Editoriale
Alberto Martelli
(NPG 2016-03-03)
“La storia siamo noi” recitava una canzone di ormai trent’anni fa. Una banalità, diremmo oggi, ci mancherebbe, chi volete che sia questa storia; eppure forse siamo ancora lontani dal capirne seriamente e profondamente tutte le conseguenze.
La stessa cosa vale per quelle parole usate ormai cinquant’anni fa dal Vaticano II: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”. Belle parole da dire in una predica, o all’inizio di un documento, fanno subito dialogo e simpatia, ma ci siamo oggi accorti di tutto ciò che esse significano?
Il dossier di questo numero vuole provare ad andare nel concreto profondo di queste affermazioni.
La pastorale giovanile è la storia della Chiesa che vive nella storia dei giovani e in entrambi i casi possiamo dire, da punti di vista diversi: questa storia siamo noi, la nostra contemporaneità, la nostra cultura.
Spesso, inconsciamente forse, siamo ancora convinti che la storia sia soltanto il fondale del palco. Una specie di ambientazione esterna, di sfondo che scorre dietro le nostre spalle, ma tutto sommato poi la scena è sempre la stessa e gli attori si assomigliano tutti.
Così la pastorale non si deve occupare dello scorrere di questi fondali, dei cambiamenti della cultura dei suoi destinatari, ma anche, perché no, della stessa comunità ecclesiale, e deve occuparsi soltanto di far bene ciò che sa fare da sempre, perché poi, tutto sommato, i giovani sono sempre quelli.
Perché fare la fatica di analizzare la cultura contemporanea, quando noi già sappiamo il nucleo portante delle “cose da dire”? Al massimo occorre rifarne l’apparenza, cercare di rendere un po’ più brillanti i colori, fare qualche disegno un po’ meglio, ma il testo… quello è sempre lo stesso e già lo sappiamo a memoria.
È il vecchio, ma sempre attuale tema dell’aggiornamento.
Al liceo, un vecchio professore ci aveva insegnato che se balbetti durante l’interrogazione, non è vero che sai, che hai studiato, come dici tentando di giustificarti. Lo dicevano anche gli antichi; Catone il censore ci aveva insegnato: rem tene, verba sequentur!
Così anche la pastorale si è illusa che la storia non conta: se hai chiaro il concetto, non importa la situazione, la gente che hai attorno, come la pensano, la lingua che usano, da dove vengono, come sei tu in quel momento, quali sono i tuoi punti di forza o di difficoltà, i tuoi mali e i tuoi beni, i tuoi sentimenti o i tuoi atteggiamenti: la cosa la sai, ora basta dirla. Se vuoi la diciamo un po’ meglio, troviamo forme verbali e comunicative più accattivanti, più moderne, ma la cosa… quella è e quella resta.
La cultura contemporanea al massimo serve per cercare di capire meglio come dire le cose. Le vuoi scritte o su un video? Le cantiamo o le recitiamo? Da dove partiamo per dirle, dall’inizio o da metà? Cosa posso dare per scontato e cosa ti devo spiegare per filo e per segno? In quanto tempo e per quante volte? Tutto lo sfondo lo possiamo anche discutere, ma il centro no: rem tenemus! E poi Cristo è lo stesso, ieri, oggi e sempre, che importanza può avere la cultura contemporanea?
Questa è la nostra sfida: occorre prendere sul serio la storia; prendere sul serio l’aggiornamento. Prendere sul serio la tensione cristologica sempre presente e mai risolta, mai da risolvere: Cristo è egli stesso una storia vivente, che è attuale e presente in tutta la storia del mondo. Non è fuori del mondo, non è fuori della cultura, non è un punto fisso sotto il quale scorre tutto ciò che è inutile, o per lo meno di seconda importanza. Il suo essere eterno è allo stesso tempo intrecciato della storia sua, del suo popolo e di tutta la Chiesa.
Noi operatori di pastorale, conosciamo in modo particolare come la storia dei giovani corra veloce. Le generazioni si susseguono vertiginosamente e noi stessi cambiamo di volta in volta e quasi non ci riconosciamo più. Non basta operare un ritocchino qua e là, occorre una vera re-immersione e re-inculturazione della fede nella cultura di oggi.
La storia, la cultura, il modo di vivere la libertà dei giovani di oggi, il loro mondo e la visione di loro stessi, non è indifferente alla “cosa” che vogliamo loro comunicare.
La relazione col Cristo sempre uguale e sempre diverso è a sua volta una avventura sempre nuova, che allo stesso tempo è sempre radicata nel vangelo e pure è capace di aprire in ogni tempo nuovi orizzonti, nuovi modi di essere membra dello stesso Cristo.
La fede non si innesta semplicemente sempre uguale su tutte le culture. Cristo è sempre uguale, ma la fede, che è la nostra relazione con lui, questa cambia. Pietro e Paolo già all’inizio si dividono il campo tra chi predica ai pagani e chi ai giudei, perché la fede quando entra nella cultura provoca e ne è provocata e richiede che la “cosa” stessa venga messa in discussione, perché emerga la identità di Cristo, ma nella nuova relazione col discepolo che in quel momento chiede di seguirlo.
Siamo in tempo di quaresima. Tra le molte conversioni che sappiamo di dover fare per essere degni della Pasqua di Cristo, vi è anche questa: la conversione alla contemporaneità dei giovani e di Cristo oggi, per non accorgerci un giorno di essere rimasti fedeli non all’eterno, ma al passato che non c’è più.