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    (NPG 2016-01-49)

    Un saggio orientale stava spiegando ai suoi discepoli che cosa fosse l’inferno: “È come un grandissimo altopiano sul quale sono uomini e donne; sono spogliati e affamati e a pochi metri di loro si spalanca un profondo burrone nel quale ci sono dei pani appena sfornati, freschi e profumati; le persone hanno a loro disposizione delle bacchette per servirsi del pane, ma ogni bacchetta è lunga 2 metri, così che possono prendere il pane ma non riescono mai a portarlo alla bocca e hanno sempre fame”. “Maestro, è terribile” disse uno dei discepoli. “E il paradiso?”. “È come un grandissimo altopiano sul quale sono uomini e donne; sono spogliati e affamati e a pochi metri di loro si spalanca un profondo burrone nel quale ci sono dei pani appena sfornati, freschi e profumati; le persone hanno a loro disposizione delle bacchette per servirsi del pane, ma ogni bacchetta è lunga 2 metri, così che possono prendere il pane ma non riescono mai a portarlo alla bocca e hanno sempre fame”. “Ma come, maestro” protestarono i discepoli “ma allora tra inferno e paradiso non c’è differenza”. “Sì, c’è”, concluse il saggio: “nel paradiso ognuno imbocca il suo vicino”.

    La convivenza non è una scelta ma un dato di fatto; non c’è alternativa: il XXI secolo sarà il secolo nel quale le differenze vivranno fianco a fianco, che lo si voglia o no. Semmai la scelta che gli esseri umani possono compiere è tra una convivenza pacifica e una drammatica violenza reciproca. Ci sentiamo spesso ripetere che la convivenza tra civiltà è impossibile: vorremmo fosse chiaro a tutti che prendere sul serio questa affermazione significa accettare la montagna di morti che una convivenza non pacifica provocherà. I flussi migratori che riguardano milioni di esseri umani non si interromperanno per decreto o pattugliando le coste; occorre pensare a strutture adatte ad ospitare queste persone, il che significa anche pensare a nuovi modi di vivere. È davvero difficile giustificare un modello di sviluppo che crea ogni giorno occasioni di spreco, producendo milioni di tonnellate di rifiuti mentre un terzo dell’umanità muore letteralmente di fame e di sete. La necessaria convivenza ci deve portare a ridiscutere il nostro modello di sviluppo: e questo soprattutto a partire dall’educazione dei giovani e dei giovanissimi.
    Educare alla convivialità significa anche educare all’essenzialità e alla sobrietà, educare ad avere meno, a possedere meno, il che non significa elogiare la povertà ma distinguere la reale ricchezza di corpo e di spirito dalla falsa ricchezza materiale. Il mondo occidentale è letteralmente assediato dalle cose: basta fare una gita in un deposito di rifiuti per rendersene conto. Solo gli imballaggi, spesso completamente inutili, riempiono ogni anno centinaia di ettari di terreno con la loro ingombrante presenza. La nostra cassetta delle lettere trabocca involucri di plastica contenenti riviste che mai leggeremo, le nostre bevande sono contenute in bottiglie contenute un confezioni da tre contenute in scatoloni da cento. Assistiamo alla clonazione delle cose che lungi dall’essere moltiplicazione delle possibilità di intervento sul reale è clonazione dell’inutile: i ragazzi a scuola comperano antologie di 1000 pagine delle quali ne studieranno 50, e sfoggiano in prima elementare pastelli a duecento sfumature che non servirebbero nemmeno a un pittore affermato.
    Solo a partire da una ridefinizione del nostro rapporto con le cose che ci circondano si potrà pensare di costruire un mondo conviviale: abbiamo assistito allo sguardo sofferente e scandalizzato di amici africani che allo stadio vedevano in azione per ore gli irrigatori per il prato: ”L’acqua che voi sprecate per una partita di pallone per noi servirebbe a dissetare un intero villaggio”. Una risposta a questa obiezione non c’è, se non nel cambiamento radicale delle nostre abitudini.
    Perché è vero che tante cose sono clonabili e ripetibili, che se ne possono fare copie e imitazioni, ma abbiamo un solo pianeta che deve bastare per tutti. Un pianeta fragile, che sembra ancora più fragile da quando l’abbiamo visto dall’esterno. Forse il contributo che l’Occidente può portare al dialogo interculturale dipende proprio dal fatto di essere la civiltà che per prima ha visto la Terra dal di fuori, che ne ha potuto cogliere la fragilità. Abbiamo solamente una Terra, e solamente una possibilità di mantenerla viva. Una cosa è però certa: che se il nostro modello di sviluppo fosse esteso a tutto il mondo, se anche l’Africa fosse riempita di condizionatori d’aria e l’India di frigoriferi al freon, la Terra esploderebbe letteralmente nell’arco di pochi anni. Questo devono ricordare e tenere conto coloro che insistono con lo slogan “aiutiamoli a casa loro”; se promuovere lo sviluppo dei paesi poveri (che appunto vengono ipocritamente chiamati “in via di sviluppo”) significa consentire loro di ripetere gli stessi nostri orrori ecologici e le stesse nostre ingiustizie, allora ci si incammina su una strada al termine della quale c’è solamente la fine della specie umana.
    Certo, la domanda “che cosa posso fare io?” è una domanda drammatica, anche per l’educazione dei figli. Che cosa possiamo fare noi, che cosa i nostri ragazzi e bambini, in una dinamica mondiale che sembra sempre più incamminata verso il peggio? Moltissimo, a nostro parere, anche senza per forza doversi spostare da casa. Scavare un pozzo in un villaggio senegalese è certamente opera meritoria, ma anche lavorare qui e ora per un modello di consumo sostenibile contribuisce a modificare le abitudini sulla base delle quali si fonda una società. Ad esempio da qualche anno è entrato nel dibattito intellettuale il concetto di “impronta ecologica”: si tratta del pezzo di patrimonio naturalistico (acqua, aria, boschi, ecc.) che deve essere consumata per mantenere per un mese il livello medio di vita di ciascuno di noi. È evidente che l’impronta ecologica di un bambino del Burkina è migliaia di volte più piccola di quella di un suo coetaneo milanese; e sarebbe folle sia pensare di ridurre l’impronta del milanese alle dimensioni di quella dell’africano (condannando ambedue alla morte per fame), sia elevare il Burkina al modello di sviluppo occidentale (così da condannare il mondo alla estinzione): occorre comunque ricordare che le persone che vengono da noi provengono spesso da paesi nei quali viene pagata con la vita l’impronta ecologica che ognuno di noi lascia sul terreno del proprio benessere quotidiano. Se questo modello non cambierà, se continueremo a vivere come se il pianeta fosse alle nostre esclusive dipendenze, come se gli altri e le altre non esistessero, la convivialità con gli altri e le altre sarà impossibile.
    Lo si nota sulla propria pelle quando si viaggia, quando si va a visitare l’altro e l’altra a casa sua, in quella “casa loro” nella quale molti di noi vorrebbero che gli altri rimanessero: viaggiare, per poter vedere e toccare con mano la realtà di alcuni paesi, la situazione di altre culture, gli usi e i costumi degli altri e delle altre. Un bambino abituato a viaggiare però non è certamente di per sé un bambino aperto al dialogo: se sull’aereo che decolla da Malpensa o da Fiumicino lo si circonda come con una bolla di tutti gli agi e le comodità dell’Occidente, se lo si illude di poter trovare i cornflakes per la colazione sapendo che la loro mancanza costituirebbe una tragedia mattutina, allora tanto vale restare a casa. Il viaggio che porta i ragazzi e le ragazze al Club Mediterranèe di Zuiguinchor o nei villaggi turistici di Sharm el Sheik è un viaggio inutile: tanto vale Rimini, meno problematica dal punto di vista del dialogo interculturale.
    L’idea di un turismo consapevole, di un viaggio basato sul rispetto per gli altri e per le altre si sta lentamente affermando, e non è nemmeno troppo difficile praticarlo: certo, una donna in topless sulla spiaggia di un paese che non accetta l’esibizione del corpo femminile, un uomo che rifiuta di togliersi le scarpe quando entra in una moschea sono semplicemente degli idioti provocatori. Ma sarebbe bello interrogarsi sul perché occorre togliersi le scarpe e sulle motivazioni del pregiudizio contro le donne: magari nel secondo caso contattando le persone che stanno combattendo tale pregiudizio e nel primo caso confrontando questo rituale di rispetto della divinità con quelli di altre religioni. Un turismo consapevole si può però ottenere e praticare anche nel cosiddetto turismo interno o di prossimità; in fin dei conti gettare la carta del ghiacciolo in spiaggia o cogliere le stelle alpine in quota corrisponde in piccolo a non rispettare la cultura del villaggio africano; si tratta di quella che una volta si chiamava buona educazione, e che non è altro che la capacità di muoversi lasciando a casa i propri pregiudizi e le proprie cattive abitudini, sperando anche di non ritrovarli più al ritorno.
    Il viaggio ci contagia: di ritorno da un viaggio non si è più gli stessi. Ci si domanda che cosa è possibile cambiare nei propri atteggiamenti e nel proprio stile di vita, ci si domanda che cosa può cambiare in noi dopo il viaggio. È la logica della contaminazione: chi viaggia oggi non contrae malattie (di solito) ma se viaggia in modo intelligenza, anche solo con la fantasia e la cultura, viene contaminato da modi di esistere, e proprio questa contaminazione è alla base di una nuova vita. Contro le educazioni alla purezza proponiamo una logica della contaminazione che preveda che la convivialità dei differenti non lasci i due interlocutori fermi nelle loro identità ma le modifichi nel profondo.
    Questo difficile equilibrio tra cambiamento e permanenza, tra contagio e identità, è quello che dobbiamo imparare e poi insegnare ai nostri figli: la convivenza tra italiani e immigrati deve modificare il modo di vivere degli italiani senza però che questi rinuncino alle loro radici. Entreranno nel confronto con gli immigrati come nuovi italiani e non come copie degli immigrati. Abbracciare la cultura degli altri, sprofondare nei loro usi e costumi, inventarsi africani non serve a noi e soprattutto non serve ai nostri interlocutori.
    Nel Paradiso narrato dal racconto che abbiamo riportato all’inizio non si fa la carità o l’elemosina; ci si contamina a vicenda, si convive dandosi reciprocamente qualcosa, scambiandosi quello che si possiede, arrivando alla fine a non possedere nulla e a possedere perciò tutto. Ci è sempre sembrato di ritrovare la stessa idea di convivialità nelle parole del profeta Isaia: “il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto, il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà. Il leone si ciberà di paglia come il bue. il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide, il bambino metterà la mano nel covo dei serpenti velenosi. (Is. 11,8). Un mondo simile è possibile, purché si abbia la forza di lasciarsi contaminare, rinunciando ai propri artigili e al proprio veleno per il sogno di un’alba nuova.


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