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    Il pudore



    Educare le emozioni /8

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2009-09-69)

    La natura ama nascondersi
    (Eraclito)

    Nel bel film Stand by me – che tutti gli educatori che lavorano con preadolescenti dovrebbero vedere – il protagonista ragazzino, che va con tre compagni alla ricerca dei resti di un coetaneo morto, vede un daino nel bosco risvegliandosi la mattina; ma non ne parla agli altri ragazzi, lasciando che quell’incontro sia un segreto, resti nell’area del non-detto. È l’unico momento in quella avventura nel quale i quattro preadolescenti non condividono qualcosa, non mettono in comune una esperienza; il daino resta nell’intimo del protagonista, questa esperienza non sarà mai raccontata, se non a distanza di anni in un romanzo autobiografico.
    Ci sembra che questa storia possa servire da esempio per quello che noi definiamo pudore come resistenza all’istigazione al discorso che ci appare sempre più come la caratteristica negativa dell’educazione contemporanea – e non solo dell’educazione. Ai ragazzi viene chiesto di dire tutto, di parlare di sé e del loro mondo, di denudarsi spiritualmente di fronte ai compagni e agli educatori, e ogni tentativo di sottrarsi a questa educazione da terzo grado è patologizzato e interpretato come indebita resistenza all’educazione e all’educatore.
    Tutto questo riflette in realtà una situazione più ampia a livello sociale: l’esibizione costretta e impudica delle nudità dei pazienti negli ospedali fa il paio con la richiesta altrettanto irrispettosa della messa a nudo dei propri sentimenti nei talk-show, nelle interviste e in tutto l’insopportabile circo mediatico.
    Nulla sembra sfuggire a questa esposizione universale del dolore, del sentimento, della nudità dei soggetti; ci viene in mente l’esperienza del piccolo Jona che vede il cadavere del padre nudo in mezzo agli altri deportati uccisi nel campo di sterminio:

    Altri bambini ci avevano seguito. La maggior parte si teneva il naso chiuso. Una bambina mi disse: «Guarda, là c’è il tuo papà, non ha neppure un lenzuolo». Allora vidi i morti. Erano fagotti fatti di lenzuola. Da alcuni sporgevano gambe e braccia. Certi corpi erano nudi. Altri avevano ancora i calzoni. Giacevano lì, gettati disordinatamente uno sopra l’altro, per verso e per traverso. (…). Entrai e scavalcai i corpi che mi stavano davanti. Mi arrampicai sul mucchio e gettai un’occhiata nel fagotto più in alto. Vidi soltanto un braccio. Cominciai a svolgere il lenzuolo. Fuori udii che gridavano. Tirai fuori il braccio. La mano somigliava a quella di mio padre Tirai ancora il lenzuolo fino a che riuscii a vedere la testa. Il volto era nero di barba. Scesi giù dal mucchio e guardai il corpo di lato. La luce ci arrivava sopra appena. Cercai di vederlo in volto. Gli occhi erano neri. Le guance incavate. La barba corta come quella del mio papà. Anche il naso somigliava al suo. Guardai ancora le mani. Assomigliavano molto a quelle del papà. (…) Una delle bambine disse: «Tuo padre non ha neanche un lenzuolo». Io dissi che lo aveva sì, il lenzuolo addosso, e che lo avevo visto con i miei occhi. Lei disse che lo aveva visto anche lei e che non era vero. (…) Poi corremmo via e io ora potevo restare con quelli più grandi. La sera la mamma mi domandò che cosa avevo fatto durante il giorno. Le raccontai che ero stato insieme ai ragazzi più grandi. Mi domandò se mi prendevano così senz’altro con loro e io le spiegai che ora sì, mi prendevano con loro, perché avevo superato la prova. Ero stato all’osservatorio. Lei mi domandò che cos’era, un osservatorio. Risposi che lo sapeva benissimo, che lì c’erano i cadaveri e che sapeva anche benissimo che mio padre era stato gettato sopra gli altri cadaveri e che non aveva neppure un lenzuolo e io avevo detto ai bambini che ne aveva sì uno, mentre avevo visto benissimo che non ne aveva. Mi misi a strillare che lei era matta a lasciare che lo buttassero così sugli altri cadaveri senza lenzuolo e che non mi aveva neppure raccontato che era stato portato via dalla baracca dell’infermeria e che io volevo andare almeno a salutarlo un’ultima volta e che lei era stata cattiva e che era colpa sua se era lì così nudo sopra i cadaveri.[1]

    Occorre allora trovare lenzuoli; occorre insegnare ai bambini e ai ragazzi, alle ragazze e alle bambine, a trovare spazi e tempi di nascondimento e di raccoglimento, per celare al mondo ciò che hanno di più intimo e di più personale. Si tratta di cercare quelli che noi definiamo «buchi bianchi»: un buco bianco è un frammento di spazio-tempo essenziale per la resistenza del soggetto, uno spazio di crepa, di falda, di soglia che si incunea nelle incrinature presenti tra gli oggetti e nell’anima stessa degli oggetti.
    Il buco bianco è spazio pudico e nascosto nel quale rielaborare e finalizzare i propri sforzi; spazio di riposo ma anche di disimpegno attivo dal fragore del mondo; è il cespuglio dietro il quale si nasconde la tigre prima di spiccare il balzo, è il silenzio gravido di promesse proprio di quel cespuglio. Nel buco bianco ci si cela, ci si nasconde, kryptestai: pensiamo al buco bianco come a uno spazio-tempo di ridefinizione di frammenti di quel Sé violentato dalle istanze di dominio, di riappropriazione di tutti i significati delle cose che sono stati cancellati dal trascorrere dei secoli. Il bigliettino che i due adolescenti innamorati si scambiano in segreto nell’aula scolastica, il doppiofondo della cartella nel quale il bambino nasconde i soldatini come il muro della cella sul quale il deportato scrive messaggi d’amore o di lotta, sono frammenti interstiziali in uno spazio-tempo del dominio che crediamo omogeneo, ma che in una prospettiva resistenziale possiamo colonizzare con i «nostri» buchi bianchi.
    Ma tutto questo non è possibile se l’educatore per primo non mette in atto procedure di sottrazione e di nascondimento: il mito cabalistico dello tzim-tzum si interroga sulle origini del mondo e del cosmo prevedendo una sorta di rattrappimento della divinità. Creando il mondo Dio, si è ritirato progressivamente per lasciare spazio a quell’altro da sé che era ed è la sua creazione; non ci sono parole per dire che cosa ci sia nell’assenza di Dio e che cosa ci sia nel prima rispetto alla comparsa del mondo.
    In un certo senso è proprio questo rattrappimento a dover essere ricercato e perseguito dall’educatore che vuole insegnare la forza resistenziale del pudore: lasciare spazio al proprio allievo significa sia farsi da parte nel momento in cui gli/le si attribuiscono nuove responsabilità, sia lasciare in ombra parti di sé (la propria vita privata, le proprie vicende sessuali, le proprie frustrazioni con i figli) che devono essere appunto sottratte alla relazione educativa e giocate nei propri spazi privati.
    C’è allora una debole forza resistenziale del pudore: occorre imparare il pudore e insegnarlo ai nostri ragazzi, come contrappeso alla squallida esibizione dei sentimenti che i mass-media ci propongono; un silenzio pudico come cura di ciò che si è ricevuto, come salvaguardia di ciò che potrebbe morire se esposto all’aria aperta, nella piazza, nell’agorà.
    La democrazia che occorre realizzare, che è democrazia cosmica perché non può non comprendere gli animali e le piante come portatori di diritti, non è una democrazia trasparente (questa sarebbe semmai una distopia); è invece un mondo popolato di spazi oscuri e di penombre quello che dovremmo iniziare a costruire, dove il principale diritto dell’uomo, della donna e dell’animale è il diritto al silenzio e alla solitudine, alla cura per il non-detto e per non-dicibile, alla contemplazione solitaria e rispettosa dell’esperienza dell’incontro con un daino, troppo fragile e tenera per poter essere esposta ai riflettori della narrazione obbligata e della pubblica confessione.
    Si tratta di invitare a uno stile di vita leggero e sobrio, che sappia sottrarsi senza che questo significhi abbandonare il mondo o tradire le amicizie; ma si tratta anche di uno stile di vita che sappia chiudere le storie, gestire i congedi, narrare gli addii:

    Nei buchi neri del mondo è difficile perdersi completamente,/
    c’è sempre un momento in cui si ritorna con le mani nervose a domandare di niente,/
    ma lei c’è riuscita, diceva, non credo che ti ricorderai,/
    mentre ridendo mi lasciava una busta con scritto non aprire mai./
    Ed è per questo che noi da oggi, abbiamo smesso di cercarla,/
    avrà certo fatto ancora molte volte l’amore, avrà certo passato il confine straniero,/
    starà certo aspettando da sola il suo grande sospiro.[2]

    Il pudore ci regala la forza di andare leggeri per il mondo e di considerare anche le altrui presenze come passeggere, e per questo più profonde, più importanti; gestire il mistero che alberghiamo dentro noi senza metterlo sempre al centro dell’occhio di bue dei media ma condividendolo con alcuni amici (e per certi versi nemmeno con quelli, come per il daino di Stand by me) può insegnare a serbare la propria identità più autentica; e può insegnare anche agli altri quel senso del congedo e del ritiro, quell’anticipazione della morte che per chi vive di audience e di dati Auditel è il peggior terrore, ma per chi sa vivere celato (almeno per una parte che sa) perde in parte il suo pungiglione velenoso. Insegnare il pudore significa insegnare ad andarsene:

    Con il mare proprio sotto casa mia /
    il mio destino in fondo quale vuoi che sia /ho scelto la mia vita libera /
    può darsi che non torni più /del mio ricordo fanne un po’ quel che vuoi tu (…) Il giorno che la voce del vento si farà lontana /
    forse sui capelli avrò tutto il bianco del sole ormai /
    se avrò voglia di tornare /
    certamente lo farò /
    spero tanto che non ti ritroverò.[3]

    La libertà dell’educando sta nel sapersi ritirare anche dal processo educativo; ogni progetto pedagogico che non rispetti, anzi che non preveda questa libertà, è un progetto di conquista e di colonizzazione dell’anima degli educandi.
    Alla fine, il maggior sintomo di rispetto del pudore dei ragazzi e delle ragazze è la consapevolezza che si sta lavorando per il loro «andare via»; la speranza, alla fine del viaggio, di voltarsi indietro e non ritrovarli più perché sono oramai nel mondo della vita, arricchiti però della consapevolezza che le ricchezze interiori non vanno regalate al mondo ma serbate dentro di sé, come Maria/Myriam «serbava in cuor suo» (Lc 2,19) quel mistero che forse non capiva ma forse comprendeva (nel senso di prenderlo-con sé) fin troppo profondamente.

    Attività
    Non aprire mai

    Sulla scorta della canzone di Claudio Lolli, proponiamo un’attività estremamente delicata che può essere proposta a gruppi di ragazzi sopra i 14 anni; si deve trattare di gruppi molto affiatati e composti da ragazzi/e che siano abituati a lavorare seriamente e a rispettare le consegne.
    Si chieda a ogni ragazzo di scrivere su un foglio i suoi più intimi desideri, segreti, sogni promettendo che nessuno mai leggerà quanto viene scritto. Ogni ragazzi mette poi il foglio in una busta sigillata e la consegna a un altro ragazzo; alla fine tutte le buste chiuse vengono bruciate in un falò. Successivamente ogni ragazzo consegna a colui/colei che gli ha affidato la busta un messaggio con un pensiero, una poesia, una canzone, un disegno appositamente pensato per il destinatario.
    Questa attività necessita di un presidio costante e competente da parte di un educatore o una educatrice di provata esperienza.

     
     
    NOTE

    [1] Jona Oberski, Anni d’infanzia. Un bambino nel lager, Firenze, Giuntina 1989, pag. 45.

    [2] Claudio Lolli, Non aprire mai.

    [3] Ivano Fossati, All’ultimo amico.


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