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    Fondersi in Dio


    Educazione e mistica /7

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2013-04-53)

    Se nel grande mare darai nome alla goccia
    Potrai nel grande Iddio riconoscer la mia anima
    (Angelus Silesius)


    Sono soprattutto le mistiche a regalarci la suggestione di una fusione completa con Dio. Forse è soprattutto una esperienza femminile quella rinuncia al Sé che porta ad attingere una forma più alta di sé nello sprofondarsi nell’Altro, nel recuperare una in-differenza nei Suoi confronti. Una esperienza femminile e forse anche tipica di altre culture, come mostra la notissima storia del pittore cinese che dipinge un quadro che rappresenta una strada che porta a una casa, e una volta finita l’opera entra nel quadro, si incammina sulla strada, apre la porta della casa, vi entra, saluta tutti coloro che sono rimasti fuori dal quadro e chiude la porta alle sue spalle. L’esperienza della fusione, prima di essere propria dell’uomo e soprattutto della donna, è propria della stessa divinità: le mistiche ci presentano un «Dio che ti riversi (…) fluisci (…) ardi (…) fondi (…) riposi» [1].
    In una cultura come la nostra, che dà così tanta importanza all’individualità proprio quando la liquida, che restituisce in apparenza al singolo uno status di importanza per ciò che ha senza interessarsi realmente di ciò che è, la rinuncia apparente alla soggettività proposta dalla fusione con Dio è certamente in controtendenza: nella fusione l’anima perde ciò che le è proprio, o almeno ciò che essa è portata a ritenere «proprio» nella società del possesso:

    «E perciò perde il proprio nome in colui del quale essa è, in quando a se stessa, in lui liquefatta e disciolta.
    Proprio come farebbe un’acqua che viene dal mare, che non ha nome alcuno; si potrebbe dire l’Aisne o la Senna o un altro fiume: e quando quell’acqua o fiume rientra nel mare, perde il proprio corso e il nome, con il quale correva in molti paesi compiendo la sua opera. Ora è nel mare, dove si riposa, e così ha lasciato tale fatica» [2].

    Non si tratta di rinunciare alla soggettività, di gettarla via, ma di metterla in gioco, di giocarla sul piatto di una bilancia, di perderla per ritrovarla, «perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà» (Mc 8,35)

    Nel grembo di Dio

    Così il mistico e la mistica si sciolgono nel grembo di Dio (così simile al seno di Abramo nel quale riposano le anime in attesa di giudizio secondo l’antica escatologia): «Mi auguro soltanto/Di essere a pieno immerso in seno al Salvatore [3]. La soggettività così dura e corazzata, che crede di potere affrontare il mondo solamente attraverso la forza e la durezza, scopre la forza di quella che bonhoefferianamente si potrebbe definire «resa»: «Fa’ oro di noi, purché siam liquefatti» [4].
    Ci torna in mente una pagina di Adorno: «È il gesto dello sciogliere: la tensione della muscolatura facciale cede, quella tensione che, nel volgere il viso verso l’ambiente in vista dell’azione, lo isola la tempo stesso da questo» [5]. Quello che si realizza in questi casi di allentamento è la fusione con il contesto; una posizione del soggetto nei confronti dell’oggettività dal quale la filosofia occidentale, a partire da Parmenide, ha sempre distolto lo sguardo con terrore, a parte qualche suo nobile eretico.
    È l’esperienza del gettarsi a fondo perso nelle cose, toccandole come si tocca un ragno velenoso e restandone affascinati, ad essere tabù per l’occidentale. Certo, l’io si può sciogliere anche per una fusione con il dominio: la sconfitta della vigilanza che l’industria dell’ottundimento televisivo e massmediatico sa causare porta alla costituzione di un io debole, del tutto succube dei contesti.
    Occorre un io forte per potersi permettere lo scioglimento e l’allentamento; un io debole non si scioglie per nulla anche perché è già sciolto in partenza: solamente chi ha acquisito una identità conosce la forza insita nella possibilità di perderla, per poi ritrovarla rafforzata.
    L’esperienza della fusione ci è nota nell’arte, nel sogno, ma soprattutto nell’amore quando il nostro desiderio di con-fonderci con l’altro/a è anche un arrendersi all’altro/a: la rinuncia parziale alla nostra soggettività richiesta dall’amore è possibile perché sappiamo che non dovremo temere alcun male, che l’altro/a ci accoglierà con un abbraccio e non con un colpo: ma la fusione è anche un modularsi sui tempi dell’altro e un dimenticare chi si è: nell’esperienza amorosa l’altro/a mi dà un nuovo nome (i nomignoli dei fidanzati) e mi svela parti di me stesso nuove o arcaiche e dimenticate.
    Fondersi con l’altro/a, fondersi con Dio significa recuperare una esperienza che si è vissuta nel grembo materno:

    «Quando ero ancora nel fondo, nel campo, nella corrente e nella fonte della Divinità nessuno mi chiedeva dove volessi andare o cosa facessi. Là non vi era nessuno che mi potesse porre domande (…) Quando giungo nel fondo, nel campo, nella corrente e nella fonte della Divinità, nessuno mi chiede da dove io venga o dove io sia stato» [6].

    L’uomo è stato partorito da Dio come creatura ma ha ancora la possibilità di vivere l’indistinzione originaria: «Tutto è ancora in Dio Se è vero che la creatura è scaturita da Dio Perché la tien racchiusa ancora nel suo grembo?» [7].

    La metafora del grembo materno restituisce le dimensioni più profonde dell’esperienza mistica della fusione, l’essere circondati, l’essere immediatamente gratificati, l’essere due persone in una. Ma essa propone anche il fascino dell’abisso, della notte e del buio, il mistero del non vedere e del non essere visti, il risveglio di sensazioni differenti da quelle visive e uditive che avviene quando due corpi si fondono.

    Il mistico Rumi

    Ma forse nessun mistico ha saputo descrivere l’esperienza della fusione come ha fatto Rumi. Le metafore alle quali Rumi affida la descrizione del fanà sono innumerevoli e straordinariamente plastiche: dall’annegamento: («chi è annegato in Dio desidera annegarvi ancor più») [8] nel quale la metafora dell’immersione nell’acqua («gettiamoci nel mare») [9] diventa più radicale quando il male diventa «mare di miele» [10] e dunque promette insieme all’abbraccio dissolutorio anche la dolcezza associata all’alimento; alla dissoluzione del corpo che si disfa nel corso delle azioni che compie («viaggerei senza testa né piedi») [11]; alla dissoluzione nel fuoco («io voglio il fuoco, il fuoco!») [12], all’immersione nel linguaggio («immersi nei Nomi divini») [13], alla confusione con gli eventi atmosferici e il succedersi delle stagioni e dei ritmi circadiani («diventa inverno diventa notte») [14], alla fusione alimentare con ciò che si mangia o si beve («mangerei zucchero senza labbra né denti» [15]; «Bevendo il vino arrubinato dello spirito che allunga la vita siamo diventati rubini, rubini, rubini» [16]; «mangia il tuo cuore» [17], fino all’invito a «diventare zucchero») [18], fino al diventare nulla, all’autoannichilimento totale: «Diventato nulla non temere l’incudine» [19] che è in realtà un diventare Dio, rispondendo positivamente al suo richiamo: «vieni: sii me stesso!» [20] che ai conoscitori della mistica sufi non potrà non ricordare il terribile motto «Io sono Dio» di al-Hallaj [21].

    Perdersi per ritrovarsi, dunque, gettare la propria soggettività in grembo a Dio per ritrovarla diversa, rinata, potenziata pur nell’indebolimento.
    Ci sembra di ritrovare questa sensibilità nello splendido testo di una recente canzone di Roberto Vecchioni, «Le rose blu»:

    Vedi, darti solo la vita sarebbe troppo facile perché la vita è niente senza quello che hai da vivere; e allora, fa’ che non l’abbia vissuta neanche un po’, per quello che tu sai, e quello che io so.
    Fa' che io sia un vigliacco e un assassino, un anonimo cretino, una pianta, un verme, un fiato dentro un flauto che è sfiatato e così sarò, così sarò, non avrò mai visto il mare non avrò fatto l’amore, scritto niente sui miei fogli, visto nascere i miei figli che non avrò.
    Dimenticherò quante volte ho creduto e ho amato, sai, come se non avessi amato mai, mi perderò in una notte d’estate che non ci sono più stelle, in una notte di pioggia sottile che non potrà bagnare la mia pelle, e non saprò sentire la bellezza che ti mette nel cuore la poesia perché questa vita adesso, quella vita non è più la mia.

    Se la vita non è più la nostra è perché l’abbiamo donata; non gettandola via nell’apparente fusione che si regalano i paradisi artificiali delle droghe e la realtà virtuale, ma giocandola fino in fondo nella scommessa di una reale fusione, nella quale l’Io si salva perché si perde e si perde per avere la garanzia di salvarsi.


    NOTE

    1) Mechtilde di Magdeburgo, La luce fluente della divinità, Giunti, pag. 49.
    2) Margherita Porete, Lo specchio delle anime semplici, San Paolo, 1994, pag. 341.
    3) Angelus Silesius, Il pellegrino cherubico, San Paolo, III, 75.
    4) Ivi, V, 119.
    5) Theoro W. Adorno, Mahler, Torino, Einaudi 1979 pag. 59.
    6) Meister Eckhart, Sermoni, San Paolo, pag. 624.
    7 Ibidem.
    8) Jalal al-Din Rumi, Mathnawi, Milano, Bompiani, 2006, Vol. I pag. 202.
    9) Vol. IV, pag. 234.
    10) Vol. IV, pag. 277.
    11) Vol. I pag. 229.
    12) Vol. II pag. 139.
    13) Vol. IV, pag. 51.
    14) Vol. V, pag. 70.
    15) Vol. IV pag. 51.
    16) Vol. VI, pag. 93.
    17) Vol II, psg. 189.
    18) Vol I, pag. 220.
    19) Vol. V, pag. 68 20) Vol. VI, pag. 64.
    21) Al-Husatn Ibn Mansur al-Hallaj, Il Cristo dell’Islam. Scritti mistici, Milano, Mondadori, 2007, pag. 127.


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