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    Educazione e mistica /5

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2012-09-69)


    «Io Giuseppe camminavo e non camminavo. Guardai nell’aria e vidi l’aria colpita da stupore; guardai verso la volta del cielo e la vidi ferma, e immobili gli uccelli del cielo; guardai sulla terra e vidi un vaso giacente e degli operai coricati con le mani nel vaso, ma quelli che masticavano non masticavano, quelli che prendevano il cibo non l’alzavano dal vaso, quelli che lo stavano portando alla bocca non lo portavano, i visi di tutti erano rivolti a guardare in alto. Ecco delle pecore spinte innanzi che invece stavano ferme: il pastore alzò la mano per percuoterle ma la sua mano restò per aria. Guardai la corrente del fiume e vidi le bocche dei capretti poggiate sull’acqua, ma non bevevano. Poi, in un istante, tutte le cose ripresero il loro corso» (Protovangelo di Giacomo, 18)

    Nel momento in cui la storia umana muta segno, nel momento in cui il cerchio magico della temporalità della natura e delle religioni naturalistiche si spezza per dare origine alla linearità del tempo lanciato verso la Redenzione, in questo momento preciso sembra che il tempo stesso viva una sorta di esitazione. La sospensione del tempo vissuta da Giuseppe al momento della nascita di Gesù appare come il ritrarsi su se stessa della tigre prima del grande balzo; «Cristo la tigre» crea un nuovo tempo o un nuovo rapporto con il tempo e sospende dunque il tempo usuale per poi farlo riprendere con una forma e una direzione del tutto differenti.
    La minaccia del tempo sembra stendersi in modo tetro sulle speranze dell’umanità; soprattutto l’irreversibilità del tempo sembra annientare le promesse di felicità che possono essere formulate. La felicità futura potrà riguardare solo coloro che saranno vivi; il capolavoro di Herbert Marcuse, Eros e civiltà, conclude con una speranza utopica velata però da una malinconia persistente: «Nemmeno il definitivo avvento della libertà potrà redimere coloro che morirono soffrendo».
    Ma è proprio la dimensione del tempo ad uscire del tutto ridimensionata dall’esperienza mistica; anzitutto lo stato di trance o di estasi mistica annulla il tempo e fa rivivere al mistico quell’esperienza di sospensione narrata sopra; ma è la stessa dimensione della mistica, nonché la beatitudine alla quale essa allude, a farci guardare al tempo in modo completamente differente:

    Sei tu a fare il tempo!
    Son i sensi le sfere dell’orologio
    Arresta il bilanciere e il tempo
    non c’è più [1]

    La spazializzazione della temporalità sembra essere l’unico modo attraverso cui l’uomo e la donna possono raffigurarsi lo scorrere del tempo; e se l’apertura del cerchio del tempo è la caratteristica delle religioni rivelate, sembra che quando esse devono descrivere la beatitudine della Redenzione non possano fare a meno di ritornare a una dimensione circolare; una dimensione che è però immobile, o al massimo gira su se stessa; annientando il tempo la Redenzione annulla anche la sua azione disgregante: la vittoria della morte avviene solamente in una dimensione lineare, mentre in una circolarità immobile essa si sente dire lo sbeffeggiante proclama «Morte, dov’è la tua vittoria?». Questo il senso temporale della figura spaziale che chiude il viaggio di Dante

    E’ si distende in circular figura,
    in tanto che la sua circunferenza
    sarebbe al sol troppo larga cintura.

    Fassi di raggio tutta sua parvenza
    reflesso al sommo del mobile primo,
    che prende quindi vivere e potenza.
    (Paradiso, XXX, 103-.108)

    L’eternità è dunque tempo che sta in se stesso, ora-riposante, nunc-stans, e dunque istante che non passa ma si lascia contemplare. L’affinità con il concetto orientale di Nibbana (volgarmente tradotto Nirvana) è più che casuale; occorre però ricordare che è il problema della morte a fare da sfondo a questa concezione; lo scorrere del tempo va arrestato perché occorre togliere alla morte il suo pungiglione velenoso non tanto nei confronti di coloro che saranno vivi nel momento della Redenzione («Ma è anche vero che alcuni di voi qui presenti non moriranno, finché non avranno visto il Regno di Dio» Lc 9,27) ma di coloro che sono morti e che una concezione irreversibile del decorso temporale condannerebbe in eterno:

    Tre soli giorni conosco:/ieri, oggi e domani/Ma quando ieri in oggi e in «ora»/si nasconde/Ed il domani è estinto, vivo allora/quel giorno/Che ancora prima d’essere stavo/vivendo in Dio.[2]

    Un tranquillo tempo che passa

    Se la dissoluzione del tempo è dunque il pegno e la promessa, allora lo scorrere del tempo non va preso troppo sul serio; il cristiano non si fa spaventare dal tempo che passa (pensiamo alla straordinaria forza di questa affermazione oggi, tra cosmetici che rallentano l’invecchiamento, capelli tinti e settantenni che parlano come tredicenni!), e allora la Creazione, come la Rivelazione e la Redenzione, sono punti su una circonferenza, sempre equidistanti dal centro, e dunque in un certo senso, sempre presenti

    Il presente in cui Dio creò il mondo è ­tanto vicino a questo tempo quanto il presente nel quale attualmente parlo, e il giorno del giudizio è tanto vicino a questo tempo quanto il giorno che è stato ieri.[3]

    Dire che Dio è in noi non significa allora un vago impegno a una vaga interiorizzazione di qualche precetto ma al contrario rappresenta l’invito a rendere presente Dio fermando lo scorrere del tempo o perlomeno relativizzandone la portata. Che cosa conta ora e poi, oggi e ieri di fronte all’eternità (ma non all’eternità che sarà domani bensì all’eternità che è già oggi: escatologia realizzata e anticipata nell’attimo vissuto)?
    Poiché ogni istante del suo essere, su tutti i punti che abbraccia la parola ora, Dio nasce in noi, e lo Spirito Santo viaggia, con tutti i suoi tesori.[4]
    La pienezza dei tempi non consiste dunque in un tempo pieno di cose ma in un tempo vuoto, o meglio dal vuoto lasciato dal tempo quando questo evaporerà: del resto, quale piacere può può sostituire una mattinata nella quale non abbiamo letteralmente niente da fare e il tempo si stende vuoto davanti a noi?

    la pienezza del tempo è quando non c’è più il tempo. Il giorno è compiuto quando non ne resta più niente (…) se uno possedesse l’arte e la potenza di concentrare in un’ora presente il tempo e tutto quel che è avvenuto nel tempo per seimila anni e che ancora avverrà fino alla fine. Quella sarebbe ‘pienezza del tempo’. Questo è l’ora dell’eternità, nel quale l’anima conosce in Dio tutte le cose nuove e fresche e presenti.[5]

    L’allargamento degli orizzonti è tipico del pensiero cristiano (tanto che viene la nostalgia quando lo si vede, oggi, a volte impegnato in battaglie pseudo-culturali di retroguardia quando il suo compito dovrebbe essere quello di lanciare nuovi richiami profetici!); sia a livello spaziale sia a livello temporale quello che la mistica può proporre è una via da uscita da ogni forma di angustia: il pensiero cristiano allarga i polmoni, immergendoli nell’infinito e inebriate oceano di ossigeno costituito dalla ruah di Dio:

    Tale è l’ampiezza del luogo si cui parlo e la sua larghezza e la sua immensità che, se poteste vederlo, il cielo, la terra e tutto ciò che contengono si dissolverebbero dinnanzi al vostri sguardo, e tutto ciò, al confronto, vi parrebbe il nulla stesso.[6]

    Il tempo è il nostro inferno. Un’ora di sofferenza ci pare un’eternità mentre un’ora di delizia ci lascia immediatamente e con un sapore amaro di perdita; per questo la mistica (in questo suprema interprete del pensiero cristiano) promette nulla di meno della perpetua beatitudine, che per essere appunto perpetua deve annientare l’azione dissolutoria del tempo che grava come un’ombra su ogni nostra gioia. Per questo motivo solo chi vive nell’inferno si dà pena per il trascorrere del tempo:

    Più lontani da Dio, più affondati/nel tempo/Per questo a chi è d’inferno,/un giorno è eternità.[7]

    Il sole al tramonto ci affonda in una notte che vela le nostre gioie e ci fa temere per la loro sussistenza; ben misera gioia quella che non regge al tramonto di una stella, ben scarsa risorsa quella che deve temere l’inverno. «Guardate i gigli dei campi»: la loro beatitudine, un po’ simile a quella dei Lotofagi omerici, è quella di chi sa che il tempo non avrà l’ultima parola, di chi non si preoccupa per il domani perché sa che il domani è un’illusione. La redenzione è un eterno oggi, l’eterno meriggio dell’umanità salvata dalla notte: «Qui [nella beatitudine] è sempre giorno.[8]


    NOTE

    [1] Angelus Silesius, Il pellegrino cherubico, San Paolo, I, 189.
    [2] Idem, III; 48.
    [3] Meister Eckhart, Sermoni, San Paolo, pag. 147.
    [4] Ian di Ruusbroec, La vita divina Leonardo, pag. 37.
    [5] Eckhart, cit., ,pag. 321.
    [6] Ruusbroec, cit. pag. 108.
    [7] Silesiuus, cit., II, 123.
    [8] Idem, VI, 109.


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