Ma tu da dove vieni? L’incontro


Io e l'altro. Percorsi di pedagogia interculturale /1

Raffaele Mantegazza

(NPG 2014-01-48)


Un medico di provenienza togolese lavora da anni in un grande ospedale del Nord Italia. E’ molto professionale e stimato da tutti i colleghi e i pazienti. Un giorno, mentre è di guardia, riceve una chiamata: bisogna andare subito a casa di una signora che sta poco bene. Il medico chiama l’infermiere e insieme si recano a casa della signora. Mentre l’infermiere prende dall’ambulanza i macchinari per l’intervento il medico suona il campanello: si affaccia alla porta la sorella della signora che dice: “Ah, guardi, non ci serve niente. Se vuole le posso offrire un bicchiere d’acqua. Un panino no, perché ho solo il salame e voi non lo mangiate, vero?”. La settimana successiva lo stesso medico è al supermercato; si è fermato un attimo fuori dall’ingresso a ripassare mentalmente la lista della spesa. Un signore si avvicina con il carrello vuoto e, accennando al deposito dei carrelli e al meccanismo dove infilare la monetina per prelevarli, dice: “Morettino, vuoi guadagnarti 1 euro?”.

L’incontro con le culture differenti dalla nostra è obbligato: non si tratta di decidere se incontrare l’altro/a o no, si tratta di decidere se sarà un incontro o uno scontro, se porterà a una difficile convivenza o a una troppo facile lotta. Che ci sia ancora qualcuno che parla di scontro di civiltà è segno della barbarie dei nostri tempi: non c’è un destino di sterminio reciproco tra diversi. Le civiltà si incontrano e non si scontrano se sanno ammortizzare i propri conflitti, e soprattutto se non ce n’è una che si ritiene superiore.
Oggi l’incontro avviene da noi, sul nostro terreno, perché da noi ci sono le risorse economiche, spesso sottratte a quegli stessi popoli i cui rappresentanti ci starebbero “invadendo”. Incontriamo gli altri e le altre a casa nostra perché loro ci raggiungono in nome di una necessità di vita: non li/le incontriamo a casa loro perché l’abbiamo resa invivibile, depredandola delle risorse. Fino a che il mondo non sarà giusto, finché ognuno non potrà vivere del proprio lavoro sulla propria terra, l’incontro con l’altro/a sarà sempre in emergenza, e sarà sempre da pensare come incontro con persone che rappresentano culture che sono state da noi offese e depredate.
Ma che cosa vuol dire incontrare una persona? Crediamo che l’incontro, quello vero e autentico, richieda alcuni presupposti, che valgono a maggior ragione quando la distanza tra le persone che si incontrano è ampia, per abitudini, credenze, usanze, provenienza geografica.
Occorre anzitutto lasciare spazio alla domanda: spesso incontriamo gli/le altri/e partendo dalle nostre categorie, da idee fisse che ci danno sicurezza ma che non ci fanno vedere la realtà in tutti i suoi aspetti anche contraddittori: “Se quello è un Testimone di Geova, un senegalese, una donna, certamente sarà così, si comporterà in questo modo, avrà queste idee”: questo modo di pensare impedisce l’incontro. In questo caso non stiamo realmente incontrando l’altro/a ma la sua immagine nella nostra mente: in fin dei conti stiamo incontrando noi stessi e i nostri pregiudizi. Ma non si incontra mai una categoria: si incontra sempre un essere umano con un nome, un cognome e una storia. Si incontra Babacar Diop, non “il senegalese”. Lasciare aperto lo spazio per domandarsi “Chi è costui/costei?” significa già rifiutarsi di percorrere la comoda strada del pregiudizio e dello stereotipo con le sue risposte troppo facili e troppo violente;
Occorre inoltre lasciare spazio allo stupore: la difficoltà di incontrare realmente l’altro/a è anche difficoltà di stupirsi. E’ triste vedere come oggi anche i bambini e le bambine si stupiscano troppo poco del mondo e della vita: quello stupore che secondo Aristotele era alla base del vero pensiero sembra oggi sostituito da una situazione nella quale tutto è già visto e previsto. L’incontro con l’altro/a spezza la prevedibilità della vita, ci mette di fronte al caso, alla stranezza del vivere. Oggi, purtroppo lo stupore che ci prende quando incontriamo la persona che proviene da culture differenti è spesso stupore per la sua sofferenza. La storia dell’altro/a spesso ci stupisce per la sua violenza, per le sofferenze che la attraversano; ma comunque incontrare un altro essere umano deve significare stupirsi di come le storie di vita possano essere diverse ma anche di come possano trovarsi consonanze tra storie così lontane. E’ bene imparare fin da piccoli che la vita intreccia i percorsi delle persone attraverso strade imprevedibili e spesso dolorose: ma che è comunque possibile incontrarsi e lasciare spazio allo stupore di un imprevisto appuntamento tra esseri umani, entrambi con la fatica di vivere sulle spalle e con una storia da raccontare.
Nonostante il pensiero comune, incontrare l’altro significa innanzitutto modificare le proprie abitudini, prima di chiedergli di modificare le sue: questo richiede il dovere di ospitalità. E’ buffo e triste al contempo vedere persone che pontificano sul fatto che gli immigrati devono adattarsi al nostro stile di vita, comportarsi quando sono all’estero come dei perfetti cafoni: mettersi in topless sulle spiagge di paesi musulmani, ironizzare sul precetto di togliersi le scarpe prima di entrare in una moschea, pretendere di essere serviti da un negoziante giudeo il sabato a Gerusalemme. Chi viaggia all’estero, anche solo per lavoro, dovrebbe mostrare per i riti e le usanze locali almeno la metà del rispetto che poi pretende dagli immigrati per le proprie. Quando ospitiamo un amico a casa gli prepariamo la sua stanza, modifichiamo il nostro menù se qualche cibo non gli piace, magari cambiamo anche abitudini nelle cose più quotidiane: l’uso del bagno, gli orari per coricarsi e per alzarsi. Quando invece ospitiamo gli immigrati, sembra che i nostri riti e ritmi siano sacri, dettati da chissà quale legge divina. Imparare dall’incontro con l’altro/a che le abitudini quotidiane sono una convenzione che può essere modificata proprio a partire dalle sue necessità, è una grande lezione per i giovani e i giovanissimi. Incontrare le persone significa cominciare a cambiare: l’ospitalità è cambiamento, l’ospite può cambiare successivamente, se si sente accolto da una quotidianità modificata e adattata a lui/lei. Pretendere che l’altro/a si adegui senza modificare le proprie abitudini è una forma raffinata di razzismo;
L’incontro con l’altro ci offre infine la preziosa occasione di rileggere la nostra storia. I ragazzi e i bambini imparano molto presto a fare i conti con la loro immagine riflessa dai comportamenti delle altre persone; imparano che la persona è un mosaico costituito dagli incontri che ha fatto e che fa nella sua vita. Io mi vedo realmente solo attraverso gli occhi dell’altro/a: questa è una delle più importanti acquisizioni che una persona può raggiungere nel suo processo di crescita. Incontrare l’altro/a e chiedergli/le come mi vede significa liberarmi delle incrostazioni che sono depositate sulla mia storia e sulla mia identità. Quante volte una osservazione o una critica di un amico/a ci ha permesso di vedere alcuni lati di noi che non immaginavamo. L’umiltà richiesta da questi incontri individuali è la stessa che occorre praticare quando si parla di incontro tra culture. Incontrare bambini/e e ragazzi/e di altre culture significa arricchire anche la propria immagine di sé e soprattutto riflettere sulla storia e sulla cultura dell’Occidente in modo nuovo, diverso (aggiuntivo, non sostitutivo) rispetto a quanto si impara sui libri di scuola.
Quando ci mostrano una fotografia che ci è stata scattata a nostra insaputa, spesso ci stupiamo; “quello/a non sembro io, non sapevo che mi stavano osservando”: le nostre reazioni variano da una leggera irritazione a una osservazione di lati – anche fisici – di noi che le fotografie “in posa” non colgono. Una reazione psicologicamente comprensibile: ci stiamo osservando come ci osservano gli altri, stiamo vedendoci come gli altri ci vedono, cosa che non riusciamo mai a fare davanti allo specchio. La macchina fotografica o la macchina da presa manovrate a nostra insaputa ci mostrano l’immagine pubblica di noi che sembra sfuggire al nostro controllo. Questo è uno dei significati pedagogici dell’incontro: incontrare l’altro/a significa anche, attraverso le sue parole, imparare a vederci dall’esterno. La psicologia contemporanea utilizza per questa esperienza il termine tecnico “restituzione”: l’altro/a – lo psicanalista in terapia; il/la partner nei rapporti di coppia, l’insegnante nella relazione educativa – mi restituisce una immagine di me sulla quale io poi devo imparare a lavorare e a fare i conti.
Quando il diverso appartiene a un’altra cultura, all’effetto psicologico di cui abbiamo parlato si somma l’effetto culturale del superamento dell’etnocentrismo, cioè dell’idea che la propria cultura, la propria etnia, le proprie tradizioni costituiscano il centro del mondo. Credere di essere i migliori, di essere la cultura per eccellenza, relazionare tutto alla propria visione del mondo, non sono invenzioni occidentali: molte culture le condividono, e forse ogni cultura attraversa una fase del suo sviluppo nella quale ritiene di essere l’unica al mondo, la migliore, la superiore. E’ segno di maturità però superare questa fase e farlo proprio attraverso le restituzioni che ci vengono dall’altro/a. In che modo? Mettendo a dura prova i riti e i miti dell’Occidente attraverso il confronto con le culture di appartenenza degli/delle immigrati/e, vissuto nell’incontro fisico e quotidiano, ad esempio sui seguenti temi:
- il mito della gestione esclusiva del tempo: se c’è un oggetto con il quale l’Occidente fa fatica a relazionarsi è proprio il tempo. Ci illudiamo di programmarlo, di padroneggiarlo, di esserne i signori. Ma l’arrivo dell’altro/a non è programmabile, perché l’altro/a arriva quando il suo bisogno lo mette in condizione di farlo. Con l’altro/a non c’è possibilità di fissare appuntamenti, e questo rompe la nostra idea del tempo come programmazione totale. L’altro/a non ci invade, ma irrompe nella nostra quotidianità e ci stupisce;
- il mito della centralità della cultura occidentale: osservare la nostra realtà con gli occhi di un altro/a, chiedere agli immigrati di restituirci con i loro linguaggi artistici e culturali l’immagine della nostra cultura, è salutare. Non per sostituire alla nostra un’altra cultura che occupi il centro del mondo, ma per capire che non c’è un centro. L’incontro con l’altro, anche a livello fisico – di acconciature, abbigliamento, linguaggio, postura del corpo – mi fa vivere l’esperienza del decentramento. Le culture non si dispongono a corona attorno a una cultura centrale, quale che sia, ma costituiscono una rete attraverso la quale passano i temi e i simboli. Sarà perciò interessante mostrare ai bambini come certi personaggi delle fiabe (la principessa addormentata, l’orco che mangia i bambini, l’idiota sapiente) sono presenti in molte culture e si sono sviluppati in ambiti anche distanti migliaia di chilometri;
- il mito del proprio orticello: forse il provincialismo è una delle più gravi malattie del nostro Paese. Tutto viene relazionato a noi, alla nostra cultura, difficilmente si trova la forza di uscire dai confini nazionali (quasi mai comunque da quelli europei o americani) per arricchire le proprie conoscenze. Se l’immigrazione porta il mondo in classe, facendo incontrare agli scolari e agli studenti ragazzi/e di altre culture, questo fatto significa che la vera cultura è intercultura. E l’incontro con l’altro/a stimola anche la curiosità, che è la base di ogni intelligenza: se conosco un bambino o una bambina che viene da un’altra nazione o da un altro continente sarò portato a farmi qualche domanda in più: a chiedere di saper riconoscere su una carta geografica dov’è il Senegal, l’Ecuador, lo Sri Lanka. A capire che differenza c’è tra Cina e Formosa. A informarmi su che lingua si parla in Brasile e perché. L’allargamento degli orizzonti è il primo, immediato effetto dell’incontro, che ci toglie dal nostro orticello per considerare gli orti degli altri, coltivati in modo diverso e con prodotti un po’ differenti dai nostri.
L’incontro con l’altro/a non è semplice; necessita di strutture e di strumenti adeguati (si pensi anche solo all’aspetto linguistico); ma ciò che può offrirci è uno sguardo nuovo sul mondo. Dopo avere conosciuto un senegalese forse l’acquisizione più importante non consiste nell’avere uno sguardo diverso sul Senegal, ma uno sguardo più critico su di noi.