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    Gli attrezzi del cuore


    Un cantiere per educare alle opere di misericordia

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2015-05-43)


    Le opere di misericordia sono estremamente concrete; il cuore che le deve operare deve essere attrezzato per poter realmente incidere sulla realtà. Il tutto non può essere lasciato a una sorta di astratta buona volontà: occorre saper operare nel mondo e sul mondo. Proviamo allora a riempire una ideale cassetta degli attrezzi che il cuore deve possedere per poter entrare nel cantiere delle opere di misericordia.

    Dar da mangiare agli affamati. Un menù della mensa

    Le mense scolastiche sono spesso il regno dello spreco e dell’eccesso, dell’educazione a un rapporto consumistico con il cibo. Non solo quintali di cibo vengono ogni giorno letteralmente gettati via per norme discutibili che non consentono nemmeno di offrirli ai canili, ma la stessa struttura dei menu è un invito al consumismo sfrenato. Che senso ha che in quattro settimane si alternino venti tipi differenti di primi piatti quando magari le preferenze dei bambini riguardano la pasta all’olio.
    Dar da mangiare agli affamati non significa solamente offrire fisicamente un pasto a chi non se lo può permettere, ma riflettere sul meccanismo per il quale il nostro modello di consumo alimentare causa direttamente la fame in più di un terzo del mondo, e su quali potrebbero essere le alternative. Il pasto è sempre un fatto sociale, e riflettere criticamente su quanto, cosa e come si mangia nel mondo opulento è già un’opera che dà il via alla reazione a catena del bene.

    Dar da bere agli assetati. Un rubinetto

    “Non sprecate l’acqua” è scritto sui rubinetti degli alberghi; lo si nota soprattutto negli alberghi di Dakar e delle altre città dell’Africa dove si tocca con mano il senso di questa raccomandazione. Ma quanta acqua viene sprecata giornalmente nel nostro mondo ricco?
    Una riflessione sul ruolo dell’acqua nelle guerre e nei conflitti internazionali, sulla sua storia intrecciata con la storia del mondo, sulle lotte per l’appropriazione delle risorse idriche, sul nonsenso dell’acquistare una bottiglia di acqua tra cinquanta marche diverse quando magari l’acqua della rete è ancora la più sana: tutto questo è già “dare da bere agli assetati” perché fa partire una riflessione non solo sul fatto che gli oceani circondano il mondo come in un abbraccio, che il nostro corpo è letteralmente costituito di acqua, che l’acqua è in tutte le religioni simbolo di vita e di rinascita, ma soprattutto che l’acqua è un bene sociale e collettivo e ogni tentativo di privatizzarlo è egoistico, antiumano e anticristiano

    Vestire gli ignudi. Un capo di biancheria intima

    La nudità, se non è scelta ma obbligata, è la peggiore forma di umiliazione perché ci esibisce al mondo nella forma più estrema di vulnerabilità. Non per niente i nazisti iniziavano il percorso di degradazione dei deportati facendoli denudare in pubblico. Oggi però ad essere nuda è soprattutto la nostra anima: la società dello spettacolo e della spettacolarizzazione dei sentimenti non lascia spazio per il pudore, anzi lo considera quasi un’offesa nei confronti dei cosiddetti diritti dell’informazione e dell’esibizione. Siamo nudi su Youtube, su Facebook e su Whatsapp, siamo spogliati di ogni capo intimo quando ci si chiede di metterci a nudo con i nostri sentimenti e le nostre emozioni.
    Vestire gli ignudi ha un significato letterale ma anche uno traslato: significa offrire un capo di biancheria intima a tutti coloro la cui dignità è violata attraverso l’attacco al loro pudore e alla loro intimità, e imparare a coprire le nostre parti più segrete non cedendo al voyeurismo demoniaco di un mondo sempre più guardone.

    Alloggiare i pellegrini. Una chiave di casa

    “Attenti al cane” recita un cartello con l’immagine di un feroce cane lupo. “E al padrone” dice una scritta un po’ più sotto, di fianco all’immagine di una mano che brandisce una pistola. Chissà se l’esemplare umano che abita dietro il cancello su cui sono appesi questi cartelli avrà mai l’esperienza di essere solo, assetato e stanco, in una città straniera, senza un posto dove poggiare il capo, come in Like a Rolling Stone di Dylan? L’ospitalità apre al rischio: non solo di essere derubati ma soprattutto di dover trovarsi a ridefinire i nostri tempi, le nostre abitudini, i nostri spazi, di passare dalla privatizzazione alla condivisione, di capire che non c’è un modo “giusto” di compiere le quotidiane azioni della vita.
    Il primo spazio nel quale alloggiare i pellegrini è la scuola: dare le chiavi delle nostre scuole e della cosiddetta “nostra cultura” ai bambini e alle bambine che vengono da lontano significa riscoprire le radici intricate di ogni cultura e vederne le appartenenze plurime. Capire che siamo tutti ospiti, su un pianeta che per i credenti è di Dio, per gli atei è del Cosmo, per tutti non è proprietà di nessuno.

    Visitare gli infermi. Un termometro rotto

    Noi crediamo nella medicina occidentale anche se non crediamo nella sua arroganza e nell’idea di essere l’unica forma di cura quando invece è circondata da altre modalità di affrontare il disagio e la malattia. Ma a volte il termometro non ci aiuta. Stare di fianco a un malato non significa solamente rilevare la sua temperatura corporea, perché c’è un malessere che non si lascia semplicemente misurare e organizzare in tabelle riassuntive.
    Stare di fianco a chi sta male significa anzitutto avere fede in lui: “mi fa male la testa” è una frase alla quale non si risponde misurando qualche dato o pensando a quando noi avevamo mal di testa, ma sprofondandoci nel disagio altrui, credendo nel suo stare male, non rapportandolo sempre a noi. Altrimenti, come com-prendere realmente una madre che ha perso un figlio, un tossicodipendente disperato, un uomo che soffre i terribili dolori di un tumore terminale? L’approccio umano al male non è una specie di aggiunta alla scienza medica ma ne è la base: altrimenti si misura alla perfezione un male che non si comprende, e dunque non si potrà curare.

    Visitare i carcerati. Una gomma per cancellare

    Il magistrato giudica il reato e non l’imputato. Amici giudici ci hanno spesso ricordato questo che non è un gioco di parole ma l’essenza della giustizia. Chi ha rubato non è “un ladro” ma una persona che in determinate condizioni e in una determinata data ha commesso un reato. Definirlo “ladro” significa attribuirgli una identità, cristallizzarlo in un gesto che trasformiamo indebitamente in un destino. La pena cancella con una gomma soprattutto la tentazione di trasformare una persona in una categoria.
    Ma visitare i carcerati significa soprattutto sapersi porre anche al di là della giustizia, senza per questo negarne l’utilità. Che una persona che ha commesso un errore debba pagare un fio è la base della giustizia, ma tutto ciò non può e non deve mai trasformarsi in giudizio sulla persona stessa. “Nessuno tocchi Caino” non significa solamente non applicare l’assurda crudeltà della pena di morte, ma soprattutto chiederci “cosa avremmo fatto noi al posto di Caino?”. Solo un’anticristiana arroganza può dare una risposta netta: la cosa miglior è frequentare Caino e capire insieme quali possono essere le strade (magari che portano ai campi) da prendere per il futuro.

    Seppellire i morti. Un giocattolo usato

    Cosa abbiamo fatto quando abbiamo capito di non essere più bambini? Come abbiamo salutato la nostra infanzia e la nostra adolescenza quando ci siamo ritrovati adulti? Imparare a dire addio è difficile, dire addio a un amico, a una persona amata, a un giocattolo che non usiamo più.
    Facciamo molta fatica a seppellire i morti perché facciamo fatica a superare fasi della nostra vita, a lasciarci alle spalle situazioni, relazioni ed esperienze, a crescere. E soprattutto facciamo fatica a seppellire i morti perché siamo troppo abituati a cercare risposte definitive e definitorie, a cercare slogan e a compilare test per essere rassicurati, mentre il mistero della morte lascia aperte le domande, rifiuta ogni risposta preconfezionata (“il gattino è morto perché Dio l’ha voluto”: facciamo fatica a pensare a una risposta più anticristiana di questa da fornire a un bambino), ma ci lascia nello spiazzamento e nella ricerca, nella necessità di imparare a piangere, ad abbracciarci, ad andare avanti, a narrare qualcosa che possa porsi oltre la fine.

    Consigliare i dubbiosi. Una matita

    Secondo il filosofo ebreo Walter Benjamin dare un consiglio a qualcuno significa proporre un differente finale per una storia che ci viene narrata; un amico ci racconta una sua situazione e ci chiede cosa deve fare. Proviamo a scrivere insieme a lui una serie di finali alternativi per la sua storia: “se lasci la tua ragazza probabilmente sarai triste ma anche libero”; “se resti con lei ti sentirai protetto ma come affronterai la tua gelosia?”.
    La cosa peggiore è la frase ipocrita e comoda: “non sono la persona adatta per consigliarti”. E’ sempre chi chiede il consiglio a decidere se siamo o meno la persona adatta; e se ha scelto di chiederlo proprio a noi anzitutto dovremmo essergli grati per la fiducia dimostrata, e poi dobbiamo metterci in gioco. Ovviamente scrivendo il finale della sua storia a matita e non in penna; perché la libertà dell’amico dubbioso che ci chiede consiglio sta anche nell’ignorare i nostri suggerimenti e nel fare il contrario di quanto consigliato: e non è affatto detto che in questo caso il nostro aiuto sia stato vano.

    Insegnare agli ignoranti. Un imbuto

    Il grande pedagogista Paulo Freire parla di educazione depositaria per descrivere i metodi educativi che considerano l’allievo solamente un vaso da riempire, come se si utilizzasse un imbuto.
    Per noi l’educazione è un imbuto, ma usato al contrario: si tratta infatti di aprire il più possibile l’ambito educativo, coinvolgendo tutti e tutte, e di raccogliere idee, esperienze, proposte, con la maggior ampiezza possibile; ma poi si tratta anche di indicare una possibile strada, indirizzare la ricchezza delle proposte verso una direzione, che non ne sacrifichi nessuna ma che direzioni in contributo di tutti. L’educazione non può essere semplicemente imposizione di dogmi ma nemmeno un rispecchiamento della realtà, una conferma delle idee degli educandi: educare significa far fare esperienze, raccogliere le emozioni e le opinioni attorno alle esperienze svolte e poi cercare di tracciare strade, anche un po’ strette e scomode come la parte finale dell’imbuto.

    Ammonire i peccatori. Uno specchio

    Il cantautore Andrea Mingardi dice che la mafia siamo noi: “con questa voglia, così, di trovare/sempre fuori da noi, lontane da noi/le ragioni del male/che abbiamo dentro/e non ci fa sentire eroi”. Basterebbero questi versi per capire perché proponiamo uno specchio come attrezzo per questa opera di misericordia: per guardarsi dentro e vedere che lo spettacolo non è sempre edificante.
    Ha diritto di ammonire i peccatori solamente chi sa trovare il peccato dentro se stesso, riconoscendo la forza contagiosa del male; Hannah Arendt definiva il male un fungo velenoso che si sparge sulla Terra senza profondità ma occupando sempre più superfici. E’ quella che potremmo definire la banalità del peccato, che solamente chi ha sentito dentro di sé (o sopra di sé, come un eczema) può combattere e aiutare gli altri a superare: proponendo e diffondendo il contagio del bene, che è molto più forte ma può soccombere soprattutto a causa dell’arroganza di chi, oggi come ieri, decide con presunzione di scagliare la prima pietra.

    Consolare gli afflitti. Una sedia

    Cosa si fa davanti al letto di un amico in coma irreversibile? Si mette una sedia e si rimane lì. Consolare non significa necessariamente trovare parole, giustificazioni, spiegazioni; lo fanno gli amici di Giobbe e oltre a non essergli utili non fanno certo una bella figura.
    Consolare significa condividere lo spiazzamento, significa tenere una mano, detergere una fronte e non chiedere parole, non chiedere lamenti, tacere. Significa saper tenere duro in una presenza corporea e fisica che nessuna realtà virtuale, nessuno Skype o Whatsapp potrà mai sostituire. L’afflizione rende il corpo debole, piegato su se stesso, raggomitolato: essere di fianco all’afflitto significa offrirgli il nostro corpo, per versare un bicchiere d’acqua, sostenere una spalla, essere lì, senza alcuna qualificazione, solamente come amici. Farsi carico della sofferenza altrui non è mai interamente possibile, forse nemmeno per un dio. Per noi uomini basta offrire una presenza, facendo in modo che ciò che l’afflitto vede di fianco a sé non sia una triste sedia vuota.

    Perdonare le offese. Una videocamera

    E’ difficilissimo perdonare. Educare al perdono significa insegnare ai giovani a sbloccare il corso del tempo, a non restare prigionieri dell’evento violento di cui si è stati vittima: a spezzare il loop che ri-proietta sempre la stessa immagine. Quando incontro colui che mi ha offeso rischio di rivedere sempre la scena dell’offesa: il passato (i momenti eventualmente positivi passati con quella persona) e il futuro (la nostra possibile storia comune) crollano in un presente che non è altro che ripetizione, e dunque cristallizzazione dei due protagonisti l’uno nell’identità della vittima, l’altro nell’identità del carnefice.
    Occorre insegnare ai ragazzi dunque a sottrarsi dal cerchio magico della ripetizione sia quando commettono un’offesa (e dunque imparare a chiedere perdono) sia quando la subiscono (e dunque uscire dal loop della vendetta). La videocamera riprende a girare: l’offesa non è dimenticata ma diventa un fotogramma di una storia più lunga complessa e articolata come sono sempre le storie di vita.

    Sopportare pazientemente le persone moleste. Tre pani

    “Sono cattolico. I testimoni di Geova sono pregati di non suonare”. Avremo visto molte volte questo cartello che non è meno arrogante e violento di quello del cane e del padrone. E’ vero che a volte le persone insistono: anche l’amico che va di notte a chiedere tre pani a colui che sta dormendo è insistente. Ma il rifiuto opposto dall’amico è impensabile; l’insistenza del richiedente richiama a un rapporto normale di amicizia e soprattutto di solidarietà di villaggio.
    Come comportarci dunque con le persone moleste? Anzitutto ponendoci una domanda: siamo sicuri che la persona molesta non stia in realtà toccando dimensioni profonde e nascoste della nostra anima? Siamo certi che non consideriamo moleste proprio le persone che ci inquietano perché ci mostrano le nostre mancanze, latenze, debolezze? Siamo certi che ad essere per noi moleste non siano la socialità, il dialogo, la solidarietà? Vedremo mai sui citofoni il cartello: “Sono cattolico. Gesù ha detto ‘Bussate e vi sarà aperto’. Suonate pure”?

    Pregare Dio per i vivi e per i morti. Un silenzio

    E alla fine, il silenzio. Il silenzio è la migliore forma di preghiera. Perchè non chiede nulla, nulla pretende, nulla urla. E’ un dialogo con Dio, un dialogo tra due silenzi.
    E il silenzio è il non-attrezzo più importante nel nostro cantiere. Perché è incapace di opere di misericordia colui che non sa ospitare dentro sé un silenzio. Colui il cui cuore non sa apprezzare la poetica umana virtù del tacere.


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