Franco Garelli
(NPG 1976-12-6)
È sufficiente un dialogo con i giovani o l'analisi del contenuto degli organi di informazione nazionale per rendersi conto dei problemi che incontrano i giovani nell'affacciarsi al mondo del lavoro. Non si tratta tanto di problemi di «adattamento», di difficoltà di ambientazione. Il problema principale sembra riguardare la stessa possibilità di lavorare, di trovare un posto di lavoro, di ottenere uno sbocco stabile e adeguato dopo il periodo degli studi.
I titoli dei quotidiani e dei settimanali sono allarmistici: «Giovani senza un lavoro», «I giovani sono i più colpiti dal crollo delle assunzioni», «Fondo di 1000 miliardi per i giovani senza lavoro», «Questo è il piano sindacale per dare lavoro ai giovani», «Laureati e disoccupati», «I proletari della laurea».
Politici, sindacalisti, forze vive del paese si pongono il problema del lavoro dei giovani. Qualcuno paventa che la non soluzione di tale problema possa creare tra qualche anno una esplosione di rabbia incontrollata, un '68 ancor più radicale, con gravi ripercussioni per l'equilibrio e la stessa sopravvivenza del sistema. Qualche altro si augura che tutto ciò avvenga, che i giovani ancora una volta funzionino da detonatori delle contraddizioni del sistema sociale e che nella presente circostanza il botto sia determinante nel far saltare un sistema che basa il suo equilibrio nella gestione dello stesso stato perenne di crisi. Tutti concordano nel definire il problema dell'occupazione giovanile come nodo vitale per lo sviluppo del paese.
In questo articolo cercheremo di capire la consistenza reale di tale fenomeno, le sue principiali caratteristiche e le conseguenze che esso esercita nell'inserimento professionale e sociale dei giovani.
FATTI COME PROBLEMA
Alcuni dati a livello nazionale possono fornirci il quadro della situazione.
I primi dati: verso il 1970
L'ISTAT (Istituto Centrale di Statistica) denunciava che la situazione al 1970 presentava 377.000 giovani dai 14 ai 24 anni come disoccupati o in cerca di prima occupazione. Se consideriamo che tale cifra rappresentava il 61% del totale dei disoccupati in Italia appare evidente come a tale data la grande maggioranza dei disoccupati fosse costituita da giovani. Considerando inoltre i soli giovani dai 14 ai 25 anni il rapporto tra disoccupati e forza-lavoro risultava di oltre il 10%. Altri dati complementari mettevano in rilievo come la disoccupazione giovanile toccasse punte elevate nelle regioni meridionali e come i giovani disoccupati rivelassero un grado di istruzione mediamente molto superiore a quello degli occupati e dei disoccupati di tutte le età.
Tali dati venivano confermati e in parte accentuati da una ricerca (indagine ISVET) sulla condizione giovanile in Italia (dai 14 ai 25 anni) effettuata all'inizio degli anni '70 su un campione nazionale rappresentativo di oltre 7.500 giovani.
I giovani risultanti disoccupati o in cerca di prima occupazione si avvicinavano al 15%. I tassi più elevati di disoccupazione prolungata oltre i tre anni si registravano per chi ha in possesso al massimo la licenza elementare e i rischi di disoccupazione apparivano egualmente marcati (fino a due anni di attesa) per chi ha in possesso il titolo di studio più elevato e in particolare di diploma di scuola media superiore.
I tassi di disoccupazione giovanile apparivano via via minori a mano a
mano che aumentava il reddito familiare e in funzione del titolo di studio più elevato del padre.
I giovani appartenenti alle famiglie più ricche (come reddito e come ricchezza accumulata in precedenza) sembravano avere maggiore facilità per utilizzare alcuni canali di collocamento, tra cui la scuola stessa, oltre al concorso pubblico o privato o al contatto diretto con imprese.
La possibilità di rimanere disoccupato inoltre sembrava maggiore per chi aveva iniziato molto presto l'attività lavorativa: ben il 12.9% dei giovani intervistati aveva dichiarato di avere iniziato il lavoro prima dei 14 anni e il 30.8% tra i 14 e i 15 anni. Tra di essi figuravano con maggior frequenza coloro che erano in possesso al massimo di licenza elementare, che appartenevano a famiglie con reddito basso, con capifamiglia in possesso al massimo di licenza elementare e coloro che avevano rivestito la qualifica di operaio comune e di apprendista.
L'analisi dei dati permetteva di collegare i rischi di disoccupazione giovanile all'abbandono prematuro degli studi, in particolare per le ragazze, per i giovani meridionali, per i giovani attualmente disoccupati e per i giovani occupati in posizione di operaio comune [1].
LA SITUAZIONE ATTUALE
Dall'inizio degli anni '70 ad oggi la situazione già precaria è andata ancor più deteriorandosi.
Una pubblicazione dell'Ufficio Statistiche della Comunità Europea (1975) riguardante le forze di lavoro dei vari paesi indica il tasso di disoccupazione (14-15 anni) in Italia a livello del 18.7% contro percentuali decisamente inferiori negli altri paesi. Se si considerano i giovani dai 20 ai 25 anni il tasso di disoccupazione si rivela del 12.6%. I giovani senza lavoro o in attesa di prima occupazione risulterebbero pertanto nel 1973 oltre 700.000 unità a livello di 14-19 anni e oltre 400.000 nell'arco dei 20-25 anni. Ovviamente in tale numero non sarebbero compresi i giovani che dichiarano di proseguire gli studi, in tal caso classificati come studenti. La situazione allarmante trova conferma anche da altre fonti.
Nel 1975 i dati Istat riferiscono che i giovani in cerca di lavoro sono addirittura il doppio rispetto agli adulti.
Un'altra indagine dello stesso anno rivela che sono alla ricerca di un'occupazione 819 mila persone, di cui 496 mila uomini e 323 mila donne: 770 mila sono giovani, di cui 620 mila in cerca di prima occupazione e 150 mila disoccupati, collocati in prevalenza (quasi il 60%) nel Sud e nelle Isole [2].
Pur in assenza di una omogeneità di questi dati tra loro (conseguenti a tecniche ottiche diverse di rilevazione e alla difficoltà di fissare esattamente il fenomeno) ci troviamo di fronte ad una realtà (quella della disoccupazione giovanile) che si rivela chiara nelle sue linee ed evidente anche nella sua progressione e drammaticità.
La disoccupazione intellettuale
Nell'ambito del fenomeno della disoccupazione giovanile quella intellettuale (riguardante cioè i neolaureati e i diplomati) rivela tassi significativi e caratteristiche singolari.
Oltre a quelli già riportati possiamo riflettere su alcuni dati che mettono a fuoco il fenomeno.
In base ad una ricerca svolta tre anni fa dall'Opera Universitaria dell'Università di Milano, ad una offerta di quasi 73.000 laureati si è contrapposta una domanda di circa 47.000 unità, con una eccedenza pertanto di oltre 25.000 persone che di conseguenza hanno dovuto cercare una occupazione in posti di ripiego e non in sintonia con le attese maturate nel corso degli studi [3].
Sempre in base alla stessa ricerca il discorso sul futuro non lascia presagire orizzonti più rosei. A meno di cambiamenti radicali per quanto riguarda il sistema scolastico e il processo economico e produttivo del paese, si prevede che per il 1978 l'eccedenza tra domanda ed offerta di laureati sfiorerà le 58.000 unità.
Pur in presenza di una leggera caduta dell'iscrizione all'Università registratasi nell'ultimo anno accademico, la previsione riportata sembra mantenere la sua validità, anche se i termini del fenomeno possono risultare stimati con un leggero eccesso.
I motivi che spingono i diplomati ad accedere all'Università e il fenomeno della disoccupazione dei diplomati stessi sono il comune oggetto di due studi recenti a livello nazionale (uno indagante il fenomeno al Nord e
l'altro al Sud), effettuati su un campione rappresentativo complessivamente costituito da 1.300 giovani periti industriali contattati a 3-4 anni dalla data di conseguimento del diploma. Tale accorgimento era conseguente all'esigenza di valutare la possibilità e la stabilità di occupazione di giovani diplomati che avessero superato le difficoltà dell'inserimento professionale dovute al periodo eventuale del servizio militare e all'assestamento occupazionale dopo il diploma [4].
Ad una prima analisi dei dati, le due ricerche (la cui discesa sul campo è stata effettuata negli anni '72 e '73 e la cui pubblicazione è avvenuta nel 1973 e nel 1975 sulla rivista «Inchiesta») evidenziano tale situazione:
La tabella riportata non lascia alcun dubbio sul divario tra Nord e Sud circa le differenze di possibilità di lavoro e pertanto di inserimento professionale. In rapporto a quasi il 60% dei giovani diplomati inchiestati al Nord che trovano una occupazione, solo 1/3 dei giovani del Sud si dichiarano occupati.
Il ripiego è evidente nell'alta percentuale di iscritti all'Università e di giovani che si dichiarano disoccupati. Di questi la grande maggioranza è composta da persone in cerca di prima occupazione.
Ma aldilà di questo lampante divario Nord/Sud, così come emerge dalle indagini, la percentuale dei disoccupati appare assai elevata in tutti e due gli ambiti considerati. 100 giovani su 700 al Nord su 600 al Sud affermano di non avere un lavoro a 3-4 anni dal conseguimento del diploma di perito industriale.
Di questi giovani (evidenzia la ricerca svolta al Nord) il 40% di fatto non svolge alcuna occupazione e gli altri sono impegnati in lavori saltuari o temporanei, caratterizzantisi da un assai basso ricavato mensile. In altri termini una situazione di estrema precarietà con ripercussioni non indifferenti a livello psicologico per quanto riguarda la realizzazione sociale e professionale. E ancora queste indicazioni evidenziano da parte del giovane il tentativo di uscire da questa situazione di disoccupazione accettando strade disperate e precarie che sembrano essere l'unico canale di sbocco in tale situazione.
Disoccupazione per pretese troppo elevate?
Può sorgere ovviamente il dubbio che tutta questa fascia di giovani disoccupati siano tali perché si rivelano «difficili» nei confronti del posto di lavoro. Le attese cioè maturate sui banchi della scuola media superiore, che non sono altro che il prolungamentto delle attese della stessa famiglia a cui il giovane appartiene, avrebbero talmente affinato i «desiderata» dei diplomati da non renderli disponibili se non per un lavoro in cui siano adeguatamente appagate alte istanze di carattere retributivo, professionale, ecc. Per cui la disoccupazione dei diplomati potrebbe essere considerata come un volontario parcheggio da parte dei giovani in attesa dell'occasione di una posizione sociale e professionale adeguata alla propria aspettativa.
La ricerca svolta al Nord affronta direttamente (e quella al Sud indirettamente) il problema. Di fatto la maggioranza dei diplomati ITI disoccupati non hanno ricevuto offerte di lavoro di nessun tipo, né coerenti col titolo di studio né incoerenti. Inoltre essi hanno attivamente ricercato posti di lavoro (o attraverso i canali delle inserzioni suoi quotidiani, o peregrinando per le aziende, o facendo i pendolari da un concorso pubblico ad (un altro). L'impressione quindi è che non tanto le attese siano difficili quanto vi sia una eccedenza di offerta di lavoro rispetto alla domanda, eccedenza che pone tutti quelli che offrono forza lavoro in una situazione di estrema debolezza, dando la possibilità a chi «domanda» di poter selezionare tra il vasto parco degli offerenti.
Oltre 400 giovani tra quelli inchiestati sono inscritti all'Università e quindi vengono considerati come «studenti». Anche in questo caso non si può interpretare tale indicazione come non indisponibilità da parte dei giovani inchiestati ad accettare ruoli professionali non coerenti al proprio livello di studi col conseguente tentativo di accedere a livelli professionali più alti conseguendo la laurea. La ricerca effettuata al Nord si occupa anche di questo problema.
La rilevante quota di abbandono dell'Università dopo qualche anno di frequenza (anche in conseguenza dell'aver trovato lavoro); le risposte dirette degli «studenti» che in buona parte si definiscono universitari «forzati»; il fatto che i «disoccupati» non pensino di trovare uno sbocco alla loro situazione iscrivendosi all'Università (anche perché le condizioni economiche non lo permetterebbero a molti): tutti questi elementi lasciano intravvedere come l'Università non venga vista da parte della maggior parte dei diplomati come una soluzione disponibile e capace di risolvere il problema occupazionale e come l'accesso ad essa venga dai più considerato come un forzato ed effettivo parcheggio. In attesa di un'occupazione.
Il quadro di riferimento per leggere il fenomeno della disoccupazione
Da quanto detto risulta come il taglio che caratterizza le analisi in questione sia opportunamente ampio e tenda a valutare il fenomeno della disoccupazione giovanile nel quadro delle «attuali contraddizioni fra sistema scolastico e strutture produttive indotte dal cosiddetto fenomeno di scolarizzazione di massa» [5].
Tre sono le componenti di tali contraddizioni. Anzitutto il sempre maggior gap (a livello quantitativo) tra offerta di forza lavoro qualificata prodotta dalla scuola e domanda delle strutture produttive. La scuola cioè produce forza-lavoro «qualificata» in quantità maggiore di quella assorbita e richiesta di fatto dalla struttura produttiva. In secondo luogo il gap tra strutture scolastiche e strutture produttive si è accentuato anche a livello qualitativo. Mentre cioè l'ambito produttivo ha subito profonde evoluzioni tecnologiche e organizzative prefigurando anche mutati e nuovi ruoli professionali, la struttura scolastica da un lato deve fare i conti con l'immobilismo dei programmi e con l'impasse di una burocrazia non funzionale, e dall'altra si ritrova tutti i problemi di una scuola di massa in assenza di strutture e di una programmazione adeguate. In terzo luogo emerge la contraddizione «motivazionale». La scuola è sempre stata considerata come canale di mobilità sociale e queste attese trasmesse dalle famiglie ai propri figli provocano cocenti delusioni di fronte alla scoperta dell'impossibilità di tale canale ad assolvere a questa funzione. Per cui alla motivazione della mobilità non si sostituisce altra motivazione se non la delusione ed emergono interrogativi sulla funzione dello studio e dell'istituzione scuola, interrogativi che contribuiscono a minare il consenso al sistema sociale e che prefigurano una situazione di disintegrazione sociale e di emarginazione da parte dei giovani che nella loro esperienza hanno maturato la coscienza dell'acutezza e del carattere strutturale delle contraddizioni sociali.
PROSPETTIVE DI INTERPRETAZIONE SOCIO-CULTURALE
Perché tanta insistenza sul problema della disoccupazione giovanile? Perché crediamo che oggi non si possa parlare della professione dei giovani ignorando che il loro primo problema dopo il periodo degli studi è quello di trovare un lavoro e di non perderlo. Nel presente momento storico in cui scarseggia la domanda di forza-lavoro per alcune categorie sociali e in particolare per chi si affaccia per la prima volta al mondo produttivo, i giovani stessi avvertono che il lavoro è un mezzo vitale per la propria emancipazione, per la propria autonomia, per iniziare un effettivo inserimento a livello sociale. E ciò lo avvertono sia quanti vivono il «parcheggio», per i quali lo stare alla finestra significa l'essere emarginati dal sistema sociale e pagare di persona un isolamento e un confino dove è difficile la partecipazione e dove la dipendenza segna il marchio della propria condizione, sia quanti già inseriti a livello lavorativo sentono vicino e possibile il pericolo della disoccupazione a minaccia della propria iniziale sicurezza.
Primo: il posto di lavoro
L'analisi delle attese dei giovani nei confronti del lavoro rivela questa preoccupazione di disoccupazione e questa difficoltà oggettiva di occupazione.
La maggioranza dei giovani oggi si rivela assai sensibile al problema della continuità e della sicurezza del lavoro, di un adeguato livello retributivo, della stabilità dell'azienda, relegando in una posizione marginale le attese riguardanti la soddisfazione nel lavoro.
A livello teorico, di principio, si può considerare importante essere soddisfatti. A livello pratico si evidenzia un atteggiamento realistico per cui prevale di fatto nelle proprie scelte un metro prammatico e di adeguamento alla situazione. Il problema della soddisfazione non sembra neanche più essere posto. L'esperienza maturata, le disillusioni, le frustrazioni accumulate, consigliano una maggior concretezza e l'abbandono di sogni velleitari.
Non è detto che i giovani in particolare (e in generale coloro che lavorano) siano tutti e sempre coscienti di questo atteggiamento realistico nei confronti del lavoro e che esso dipenda solamente o principalmente dalla loro volontà. I giovani che noi consideriamo sono soggetti attivi e passivi in questa società. Soggetti che immessi nella presente struttura e cultura ne evidenziano e ne trasudano anche le contraddizioni. In una società che sempre meno si interroga sul fine ultimo della sua produzione, che si dimostra «razionale» a livello dei mezzi e strumenti atti a realizzare lo sviluppo produttivo ma che rifiuta di mettere in discussione le istanze ultime dello sviluppo stesso, il fatto che parecchie persone e categorie sociali si adeguino di fatto (chi più e chi meno, chi prima e chi dopo) a questa logica non fa che evidenziare il potere condizionante di tale struttura sociale sui soggetti che la costituiscono. Tutto ciò ovviamente senza molta consapevolezza da parte dell'uomo. La parcellizzazione del lavoro umano; l'essere confinato in un piccolo momento della produzione senza avere alcun bisogno di tenere in considerazione e capire il quadro generale della stessa; la diminuzione effettiva delle responsabilità e della creatività; l'essere in balìa di decisioni che coinvolgono tutti e che superano la possibilità di conoscenza dei termini dei problemi e di partecipazione; l'esperienza della complessità dei problemi e della difficoltà-impossibilità di avviarli a soluzione: tutto ciò che caratterizza l'attuale divisione del lavoro industriale e l'organizzazione sociale abilita l'uomo a non considerare fatti e problemi in senso ultimo, in senso ampio, ma a limitarsi a logiche parziali nel piccolo spazio che gli è riservato. E quando i soggetti collettivi si accorgono degli aspetti negativi di tale organizzazione nascono le lotte per combattere l'alienazione e per affermare l'istanza di partecipazione.
Lavoro e vita quotidiana
Le nostre riflessioni si muovono nell'ottica che evidenzia la centralità del lavoro nella vita dell'uomo. La vita delle persone dipende in modo fondamentale dal lavoro. E ciò non solamente perché il salario e lo stipendio sono a sostegno della vita dell'individuo e della famiglia, ma anche perché il lavoro scandisce il ritmo della vita del lavoratore, costituisce l'attività che assorbe in continuità molte energie, fissa il livello di vita, stabilisce il margine delle conoscenze, determina i rapporti sociali. In altri termini l'uomo ruota attorno al lavoro e riversa sulla famiglia e sul tempo libero le istanze positive e negative che contraddistinguono la sua vita lavorativa. La natura e le caratteristiche del lavoro svolto hanno influenza sul carattere sociale e sulla personalità dell'individuo, sul tipo e grado di partecipazione alla «comunità», sul suo senso di dignità e autostima. Riannodando queste considerazioni all'ambito giovanile si avverte come da un lato l'insicurezza derivante dalle difficoltà occupazionali abbia a minare in generale l'atteggiamento e il comportamento del giovane e dall'altro come, sia per chi cerca lavoro, sia per chi di fatto è occupato, prevalga un atteggiamento di realismo e di integrazione sociale che sembra estendersi a tutte le dimensioni della vita.
Dal realismo all'apatia
La condizione di incertezza sociale, di prevalenza di un atteggiamento realistico e prammatico, spinge la maggioranza dei giovani in uno stato di apatia o scarso interesse e partecipazione che si estende dal mondo del lavoro o studentesco a quello del tempo libero.
È sufficiente a questo proposito rifarsi alla ricerca suaccennata riguardante i giovani diplomati I TI del Sud intervistati a 3-4 anni dal conseguimento del diploma. Analizzando la partecipazione politica e il fenomeno del tempo libero di tali giovani chi conduceva l'inchiesta così commentava: «Il dato forse più rilevante è, in questa prospettiva la carenza di partecipazione e di impegno dichiarato, sia sul piano culturale che su quello politico. L'uso del tempo libero è generalmente disimpegnato, assai più ricco di iniziative consumistiche che culturali; l'impegno politico tradizionale in termini di iscrizione e partecipazione alla vita del partito, del sindacato, del movimento politico è assai basso. (...) Ambiguità di ruoli, squilibri di status, incertezza del proprio futuro, si combinano nella condizione giovanile in Italia e concorrono a creare una situazione di "indeterminazione sociale"» [6].
Il lungo parcheggio
L'età della condizione giovanile si allunga sempre più, sino a toccare l'arco dei 25-30 anni della vita dell'uomo. Ci si inserisce cioè nella società (con un ruolo sociale e con una precisa occupazione) ad una età sempre più elevata, per cui gli anni che caratterizzano la condizione giovanile tendono ad aumentare e con essi uno stato di insicurezza, di apatia, indifferenza del giovane, che in seguito a varie prove di inserimento nella società, si accorge di aver a che fare con meccanismi più potenti della sua volontà. Il dramma del giovane si concretizza da un lato nella consapevolezza di una raggiunta maturità (affettiva, culturale, conoscitiva, fisica...), a cui fa riscontro la considerazione che per alcuni versi gli riserva la società (come individuo da catturare per il consenso, e come persona che consuma), e dall'altra nell'impotenza di riuscire a dare a tale consapevolezza un ruolo preciso all'interno della società (inserimento effettivo) che permetta un equilibrio nella vita e nelle attese del giovane.
Verso una realizzazione di sè nel tempo libero
Le scelte concrete di vita mortificano e sconfessano gli intenti ideali coltivati dal giovane proprio in quanto giovane. Nasce così la costatazione della difficoltà dell'impatto col sociale, la sfiducia verso le istituzioni tradizionali (scuola, famiglia e stato) ritenute incapaci di prevenire e avviare a soluzione i problemi, l'esperienza di ripiegamento delle attese. Così, se ci si vuole salvare, occorre in qualche modo trovare nuovi appigli a cui aggrapparsi, appigli che nello stesso tempo reggano e siano a portata di mano. Di qui nasce l'orientamento verso i piccoli obiettivi, verso gli spazi corti di realizzazione. Così si cercano sbocchi di interesse a livello della propria vita privata, si riducono tendenzialmente i rapporti sociali ai rapporti amicali, si moltiplicano gli hobbies e le esperienze, si coltivano spazi autonomi di applicazione. Si creano in altri termini ancore di salvezza a cui la maggioranza dei giovani fa riferimento per dare un significato alla vita che essi conducono e alla loro condizione giovanile. Siamo cioè di fronte, secondo tale interpretazione, a una spia considerevole della crisi vissuta oggi a livello giovanile. I giovani si rifugiano in spazi privati di realizzazione – visibili per altro a livello di rapporti amicali e di tempo libero – e in base a questi cercano di realizzarsi perché non riescono a trovare nel quotidiano scopi che permettano loro un diverso investimento di energie e di ideali. Saremmo pertanto di fronte a giovani ripiegati su di sé, che in questo atteggiamento di impossibilità di tendere ad altre mete, preferiscono trovare una relativa e ridotta realizzazione negli spazi e nei modi suindicati.
L ovvio che in questo modo gli spazi privati di realizzazione possono manifestarsi funzionali all'attuale equilibrio del sistema sociale. E ciò sia perché a livello di tempo libero e di rapporti amicali l'individuo ricarica le proprie energie e attenua l'alienazione e il disinteresse derivati dal proprio inserimento socio-professionale, sia inoltre perché così facendo il giovane invece di partecipare ed essere attivo nel luogo e momento che più determina la propria condizione (il lavoro), avvalla di fatto uno stato di indifferenza e apatia da scaricare in spazi autonomi di realizzazione.
Reazioni alternative?
Non è che tutti i giovani rivelino tale atteggiamento-comportamento nei confronti della società e del mondo del lavoro. Se abbiamo riservato molta importanza a quelli che così si caratterizzano è perché riteniamo che essi rappresentino la maggioranza dei giovani d'oggi.
Accanto a questi una parte di giovani fa sfociare la propria analisi e insoddisfazione in azioni collettive tese a mutare le attuali condizioni sociali e matura nei confronti dell'organizzazione sociale e produttiva atteggiamenti assai critici e contestativi che costituiscono lo sbocco della loro lotta politica.
Partendo dalle contraddizioni che li riguardano da vicino (contraddizioni viste come strutturali e non tanto come congiunturali) tali giovani rivendicano nei confronti del sistema sociale l'esigenza di informare la base sui problemi più importanti, l'istanza di partecipazione diretta alle decisioni che riguardano da vicino la propria condizione, l'attenzione ai problemi della collettività rispetto al prevalere continuo degli interessi privati, ecc. E informando di tutto ciò non soltanto l'eventuale ambito professionale da essi occupato (o quello studentesco) ma anche la sfera della famiglia e del tempo libero, in modo che l'ambito dei consumi e dell'integrazione sociale non abbia a contraddire l'impegno profuso nelle lotte nella fabbrica o nella scuola.
Un'altra fascia di giovani inoltre, reagisce alla difficoltà di inserimento sociale e professionale, con un atteggiamento di rifiuto della società che si esplica a livello distruttivo e di negazione di valori. L'aumento dei crimini minorili e dei giovani, i furti, il formarsi di bande giovanili che operano nei quartieri delle metropoli, il dilagare della violenza... può anche avere questa matrice di mancanza di integrazione sociale. È ovvio che la possibilità di lavorare regolarmente e con sufficiente sicurezza circonda l'individuo di una catena di relazioni e di responsabilità che lo rendono in qualche modo solidale con la struttura di cui fa parte.
NOTE
[1] Queste indicazioni sono fornite da R. SCARPATI (a cura di), La condizione giovanile in Italia, Documenti ISVET, Roma, 1971, pp. 208-237. A questo livello confronta anche L. FREY, Occupazione e disoccupazione giovanile in Italia oggi, Documenti ISVET n. 37, Roma, 1971.
[2] Confronta G. Fossi, Questo il piano sindacale per dare lavoro ai giovani, in «La stampa» 26 agosto 1976.
[3] Per un approfondimento di tale fenomeno confronta AA.Vv., Laureati e disoccupati. Incognite e prospettive dall'Università al mondo del lavoro, Firenze, Val-lecchi, 1975.
[4] Le ricerche a cui si fa riferimento sono: P.G. CORBETTA, Istruzione tecnica e mercato del lavoro, in «Inchiesta», III, luglio-settembre 1973, n. 11, pp. 45-63; R. MOSCATI, Istruzione tecnica e mercato del lavoro nel Mezzogiorno, in «Inchiesta», V, gennaio-marzo 1975, n. 17, 42-58.
[5] P.G. CORBETTA, op. cit., p. 45.
[6] R. MOSCATI, op. cit., p. 54.