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    Le metamorfosi



    Letteratura e formazione /6. Libri memorabili tra classici e contemporanei

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2010-08-72)

    A narrare il mutare delle forme
    in corpi nuovi mi spinge l’estro.
    O dei, se vostre sono queste metamorfosi,
    ispirate il mio disegno,
    così che il canto dalle origini del mondo
    si snodi ininterrotto sino ai miei giorni.
    (Ovidio, Metamorfosi, I, 1-4)


    Fortunatamente il mondo in cui viviamo è tutt’altro che solido e monodimensionale come ce lo rappresentiamo; le cose che ci circondano sono se stesse e anche altro; noi stessi siamo un fascio di cambiamenti, non solo in senso verticale, ovvero nello scorrere del tempo, ma anche nel senso orizzontale; ognuno di noi è se stesso e contemporaneamente anche altro. La grande letteratura ha sempre narrato questo stato inquieto e cangiante della identità umana attraverso il tema delle metamorfosi: Ovidio è stato forse l’iniziatore di questa tradizione (ma ricordiamo che moltissimi miti dell’alba dell’umanità presentano figure metamorfiche: dall’uomo-lupo al vampiro, alla donna tramutata in pianta).

    Ovidio

    Nelle sue Metamorfosi Ovidio parte da un universo fin troppo ordinato, un cosmo che ha rigettato da sé tutte le tracce del caos e che sembra del tutto rassicurante nel suo ordine preciso:

    Prima del mare e della terra e del cielo che tutto ricopre, unico e indistinto era l’aspetto della natura in tutto l’Universo, e lo dissero Caos, mole informe e confusa, nient’altro che peso inerte, ammasso di germi discordi di cose mal combinate. (...) Un dio, e una più benigna disposizione della natura, sanò questi contrasti: separò dal cielo la terra, dalla terra le onde e distinse dall’aria spessa il cielo puro. E dopo aver districato e liberato queste cose dall’ammasso informe, dissociatene le sedi, le riunì in un tutto concorde. (...) E su tutto il dio collocò l’etere limpido e imponderabile, che nulla ha della feccia terrena (Ovidio, Metamorfosi, I, 5-65)

    Ma proprio penetrando nell’apparente ordine di questo cosmo (peraltro nato dalla sconfitta delle divinità femminili, una sconfitta con tutto il suo portato di violenza sanguinaria: i miti d’origine maschili si sono ormai affermati incontrastati e maschile è lo stesso principio d’ordine che essi raccontano e sostengono) Ovidio ci accompagna nel regno del misto e del meticcio, come se il kaos originario non si lasciasse espellere del tutto dal Cosmos, ma trovasse al suo interno, nelle sue pieghe, una possibilità di riscatto, un riparo dal troppo opprimente ordine del Cosmo: Ovidio narra un ammorbidimento del rapporto tra uomo/donna e natura, un venire meno dei limiti e dei confini, la possibilità dunque per un uomo e una donna di essere anche animale, anche pianta, anche nuvola. Spesso nel poeta classico questa fluidità dei confini è intesa come peccato, spesso come punizione:

    «Ma che male hanno mai fatto», disse, «questi cari luoghi e le mie città? Che colpa ne hanno loro?/Sia piuttosto quest’empia gente a pagarne il fio con l’esilio,/con la morte o con qualcosa che stia tra la morte e l’esilio./E quale può essere questa pena, se non una metamorfosi?» (X; 230-234)

    Ma anche se l’ammorbidimento dei limiti rientra nell’ambito della hybris causata dall’arroganza umana, è difficile il carattere affascinante anche a livello educativo e pedagogico, soprattutto in una società come quella odierna nella quale si insiste in modo eccessivo sulla purezza dell’identità e sul suo carattere monolitico. Un contravveleno a questa chiusura su se stessi che negando il cambiamento in senso orizzontale rischia di cancellare anche quello in senso verticale (che cioè per l’ansia di identità e la paranoica chiusura rispetto alla differenza rischia di non far crescere il soggetto, posto che crescere è sempre «diventare altro») è l’abitudine, da imparare fin da giovani, a pensarsi come abitati da fasci di differenze; come accade a Proteo:

    Vi sono creature, valoroso eroe,/che dopo un mutamento hanno mantenuto la forma assunta;/ve ne sono altre che hanno la facoltà d’assumerne diverse,/come te, Pròteo, creatura del mare che circonda la terra./A volte infatti ragazzo ti sei mostrato, altre volte leone;/ora violento cinghiale, ora serpente che non si ha il coraggio/di toccare; a volte le corna t’hanno reso toro;/altre avresti potuto sembrare una pietra, altre ancora una pianta;/talora, imitando l’aspetto liquido dell’acqua,/sei stato fiume, talaltra, al contrario, fuoco. (VIII, 727-737)


    Questa impresa non è priva di rischi e non può e non deve sacrificare del tutto il concetto di identità; un conto è cercare di ospitare dentro di sé le differenze e procedere a metamorfosi interiori, un conto è invece cercare di abbattere i limiti che la natura ci pone davanti; lo sa Pasifae, che giacendo con un toro mette al mondo il Minotauro:[1] Dante la mette all’inferno «E ‘n su la punta de la rotta lacca / l’infamia di Creti era distesa / che fu concetta ne la falsa vacca» (Inferno XII, 13) forse condividendo l’idea di hybris che tanto era amata dai Greci. E anche se Ovidio sostiene che l’amore lesbico è ancora peggiore dell’errore di Pasifae («È vero che tutte le mostruosità accadono a Creta e che qui la figlia del Sole ha amato un toro; ma era sempre una femmina che amava un maschio» (Metamorfosi, IX, 735-37)), la storia della principessa di Creta ci ricorda che il tratto più perturbante del nostro rapporto con la natura appare ogni volta che uno dei due poli della relazione, quasi sempre l’uomo, sfonda le barriere e annulla le salutari distanze. È curioso pensare che le creature dell’ingegneria genetica assomigliano così tanto a questi mostri del mondo greco, tutti quanti nati dalla presunzione prometeica dell’uomo che cerca di porsi al di là dei limiti posti «acciò che l’uom più oltre non si metta».

    Ci vengono poi in mente Medusa e la moglie di Lot,[2] e l’idea del diventare-pietra come punizione: viene punito soprattutto lo sguardo fissato su ciò che non si deve vedere, nel senso che l’uomo e la donna che vogliono vedere tutto, tutto conoscere e sapere vanno al di là della creaturalità che è loro propria. Medusa guarda negli occhi chi vuole pietrificare, ma ad essere punito è lo sguardo ricambiato, non il fatto di essere guardati, ma di cercare di indagare lo sguardo che ci scruta. Anche diventare albero è allora inteso come punizione della Norma violata; ma non ci sfugge il fatto che l’albero è da sempre associato da un lato alle immagini della femminilità, dall’altro alle immagini della maternità.

    Kafka

    Testimone del carattere demoniaco e perturbante delle metamorfosi è ovviamente Franz Kafka: sembra che il padre, quando Franz era piccolo, lo chiamasse in pubblico «immondo scarafaggio»: una specie di profezia che si autoavvera per il Gregor protagonista del più noto racconto dello scrittore boemo:

    Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto. Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, bastava che alzasse un po’ la testa per vedersi il ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati; in cima al ventre la coperta, sul punto di scivolare per terra, si reggeva a malapena. Davanti agli occhi gli si agitavano le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante.[3]

    Non c’è fascino, non c’è divertimento, non c’è sfida nelle metamorfosi di Gregor, c’è solo dannazione: Gregor diventa uno scarafaggio perché vive una vita da insetto, perché i rapporti umani che intrattiene sono da entomologo. La sua, a rigore, non è una metamorfosi, è quasi una cristallizzazione, la conferma orrenda di una identità troppo rigida. E la fine di Gregor non può essere altro che la negazione dell’ennesima metamorfosi: l’insetto kafkiano è paradossalmente poco mutante, troppo «scarafaggio»; troppo rigido nella sua identità, e la sua morte, la banalità del suo morire (anzi «crepare») non fa che confermare l’assoluta inutilità del presunto cambiamento:

    Pensò che facesse apposta a starsene immobile, che volesse darsi le arie di offeso: gli attribuiva, infatti, piena capacità d’intendere. Poiché aveva in mano una lunga scopa, provò, di sull’uscio, a fargli il solletico, ma neppure così ottenne successo. Stizzita, gli menò una piccola botta, e solo quando si accorse di averlo spinto in là senza che lui resistesse, fu presa dai sospetti. Non ci volle molto perché accertasse la verità delle cose; allora sbarrò gli occhi e fece un fischio di meraviglia, ma, incapace di trattenersi a lungo, spalancò la porta della camera da letto e gridò con la sua vociona nel buio: «Vengano a vedere, è crepato! È qui disteso, bell’e morto e crepato!».[4]

    Sembra dunque che nel mondo di Kafka non vi sia salvezza; del resto gli viene attribuita dall’amico Max Brod la frase «C’è infinita speranza, ma non per noi». I suoi personaggi sono «misti», subiscono continue metamorfosi, danno luogo a strani ibridi ma il tutto sotto il segno di uno sviluppo bloccato, di una identità grottesca, dell’assoluta immobilità; vale per lo stranissimo oggetto descritto nel Cruccio del padre di famiglia:

    A tutta prima potrebbe assomigliare a un rocchetto da filo piatto e a forma di stella; ed in realtà sembra anche avvolto da filo: ma si tratterebbe tutt’al più di pezzi di filo vecchio, tutti strappati e riannodati, ma anche ingarbugliati tra loro, di tipo e colore diversissimi. Però non è solo un rocchetto, perché dal centro della stella sporge una specie di bacchettina obliqua, nella quale poi se n’inserisce un’altra ad angolo retto. E, servendosi da un lato di quest’ultima bacchettina, dall’altro di un raggio della stella, il tutto può reggersi in piedi come se avesse due gambe.[5]

    E anche qui, come nella Metamorfosi, come del resto nel Processo (nel quale il protagonista viene sgozzato «come un cane») la morte, estrema metamorfosi, non ha assolutamente alcun potenziale di riscatto; non c’è alcuna salvezza perché tutto rimane rigido e monodimensionale, in morte come in vita:

    Invano mi domando: che sarà di lui? Chissà se può morire? Tutto quello che muore ha avuto, prima, in certo modo uno scopo, un’attività in cui si è logorato; mentre tale non è il caso di Odradek. Lo vedrò dunque un giorno rotolare giù per le scale, davanti ai piedi dei miei figli e dei figli dei miei figli, trascinandosi dietro il suo filo di refe? È chiaro che non reca danno a nessuno; ma l’idea che possa anche sopravvivermi mi è quasi angosciosa.[6]

    Ma ci sono altre metamorfosi che accadono quotidianamente sotto i nostri occhi e che nulla hanno di demoniaco: sono quelle che avvengono nel cerchio magico del gioco infantile: uno stesso oggetto una volta immesso nel settino del gioco non può mai mantenersi legato a una sola identità simbolica, ma dovrà continuamente subire infinite trasformazioni: «giochiamo che io ero il re e tu la regina e la scopa lo scettro», ma la scopa è pronta a trasformarsi in razzo o in giavellotto al mutare del gioco: coloro che progettano giocattoli «perfettamente somiglianti» alla realtà dovrebbero sapere che il vero gioco comincia quando la perfetta e un po’ pedante riproduzione della Ferrari Testarossa viene trasformata nell’automobile di Diabolik! Se il bastoncino di ghiacciolo può diventare albero maestro della nave corsara, allora il senso delle metamorfosi come sguardo sulle pieghe del reale può essere mantenuto.
    Per godere delle metamorfosi può non essere necessario dormire sonni agitati e risvegliarsi nella corazza di un immondo scarafaggio: può bastare semplicemente iniziare a giocare.


    NOTE

    [1] A sua volta riscattato dalla sua condanna alla cattiveria dalla novella di Jorge Luis Borges, La casa di Asterione in L’Aleph, Milano, Feltrinelli, 2003.
    [2] Quest’ultima non diventa proprio una pietra ma una statua di sale: da un certo punto di vista le viene lasciata la fisionomia umana, ma la si rigetta comunque nella dimensione minerale. E comunque è nota l’interpretazione eziologia della narrazione nata a quanto pare da una pietra a forma di donna che realmente esisteva ai margini del deserto.
    [3] Franz Kafka, La metamorfosi, in Racconti, Milano, Rizzoli, 1985, pag. 124.
    [4] Ivi, pag. 175.
    [5] Ivi, pag. 231.
    [6] Ivi, pag. 232.


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