Educare alla Costituzione /11
Raffaele Mantegazza
(NPG 2011-09-72)
Non c’è articolo della Costituzione che sia stato più discusso e dibattuto dell’art. 29. «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio». Spesso purtroppo si dimentica che, come sempre, il testo costituzionale non si limita ad enunciare principi astratti, ma immediatamente fornisce indicazioni concrete per l’implementazione di tali principi, come fa in questo caso con l’art. 31: «La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo». Lo ricordiamo perché la famiglia non si sostiene con la retorica ma con politiche concrete: di sostegno alle famiglie monoreddito o monoparentali, di modifiche nei tempi di lavoro per i genitori di bambini piccoli, di aiuto educativo, psicologico ed economico nei casi di parti plurigemellari, gravi disabilità, ecc.
Ci sembra che in Italia la politica a sostegno della famiglia sia negli ultimi anni soprattutto la produzione continua di retorica familista a sostegno di una politica concreta che letteralmente strangola le famiglie a basso reddito, per non parlare delle famiglie straniere. Per questo motivo parlare unicamente di politiche per le famiglie senza affiancare a queste sostegni economici per i giovani in cerca di occupazione o studenti, facilitazioni per l’accesso ai mutui o ai prestiti, politiche di calmierazione degli affitti e dei costi delle case per i giovani, significa mantenere i giovani in condizione di sottomissione e di dipendenza. La famiglia, straordinaria base di lancio per proiettare il giovane nella società, rischia di trasformarsi in una gabbia; dorata, ma pur sempre gabbia. Basta allora ricordare le parole di Gibran:
I vostri figli non sono i vostri figli.
Sono i figli e le figlie della brama
che la Vita ha di sé.
Essi non provengono da voi,
ma per tramite vostro,
E benché stiano con voi
non vi appartengono.
Potete dar loro il vostro amore
ma non i vostri pensieri,
Perché essi hanno i propri pensieri.
Potete alloggiare i loro corpi
ma non le loro anime,
Perché le loro anime abitano nella casa del domani,
che voi non potete visitare, neppure in sogno.
Potete sforzarvi d’essere simili a loro,
ma non cercate di renderli simili a voi.
Perché la vita non procede a ritroso
e non perde tempo con ieri.
Voi siete gli archi dai quali i vostri figli
sono lanciati come frecce viventi.
L’Arciere vede il bersaglio sul sentiero dell’infinito,
e con la Sua forza vi tende
affinché le Sue frecce vadano rapide e lontane.
Fatevi tendere con gioia
dalla mano dell’Arciere;
Perché se Egli ama la freccia che vola,
ama ugualmente l’arco che sta saldo.[1]
Parlare della famiglia oggi significa anzitutto riconoscere che l’esperienza della famiglia nucleare così come la conosciamo è una acquisizione limitata nel tempo e nello spazio; è presente soprattutto in Occidente e da poco tempo: chi volesse utilizzare la Sacra Famiglia come prototipo della famiglia buona finge di dimenticare che una situazione come quella costituiva una eccezione nella Palestina antica e continuerà a costituirla per secoli, e ancora oggi sarebbe incomprensibile in molte parti del mondo.
Proporre la famiglia nucleare come il prototipo esclusivo per le politiche famigliari significa escludere e squalificare a priori milioni di persone che fanno della famiglia una esperienza del tutto differente. Peraltro, definire la famiglia occidentale come società in miniatura è al contempo troppo e troppo poco; la famiglia non è una società anzitutto perché le manca qualcosa: manca infatti la dimensione istituzionale e professionale che è una caratteristica della società occidentale; manca insomma l’idea che si occupa un ruolo per il quale è previsto un titolo di studio, un contratto, uno stipendio: nessuno ha studiato o viene retribuito per fare il padre e la madre, il che rende semmai la famiglia un luogo di riparo e di rifugio dalla società.
Ciò che la famiglia ha in più rispetto alla società è dunque l’elemento di gratuità, che non è spontaneo come si vorrebbe far credere, ma piuttosto è esso stesso una costruzione sociale:
«La famiglia dipende dalla realtà sociale nelle sue concretizzazioni storiche ed è mediata socialmente fin nella sua più intima struttura».[2]
Occorre dunque sempre studiare il rapporto complesso tra la famiglia e la società, per cercare di comprendere i mutamenti nella prima a partire dalle dinamiche presenti nella seconda: il mutamento dalla famiglia allargata a quella nucleare in Occidente ha evidenti radici economiche ma anche culturali e religiose; ma occorre anche ricordare che la famiglia ha una sua forza d’inerzia, una sua irriducibilità al contesto sociale:
«La famiglia non può per definizione spogliarsi del momento naturalistico come relazione biologica dei suoi membri che, non risolvendosi nella relazione di scambio, appare dal punto di vista della società come eteronomo, una sorta di perturbazione».[3]
Nella logica del mercato che pervade la nostra società, la famiglia porta semmai un elemento di distonia:
«la famiglia rimane una istituzione essenzialmente feudale (basata sul sangue) dunque un elemento irrazionale entro la società industriale orientata al principio della calcolabilità di tutti i rapporti sull’unico parametro accettato della domanda e della offerta. La famiglia borghese rimane allora anacronistica ma proprio perciò potè operare come istanza di mediazione del processo di adattamento alla società, perché solo la sua autorità irrazionale fu in grado di spingere gli uomini agli sforzi a loro richiesti per l’integrazione nel tutto sociale».[4]
Così le politiche per le famiglie devono tenere conto che sebbene l’Occidente moderno abbia codificato una tipologia di famiglia, che è poi quella che entra nei Codici Civili, esistono anche altri modelli che sono certamente portatori di conflittualità (si pensi anche solo alla poligamia) ma che non possono essere liquidati con disprezzo meritando invece analisi sociologiche approfondite.
Un concreto aiuto
Ma come si aiutano i genitori, nel concreto? Un mestiere senza patente, un viaggio senza guide: spesso questo sembra essere il ruolo genitoriale. Una non-professione, per la quale non occorre superare esami di abilitazione, ma che costituisce comunque nella nostra società la radice di molti altri ruoli educativi. Un ruolo difficile soprattutto oggi, non perché i tempi siano peggiorati, ma perché il ruolo genitoriale è uscito dall’ovvietà, dall’alone della scontatezza. Non è più ovvio essere genitori, ovvio non è più nemmeno il fatto stesso della genitorialità. Per fortuna, però, attorno ad ogni genitore ve ne sono altri, tanti altri: a scuola, nella squadra di calcio, nel condominio, nel quartiere. Per questo il ruolo di genitori è immediatamente un ruolo sociale. Se un gruppo di genitori di un condominio concorda il «coprifuoco» serale alle ore 11 per i propri figli adolescenti, magari non otterrà sorprendenti risultati immediati (nel senso che i ragazzi continueranno a tornare all’una) ma passerà a questi il messaggio seguente: la microsocietà adulta si sta occupando di voi come una comunità.
In questi tempi contraddittori, che coniugano il più spietato individualismo dei ricchi con il più scandaloso esibizionismo televisivo dei sentimenti privati della povera gente (più o meno consenziente) questa strategia permette di ricordare che l’educazione dei figli non è mai solo una questione privata ma è sempre un fatto sociale. E che come disse don Milani, «uscirne da soli è l’egoismo, uscirne insieme è la politica». Per una educazione famigliare rispettosa della Costituzione e per una educazione alla legalità che passi per la famiglia, occorre che un po’ tutti gli adulti, genitori ed esperti, riconoscano la propria costitutiva fragilità di fronte ai problemi educativi, nei confronti dei quali nessuno individualmente e singolarmente possiede la risposta, perché la risposta è solamente nell’articolazione complessiva della società. Nessuno può avere la pretesa di capire tutto, ma non per questo occorre essere paralizzati nell’azione o alzare bandiera bianca.
Occorre tenacia per educare, occorre quel tanto di incoscienza per andare avanti e sognare per i figli un futuro migliore e quel tanto di umiltà per capire che il futuro migliore non lo costruisco io da solo e non riguarderà solamente mio figlio.
Torna ancora la politica, dunque, come sfondo di senso per qualunque progetto genitoriale. Per riconoscere che ci sono domande alle quali io non saprei rispondere, ma forse insieme ad altri possiamo azzardare possibili soluzioni. Per un viaggio che sarà sempre senza patente; ma per il quale possiamo forse farci a vicenda da timide ma tenaci guide.
NOTE
[1] Gibran Kahlil Gibran, Il Profeta, Milano, Mondadori, 1980, pag. 31.
[2] Istituto di ricerca sociale di Francoforte, Lezioni di sociologia, Torino, Einaudi, 1980, pag. 148
[3] Ivi, pag, 149
[4] Ivi, pag. 152