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    Io e l'altro. Percorsi di pedagogia interculturale /7

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2015-03-76)


    Il ragazzino albanese mi guarda con aria fiduciosa: è tutto l'anno che mi informo sulla situazione della madre, affetta da tumore; è tutto l'anno che sento il padre per telefono, un uomo serio, che lavora, che non può venire all'orario di ricevimento ma mi chiama sempre per capire come va il figlio. Ora siamo a giugno, il ragazzo ha accumulato troppe assenze, deve sostenere gli esami. Ieri, in una burrascosa riunione con i colleghi, la maggioranza ha deciso per la boccia¬tura: non ha avuto il tempo di recuperare. Pazienza per le ore di angoscia all'ospedale, per le settimane di assenza, per la sorel¬lina piccola da curare. La scuola ha i suoi tempi, giugno è tempo dei giudizi; lui non è pronto, non ha ottimizzato il tempo, oc¬corre bocciarlo. Adesso lo guardo, abbozzo un sorriso, e non ho il coraggio di dirgli che il nostro è destinato a restare un dialogo interrotto.

    Che cosa significa dialogare

    E’ difficile dialogare. Lo è tra persone simili, con gli stessi gusti e con radici analoghe; lo è ancora di più tra persone differenti, divise da scelte, valori, progetti di vita. Eppure proprio oggi, quando il terrorismo e la guerra sembrano spegnere la luce sulla possibilità di incontro nonviolento tra le culture, è necessario che ogni sforzo delle persone che hanno responsabilità educative sia orientato a insegnare ai giovani a dialogare e ad ascoltare. Ma il dialogo è difficile; non ci si può appellare soltanto ai buoni sentimenti, a una generica tolleranza, alla voglia di dialogare. Il dialogo si impara, con pazienza e tenacia, senza arrendesi di fronte agli insuccessi, senza mai cadere nella tentazione di semplificare. E soprattutto occorre dialogare con chi non ha voglia di dialogare, con chi ritiene che la violenza e il razzismo siano la strada migliore. In fila all’Ufficio postale o seduti al ristorante, quando il nostro interlocutore protesta contro “questi negri” o “questi albanesi” è facile cedere alla tentazione di tacere, di lasciare correre. E’ proprio in questi momenti che la debole arma del dialogo deve farsi valere. Non bisogna lasciar cadere nessuna occasione per cercare di spargere il virus del dialogo e del confronto; del resto, se non si ha il coraggio di discutere le battute razziste di un amico o di un conoscente, come si potrà pensare di dialogare con chi non si conosce, come si potrà pensare di insegnare il dialogo ai nostri figli e alle nostre figlie?
    Occorre però anche comprendere che cosa non è il dialogo: il dialogo non è una partita a punti, non è una gara in cui qualcuno deve vincere per forza. Non si tratta di dialogare per avere ragione, non si tratta di cercare di colpire l’avversario e affondarlo come in una battaglia navale. La discussione se deve essere fatta, deve avvenire in nome dell’oggetto di discussione. Il fatto di non dialogare per avere ragione a tutti i costi non significa però che nel dialogo non dobbiamo portare le nostre ragioni e difenderle tenacemente. Abbiamo sentito a volte la frase: “Se io inizio a dialogare pensando che la mia idea sia migliore della tua ti faccio violenza”: a noi sembra una tremenda sciocchezza. Semmai se io finisco il dialogo rimanendo ancorato alle mie idee e senza modificarle nemmeno di un soffio, allora è probabile che il dialogo sia stato inutile. Ma il desiderio di confrontare le mie idee con quelle di altri/e ha senso se io ho delle idee e se ho il coraggio e la forza di metterle sul tavolo e discuterle. Occorre tenere sempre presente che le persone cambiano idee, atteggiamenti e comportamenti con estrema lentezza, e le culture sono ancora più lente; il dialogo deve rispettare questi tempi.
    In secondo luogo occorre sempre ricordare che il dialogo non è una confessione. Non possiamo obbligare nessuno a dialogare. La prima regola per il dialogo è che i dialoganti decidono l’oggetto del dialogo e nessuno può mai essere obbligato a parlare di ciò che non vuole esporre. Il rispetto della privacy, il rispetto del silenzio dell’altro/a è l’inizio di un dialogo fecondo.
    Infine, il dialogo non è una registrazione, non è semplicemente un prelievo di sapere dall’altro. Non si dialoga per uscire dal dialogo arricchiti di dati e di notizie ma per mettere in comune qualcosa. Ascoltare l’altro/a significa ricercare una consonanza con lui/lei; l’ascolto si dà sempre nei confronti di un oggetto che risuona e rispetto al quale occorre saper accordare le proprie corde segrete; il dialogo è sempre consonanza tra vibrazioni, ricerca di unisono.
    Dove andare a dialogare? Sotto una tenda, al bar, in cantina? Lo spazio non è mai indifferente rispetto al dialogo e alle sue possibilità e limiti. In Senegal, nella regione della Casamance, ci venne mostrata la capanna del dialogo, dove i capi del gruppo si riunivano per discutere, appianare le liti, prendere una decisione. Notammo subito che il soffitto era bassissimo, cosicché una persona non poteva stare in piedi nella capanna. Ci dissero che questa scelta architettonica era stata fatta per rispetto del dialogo “così nessuno poteva alzarsi in piedi e urlare". E da noi dove si dialoga? Certo in Parlamento nei Consigli Comunali, nelle Istituzioni, da non sottovalutare anzi da rimarcare nel loro ruolo importante per decidere le sorti delle persone. Ma esistono altri spazi di dialogo, nascosti e difficili da individuare: spesso nei paesi è attorno alla fontana che le donne intrecciano loro discorsi, alternativi rispetto all’ordine maschile e patriarcale.
    E’ importante allora che soprattutto i giovani e i giovanissimi imparino a ritagliarsi i loro spazi di dialogo e che gli adulti sappiano rispettarli. Ma perché vi sia dialogo nelle nostre città occorre che vi sia vita, vita vera. Una città invivibile è una città senza dialogo. Una città dove i bambini e le bambine non possono giocare in strada, non possono abitare i giardini, una città dove c’è il divieto di portare animali nei parchi pubblici, dove il gioco dei bambini è regolamentato più severamente dello spaccio di droga, una città dove dopo le 9 di sera c’è il coprifuoco e non si trova lo straccio di un bar aperto, una città dove se ci si siede sui gradini di un monumento a parlare il vigile di turno brandisce il blocchetto delle multe, una città dove si eliminano gli spazi verdi per costruire i Centri Commerciali e poi ci si lamenta se i ragazzi ci vanno a passeggiare, insomma una città che sottomette tutti gli scambi umani all’unica regola del profitto non è certo una città per dialogare. Per poter dialogare occorrono spazi di vita; vita autentica, vita vissuta, vita all’insegna non del denaro ma della possibilità di crescere insieme.
    Dopo lo spazio, il tempo. Se continuiamo a pensare di proporre ai nostri figli e alle nostre figlie un tempo di vita in cui ogni istante sia finalizzato al profitto (“fai questo perché ti serve o ti servirà da grande”), non potremo poi lamentarci se costruiremo una società senza dialogo. Il tempo del dialogo è il tempo dell’inutilità, perché si dialoga anche per il gusto di dialogare e di conversare. Ma la nostra civiltà occidentale ha paura del tempo vuoto, del tempo che si potrebbe dedicare al dialogo, del tempo perso: lo si capisce quando si fa la fila per comperare il gelato in spiaggia, e sembra che le persone non sopportino di perdere dieci minuti all’interno del tempo della vacanza, che dovrebbe essere il tempo perso per eccellenza. La stessa cosa dovrebbe accadere per i tempi della scuola: certo a scuola si va per imparare ed è importante che gli/le insegnanti prevedano tempi specifici per imparare cose specifiche: ma la scuola non è la corsa dei cavalli, e i genitori dovrebbero capire che l’inserimento di un bambino o una bambina straniera in una classe non rallenta i tempi dell’apprendimento (grandissima scemenza) ma regala ai compagni e alle compagne una straordinaria possibilità di confronto e di crescita che proprio i tempi porosi della scuola permettono.
    Abbiamo già detto sopra che non ci aspettiamo che il dialogo da solo risolva i problemi che rendono difficile un confronto tra le culture. Si tratta di problemi strutturali che devono essere risolti in sede politica e con un confronto internazionale; semmai il dialogo può contribuire a scrivere una agenda dei problemi e delle questioni che poi dovranno essere affrontate: l’ecologia, il razzismo, l’educazione, la questione del possesso della terra, del consumo, dell’acqua. Ma il dialogo, oltre a costituire il punto di partenza per costruire un mondo migliore costituisce uno straordinario strumento educativo, come il grande filosofo greco Platone aveva capito dal momento che tutte le sue opere sono strutturate sotto forma di dialogo.
    E quando dal dialogo emergono le cose brutte, le violenze, le tristezze? A quale età è giusto che i bambini si confrontino con il male e il dolore dell’altro/a? Anzitutto siamo convinti che se gli adulti mettessero nella lotta contro le guerre e le violenze la stessa energia che usano per nascondere il male ai ragazzi sarebbe vicina l’alba di un mondo migliore. I bambini e le bambine respirano la violenza nella vita quotidiana e solamente il dialogo permette di darle un contesto e un senso, di spiegarla, magari di cercare di eliminarla.
    Siamo convinti che non parlare del male non significa eliminarlo; sono i bambini piccoli a credere che le cose brutte scompaiono se si chiudono gli occhi. Gli adulti sanno invece che il male rimane, c’è, e dialogare su di esso, ascoltare le testimonianze altrui, trovare le parole per consolare chi sta male abitua a combattere il mostro dell’indifferenza. Imparare a capire il dolore dell’altro/a è l’essenza del dialogo. Cogliere il dolore dell’altro uomo o dell’altra donna, dell’animale o della pianta come sottospecie del dolore che ho provato io, significa ulteriormente ingabbiare il dolore dell’altro/a nel delirio della mia onnipotenza o peggio della mia impotenza. Io credo che l’altro/a soffra perché ne so decifrare i linguaggi taciuti, so, con lui e solo con lui, con lei e solo con lei, ricostruirne le cause, tratteggiarne le possibili vie d’uscita. Il dolore di quelli Primo Levi chiama i sommersi è comprensibile solamente a partire da un atto di fede, così come il dolore dell’amico che ha perso un fratello in un incidente stradale: a me non è mai successo, ma credo, so per certo che stai male, di un dolore irriducibile a me, di un dolore tutto tuo e perciò davvero nostro, come comune destino umano dell’essere ingiustamente piegati da dolori che ci chiudono in noi stessi. Questo è il risultato più straordinario della terribile e meravigliosa fatica del dialogare con gli altri, con le altre, con se stessi.


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