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    Raccontami una terra. Le memorie


    Io e l'altro. Percorsi di pedagogia interculturale /3

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2014-03-68)


    Pablo, 8 anni, è figlio di una coppia proveniente dallo stato di E. I genitori sono fuggiti dal loro paese tre anni fa, perché perseguitati dalla polizia per ragioni d’opinione, e hanno chiesto asilo politico in Italia. Per poterlo ottenere però hanno dovuto dichiarare una nazionalità differente dalla loro, perché lo stato di E. non ha accordi con l’Italia per l’asilo politico. Così hanno dichiarato per sé e per il figlio di essere cittadini dello stato di F., la cui lingua è in parte differente da quella di E. Pablo è stato costretto a imparare l’italiano e soprattutto a non esprimersi più nella sua lingua d’origine, a negare di provenire da E., ad evitare ogni contatto con altre persone provenienti dal suo stesso paese – addirittura dallo stesso villaggio – che vivono in Italia con regolare permesso di soggiorno. Quando gli si chiede da dove viene, il bambino non sa rispondere. In casa parla la sua lingua, ma solo se i genitori sono sicuri che nessuno li stia ascoltando. Le maestre dicono che parla molto bene l’italiano ma rifiuta ogni legame con il suo passato: sembra che sia nato in Italia e non vuole assolutamente che si faccia riferimento ai suoi primi cinque anni di vita.

    Ricordare non è facile, e spesso rischia anche di essere pericoloso. La tragica esperienza dei deportati e delle deportate nei campi di sterminio nazisti ce lo ha mostrato: per queste persone la memoria ha una frattura che è troppo dolorosa; ricordare può significare soffrire più di quanto già si soffra oggettivamente. Per questo motivo, cercare di fare della memoria un terreno di incontro e di confronto interculturale è difficile, e richiede alcune precauzioni.
    Anzitutto deve essere chiaro che non si può ricordare sempre e non si può ricordare dovunque: la memoria deve essere suscitata in situazioni protette (per questo la scuola, per i ragazzi e i giovani, è un ambito ideale), e soprattutto il lavoro sulla memoria non deve essere episodico, ma deve essere programmato e studiato. In secondo luogo, occorre mettere in campo un elemento che forse abbiamo un po’ dimenticato in questi anni ma che è essenziale per la crescita di tutti i bambini e le bambine: il rispetto del pudore. La memoria che vediamo passare in televisione, nelle trasmissioni che affermano di presentare storie di vita, è memoria estorta, non autentica: un po’ come quando dopo una tragedia l’inviato di turno sbatte un microfono sotto il naso del superstite e gli chiede di narrare “al nostro pubblico” la catastrofe.
    Il pudore della memoria è una cosa seria e ha forse una sola regola d’oro: è sempre l’altro/a che decide se, quando e come ricordare. Può decidere di non ricordare, di lasciare chiusi gli scrigni della sua mente, e noi non possiamo far altro che rispettare il suo silenzio. Può ricordare quando noi non siamo pronti ad ascoltarlo/a, e in quel caso dobbiamo attrezzarci perché il suo racconto non vada perso. Può decidere di affidare la memoria a linguaggi differenti da quelli cui noi siamo abituati (del resto la memoria raramente si esprime solo in parole: si serve della musica, delle immagini, del gesto), e allora è importante riuscire a comprenderli e a capirli.
    Ciò che si ricorda quando si è lontani forse per sempre è ovviamente la propria terra. Un parallelismo tra l’emigrazione italiana, sia interna sia verso l’Europa o l’America, può essere molto utile. La Terra è di tutti, ovviamente, come insegnano tutte le grandi religioni; ma è vero che c’è un frammento di terra che ci ha ospitato fin dal nostro venire al mondo, e che ci è più caro. Senza pretendere che sia migliore degli altri, senza costruirci assurdi recinti per tenere fuori chissà quali invasori, la nostra terra dovrebbe invece essere attrezzata per ospitare gli altri, quelli che vengono da altrove. L’orgoglio dell’abitare una casa non dovrebbe essere nel mettere i recinti appuntiti per lasciar fuori i ladri, ma nell’aprire i cancelli per offrire una cena agli amici.
    Ricordare la terra per gli immigrati e le immigrate spesso significa pensare alla “terra” nel senso fisico della parola: non è detto che queste persone abbiano esperienza delle grandi città, proveniendo da culture che sono perlopiù di villaggio, ma non è nemmeno giusto che ci si rappresenti la loro Africa o il loro Sudamerica come una terra selvaggia coperta da boschi e da savane e magari con qualche tigre pronta a sbranarci. La terra ricordata da un brasiliano sarà ben differente a seconda se questa persona proverrà da Rio de Janeiro o da un villaggio ai confini dell’Amazzonia. La memoria degli immigrati e delle immigrate ci restituisce una terra che va al di là delle nostre rappresentazioni un po’ troppo televisive; quando ricordano queste persone sono ancora in grado – per fortuna – di stupirci e di spiazzarci.
    Un altro elemento di necessaria precauzione da mettere in conto quando si affronta il tema delle memorie è il fatto che spesso la terra che viene ricordata è una terra ferita: dalla guerra, dalle ingiustizie, dalla fame. Dobbiamo sempre ricordare e far ricordare ai nostri ragazzi che stiamo parlando con persone che hanno abbandonato una terra che per loro è stata ingrata – e lo è stata soprattutto per gli interessi economici del nostro grasso Occidente –, persone la cui casa è stata forse distrutta, ammesso che abbiano mai avuto una casa. L’idea di casa come la concepiamo noi in Occidente non è certo universale, e non è sempre facile chiedere agli/alle immigrati/e di descrivere la loro casa.
    Non tutti siamo autorizzati a entrare nel dolore degli altri e delle altre: se le persone che provengono da lontano sono portatori di memorie difficili e conflittuali, è giusto che a raccoglierle siano insegnanti o specialisti che sappiano cosa farne. E’ difficile infatti porsi di fronte a storie di sofferenza così acute senza cadere o scadere nel pietismo. E del resto, come comprendere il dolore dello sradicamento, dell’esilio, dell’addio ai propri cari? E come capire la pena supplementare della fame, della guerra, della violenza?
    Un elemento importante nella memoria degli immigrati è ovviamente il viaggio compiuto, spesso in condizioni disperate, per raggiungere l’Europa e l’Italia. Abituati a viaggiare per lavoro o per svago, ci riesce difficile capire che cosa significa viaggiare per obbligo o per necessità, magari senza avere il tempo di dire addio alla propria terra. Quando si dice che gli immigrati spesso non possiedono un progetto migratorio, cioè non sanno bene che cosa fare, se ritornare in patria o integrarsi per sempre in Occidente, si dimentica che spesso la migrazione è per loro una urgenza, una fuga, o il tentativo di cogliere al volo un’occasione che potrebbe non ripetersi. Dunque la memoria del viaggio è memoria di un discorso interrotto con la propria cultura e la propria terra, qualcosa di bruciante e di doloroso.
    La memoria del viaggio è anche memoria dell’accoglienza: la prima immagine dell’Italia rimane nella mente delle persone immigrate e spesso non si tratta purtroppo di un’immagine positiva. Anche su questo terreno è possibile chiedere agli immigrati di raccontare che cosa è successo quando si è arrivati in Italia e magari provare a ragionare con i nostri bambini e ragazzi su cosa si potrebbe fare per rendere l’arrivo e l’accoglienza meno traumatici e più – appunto – accoglienti.
    Viviamo in un mondo che per fortuna è caratterizzato da una pluralità di memorie: le memorie sono tante quante sono le persone e nessuno può arrogarsi il diritto di detenere la parola decisiva quanto al ricordo di un fatto o di un luogo. Il collage delle memorie individuali e collettive è di solito ciò che costituisce la realtà di un evento. Questo vale anche per il fatto dell’immigrazione: se è vero che le statistiche non possono sostituire la narrazione individuale e la memoria dei singoli, è anche vero che stiamo parlando di un evento complesso, che può essere ricostruito a partire da più fonti. Il consiglio perciò è di abituare i ragazzi e le ragazze ad ampliare i loro orizzonti a proposito delle culture di appartenenza degli immigrati, confrontandosi con più persone e non limitando la loro ricognizione all’ascolto di una sola memoria. Nessun cingalese racconterà la sua terra o il suo viaggio in modo perfettamente simile a un suo compatriota, e la realtà dello Sri Lanka, che ovviamente sfugge ad ogni racconto, sarà però sfiorabile mettendo insieme le differenti narrazioni, anche e soprattutto dove esse sembrano contraddirsi. Infatti, se a volte ci sembra che il modo di raccontare la propria terra da parte di due differenti persone sia troppo contrastante, proviamo a domandarci come racconteremmo noi l’Italia a una persona di un’altra cultura, e come la racconterebbe il nostro vicino di casa. Il puzzle che emergerebbe dalle differenti narrazioni regalerebbe all’ascoltatore una visione complessa del nostro paese come è giusto che sia.
    L’Italia, terra di emigrazione, è allora il luogo ideale per un confronto tra le memorie degli immigrati e quelle dei vecchi migranti: quali analogie – e quali ovvie differenze – ci sono tra le memorie di chi lasciava l’Italia per lontani paesi e quella dei nostri nuovi ospiti? Come si faceva allora a ricordare la propria terra, e come si fa oggi? Che ruolo hanno avuto le canzoni, le filastrocche, gli oggetti personali e famigliari nelle emigrazioni degli italiani e che ruolo hanno per gli immigrati? Senza voler dire che tutte le migrazioni sono uguali, l’invito al confronto tra queste memorie ci permette di cogliere comunque le innegabili analogie tra questi due episodi della difficile convivenza umana.
    La memoria sembra una opzione che riguarda solamente il passato – e dunque qualcosa di inutile in un mondo che viaggia verso il futuro. Sappiamo bene che non è così: non solo perché nessun futuro si costruisce senza la memoria del passato, ma anche perché ciò che noi facciamo qui e ora, nel nostro presente, diventerà memoria domani. Stiamo insomma contribuendo a fare la storia con i nostri comportamenti quotidiani, stiamo scrivendo pagine di vita che resteranno nella memoria, soprattutto dei nostri figli e delle nostre figlie.
    Proviamo allora a immaginare che gli immigrati e le immigrate tornino tutti e tutte al loro Paese; a parte il fatto che è fortunatamente impossibile e che comunque siamo assolutamente convinti che questo impoverirebbe tremendamente la nostra cultura, ma se ciò dovesse realmente accadere, come resterebbe nella loro memoria l’Italia e la sua gente? Come ci ricorderebbero? Come un popolo accogliente o razzista? Come una civiltà del dialogo o dello scontro? Probabilmente un misto delle due cose. Ma noi, noi singoli, e soprattutto i nostri bambini e le nostre bambine, quale immagine lasceremmo nella mente di queste persone? Ogni volta che un nostro bambino/a incontra un immigrato, ci preoccupiamo dell’immagine di quest’ultimo nella mente del ragazzo? E il contrario? Quale traccia lasciano gli incontri che gli immigrati e le immigrate quotidianamente compiono, nel loro immaginario e nella loro memoria? E quanto una guerra, un atto razzista, l’incendio di un ostello compromette questa immagine? Quanto è facile per i razzisti distruggere in poche ore un dialogo che si sta tessendo da anni?
    Lungi dal deprimerci, queste considerazioni dovrebbero responsabilizzarci e farci comprendere come ogni nostro gesto e ogni nostro atteggiamento è destinato a incidere profondamente nella coscienza e nella memoria di queste persone, e nella nostra. Il gioco delle memorie alla fine ci pone la domanda più difficile, quella che i figli dei nostri figli, ai quali lasceremo in eredità il mondo, non potranno fare a meno di porci a distanza di decenni: siamo stati in grado di far sì che l’incontro tra culture si svolgesse in modo nonviolento e sereno, oppure l’incontro tra memorie è stato ancora una volta soltanto una bella occasione mancata?


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