia I, 1,1.
[20] Paolo non intende fare dell'antropologia culturale: il suo unico fine è di disporre al meglio gli uditori all’annuncio del vangelo.
[21] E.P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese. Studio comparativo su modelli di religione, Brescia 1986, 606-613 (= Paul and Palestinian Judaism. A Comparison of Patterns of Religion, London 19842, 442-447). Anche: ID., Paul, the Law, and the Jewish People, Philadelphia 1983, 47-48.
[22] R. Penna, L’apostolo Paolo…, 133-134.