L'etica della cura
Luigina Mortari
La pratica di cura è etica nella sua essenza. L'etica come discorso risponde alla necessità di trovare un orientamento alla tensione che ciascuno sente di cercare il bene. Poiché l'intenzione che orienta l'agire con cura è la ricerca di ciò che fa bene alla vita, si può affermare che la cura appartiene all'agire etico. Ma in che cosa consiste l'essenza etica della cura?
La cura è una pratica e in quanto tale va indagata, quindi, per definirla nella sua concreta fenomenicità è necessario individuare i modi di essere in cui si attualizza. La fenomenologia insegna che per capire un fenomeno è necessario cogliere i modi del suo apparire e che per sviluppare un lavoro euristico rigoroso va applicato il 'principio di evidenza', che chiede di considerare come dato valido ciò che si manifesta; una filosofia fenomenologica della cura, che dunque cerca evidenze esperienziali, mira a individuare i modi di esserci propri dell'aver cura.
Poiché non tutto quanto è reale si rende immediatamente manifesto, risulta necessario adottare anche il 'principio di trascendenza', che impone di lasciarsi guidare dai fili di evidenza per andare a cogliere anche ciò che non si rende immediatamente manifesto allo sguardo. Se si applica il principio di trascendenza, si può risalire al nucleo vivo ma non immediatamente evidente della cura, che si struttura in posture dell'essere.
Se l'etica è un prodotto del pensare generato dall'interrogarsi sulla qualità della vita buona, la cura è una pratica etica orientata dal desiderio di promuovere una vita buona. Dal punto di vista di chi-ha-cura agire nell'ordine di ciò che è bene significa agire per promuovere il ben-esserci dell'altro, e nella cura di sé il proprio ben-esserci, perciò si può dire che la bene-volenza è la direzione dell'esserci che qualifica la cura. Rispondere praticamente a questa passione per il bene orienta la persona a sviluppare precise posture dell'esserci in cui si condensa l'essenza etica della cura: sentirsi responsabile, condividere con l'altro l'essenziale, avere una considerazione reverenziale per l'altro, avere coraggio. Descrivere queste posture dell'esserci significa mettere a fuoco il nucleo etico della pratica di cura.
Sentirsi responsabile per l'altro
L'agire con cura per l'altro è mosso dal senso di responsabilità nei suoi confronti. Il sentire la responsabilità non solo della propria qualità della vita, ma anche di quella dell'altro è una condizione necessaria per aver cura. Assumersi la responsabilità di aver cura di un'altra persona significa essere disponibili a fare quanto necessario e quanto è possibile per il ben-essere dell'altro; questa disponibilità non va solo agita ma anche dichiarata, affinché l'altro sappia che su di noi può contare.
Quando presto attenzione all'altro non posso sottrarmi al sentirmi interpellata dalla qualità del suo esserci. Se questo vale in generale nella relazione con l'altro, vale a maggior misura nei contesti di cura. Se presto un'attenzione realmente sensibile all'altro, il vissuto dell'altro non può non toccarmi e toccandomi mi mette in questione; mi interpella e il suo interpellarmi mi intima a rispondere attivamente. Si tratta di un'intimazione irrecusabile, che diventa coscienza e accettazione dell'impossibilità di allontanarmi dall'altro. È capace di aver cura chi si lascia guidare dall'imperativo veterotestamentario: «Non volterai le spalle a tuo fratello» (Is 58,7b).
La responsabilità di chi-ha-cura si manifesta secondo gradualità diverse a seconda della condizione di bisogno in cui si trova l'altro. Ci sono situazioni in cui il livello di autonomia dell'altro è talmente scarso da richiedere a chi-ha-cura una responsabilità diretta dell'altro: ilpeonato che ha necessità di tutto, il malato che momentaneamente non è in grado di provvedere a nulla per sé, il disabile che è completamente affidato all'altro. C'è però anche una cura che chiede di esplicarsi attraverso una responsabilità indiretta, in cui chi-ha-cura interpreta il suo agire come un mettere l'altro nelle condizioni di potersi assumere la responsabilità di sé. La cura educativa non può essere intesa come l'assumersi una responsabilità diretta del ben-essere dell'altro, poiché questo significherebbe espropriare l'altro della responsabilità che gli è propria. Sostituirsi all'altro significherebbe tradire il senso dell'azione educativa, che è chiamata a facilitare il fiorire dell'essere dell'altro orientandolo all'assunzione della sua propria responsabilità.
Rispondere alla chiamata alla responsabilità significa agire nel modo dell'«essere per altri». L'agire per altri è il modo in cui si costituisce l'agire etico. Lévinas ipotizza un piano dell'essere grigio e anonimo, quello che chiama «il y a», ossia il semplice «c'è» [1], quel tessuto denso del divenire soggetto a forze che non dipendono da noi e nelle cui maglie noi ci troviamo presi. In questo essere presi dentro il fluire anonimo delle cose all'essere umano accade di poter stabilire relazioni di cura con altri, ed è questo tipo di rapporti che rompe le maglie opache del vivere così come accade. L'assunzione della responsabilità della relazione di cura si manifesta come risposta alla chiamata a essere-con-gli altri in una dimensione di senso.
Lévinas parla di una «infinita» responsabilità dell'io davanti agli altri [2]. Il concetto di infinito svolge una funzione importante nel qualificare lo spazio noetico della pratica di cura. Ma affidarsi a questa idea per qualificare la postura dell'essere responsabile risulta problematico, perché l'infinito non appartiene all'essenza della condizione umana, che è sempre nella finitudine. Gli antichi greci, che conoscevano bene il rischio della dismisura, consideravano l'infinito qualcosa di negativo perché non-finito; tutto quanto sa di non-finito è smisurato e come tale potrebbe spingere a interpretare l'esserci nella dismisura. Proprio perché la condizione umana è quella della finitezza, l'energia vitale di ciascuno è limitata, pertanto non si può chiedere ad alcun essere finito, fragile e vulnerabile, una responsabilità infinita; a noi è chiesta una responsabilità sostenibile, questo basta e sta nella misura dell'umano.
Una buona cura è una cura giusta che risponde al bisogno dell'altro secondo la misura necessaria. La virtù prima per Aristotele consiste proprio nel trovare la giusta misura. Chiedere troppo a se stessi è rischioso, perché una fatica eccessiva può indurire il cuore e la durezza non consente una buona relazione con l'altro.
Concepire l'essere responsabile a partire dall'idea di infinito produce uno sconvolgimento dell'ordine ordinario delle cose: «è, alla lettera, non aver tempo di voltarsi indietro, non potere sottrarsi alla responsabilità, non avere un cantuccio di intimità in cui rientrare in sé, andare avanti senza badare a sé» [3]. Ma per l'essere umano tutto quanto non ha misura è rischioso. Una richiesta infinita di responsabilità può esistere come un'ipotesi del pensiero, ma non è realmente sostenibile. Quando assumo su di me la responsabilità dell'aver cura per l'altro sta nell'ordine delle cose sentire il bisogno di fermarsi e prendere tempo, di avere un angolo di intimità dove raccogliere i propri pensieri e ritrovare la forza vitale dell'esserci, fino anche a negare la propria presenza quando si percepisce di mancare della giusta energia necessaria; non si può non badare a se stessi, perché non c'è cura per l'altro se non c'è cura per sé. Nel principio evangelico «ama il prossimo tuo come te stesso» è esplicito il richiamo a un modo equilibrato di stare nelle cose.
L'analisi fenomenologica dell'esperienza suggerisce che la radice generativa dell'agire etico, che si esprime nella responsabilità per altri, debba essere rintracciata nella consapevolezza della fragilità e della vulnerabilità dell'altro, nel sapere avvertire la sua debolezza ontologica.
Pensare al bambino come a un essere mancante di certe capacità o pensarlo, invece, come una persona intera le cui forme dell'esserci sono già tutte presenti seppure in una forma germinale e attendono solo di essere nutrite, ha implicazioni rilevanti nel modo di intendere la cura educativa. Nel campo della salute non è indifferente pensare al paziente come a un corpo malato che per essere curato non richiede niente di più che la somministrazione di una certa terapia o pensarlo come una persona la cui sofferenza è vissuta anche nella mente e, dunque, pensarlo come un corpo che respira in modo spirituale.
L'essere è con-esserci, quindi è insufficiente a se stesso, non basta a sé: c'è bisogno di altri e l'altro ha bisogno di me. Il fatto che ciascuno abbia necessità dí cura rende evidente che ognuno deve aver cura per gli altri. È lo scambio continuo di cure che rende possibile la vita. Il coesistere rende necessario l'aver cura degli altri che, in questo senso, non è solo un possibile ideale di esistenza, ma una necessità dell'esserci. Ma questa necessità di avere cura per l'altro oltre che di sé si renderebbe evidente nel momento in cui matura la consapevolezza che è proprio dell'essere umano avere necessità di cura; sarebbe l'idea dell'altro come qualcuno che necessita di cura a generare il senso di responsabilità. A obbligarmi all'altro c'è la presa d'atto della vulnerabilità e fragilità dell'altro, qualcosa che innanzitutto sento dentro di me.
Il senso di responsabilità necessita di una precisa posizione del pensiero: sapere che tutti noi siamo deboli, sentire la propria debolezza e capire che l'altro è nella mia stessa debolezza, perché solo sapendo che siamo tutti fragili e vulnerabili si può avvertire la tensione ad agire per l'altro, a fare per l'altro quello che vorremmo fosse fatto per noi. In questo senso il comandamento cristiano: «ama il prossimo tuo come te stesso» enuncia la verità prima dell'etica. Avvertire la debolezza ontologica dell'altro avrebbe il potere di fare avvertire come vincolante l'assunzione di responsabilità per l'altro.
Se cogliere la debolezza dell'altro è importante per sentirsi accomunati nella qualità dell'essere, tuttavia la percezione della qualità ontologica dell'esistenza non basta a generare una concreta responsi-vita verso l'altro. La disposizione alla responsabilità si genera quando nell'altro si coglie una condizione di `bisognosità': vedere nell'altro un di più della debolezza che sentiamo in noi, vedere nel suo essere una bisognosità rispetto alla quale noi sentiamo di essere nelle condizioni di potere fare qualcosa.
Se, fermi in un punto di una città, osserviamo le persone che si muovono, di tutte possiamo pensare che come noi sono fragili e vulnerabili, ma non per questo si attiva quel senso di responsabilità che ci spinge ad azioni di cura. La condizione che ci spinge ad attivarci con disponibilità proviene dal sentire nell'altro una bisognosità tale da renderlo 'necessariamente necessitante' di qualcosa che solo un altro può dare. La relazione di cura, come si è detto, è asimmetrica e la responsabilità si genera dal sentire questa asimmetria di potere rispetto all'esserci dell'altro. Proprio perché sensibile al concetto di asimmetria di potere, quando Lévinas parla di responsabilità cita Isaia: «dividi il tuo pane con l'affamato, accogli nella tua casa i miseri» (Is 58,7) [4].
Nel momento in cui si assume la condizione di bisognosità dell'altro come quel dato di realtà che chiama alla responsabilità è necessario però fare attenzione a non pensare la responsabilità solo in relazione a una situazione di difficoltà dell'altro. La cura non è solo un riparare le ferite, ma anche un fare fiorire le possibilità dell'essere. Anche il bambino che a scuola non presenta situazioni di particolare difficoltà mi chiama alla responsabilità, anche l'amico che sta cercando di dare una svolta alla sua esistenza senza per questo essere a rischio nel suo esserci mi fa sentire responsabile per il suo benessere; anche il cittadino che intende cominciare un'azione politica importante che da solo non può portare avanti mi fa sentire coinvolto. In questi casi l'altro è percepito non tanto nella sua debolezza, ma nelle sue possibilità; la sua bisognosità consiste nel dovere ricevere da altri il supporto necessario per fare fiorire le proprie possibilità.
In genere la letteratura sulla cura ha come unico riferimento il fenomeno della cura come riparazione delle ferite dell'esserci, come intervento nei casi difficili dell'esistenza, e trascura di pensare alla cura come impegno a facilitare l'attualizzarsi delle possibilità dell'altro, che costituisce il significato primario del lavoro di cura. Quando si prendono in esame le esperienze di cura che rispondono al bisogno dell'altro di trovare i modi per il pieno fiorire del suo essere possibile, è evidente che a generare la disposizione ad assumersi la responsabilità di esserci per l'altro è un orientamento preciso della vita della mente: la passione per il bene. Una passione che nutre l'orientamento a mettere sé a disposizione di quel movimento dell'esserci che consente all'altro di attualizzare la sua essenza. La decisione per l'assunzione della responsabilità della cura trova sua energia propulsiva nel desiderio di bene.
Agire con generosità
Agisco per l'altro quando so sentire la qualità del vissuto dell'altro, è allora che il volto dell'altro mi interpella nel vivo. Aver cura è dare tempo, e poiché il tempo è vita, dare tempo è generosità. Si è capaci di generosità quando si avverte la bisognosità dell'altro e nell'intimo si comprende l'irrevocabilità del suo appello ad aver cura di lui/lei, e questo sentire l'appello è un atto di compassione.
Ci sono persone per le quali il lavoro di cura costituisce l'architrave di senso dell'esperienza; è quel modo di stare con gli altri che procura significato al proprio essere nel mondo. Dalle parole con cui raccontano l'esperienza di pratica della cura emerge che nel dedicare tempo ed energie per gli altri si verifica un guadagno d'essere, conseguenza del sapere che quanto si fa procura beneficio all'altro.
Fare lavoro di cura fa stare là dove ne va del necessario. Sapere di fare quanto va fatto, e va fatto perché l'altro ha di questo una necessità vitale, restituisce un guadagno di senso che si colloca oltre qualsiasi logica di scambio. Per questo si può dire che nel lavoro di cura c'è intrinseco un elemento di gratuità. La cura che si prende a cuore l'altro esce dal perimetro del calcolo, del misurabile, del negoziabile. Si ha cura per l'altro perché di questo agire si sente la necessità. Qui sta la qualità 'clonativa' della cura.
Si può dire essere costitutivo della cura l'elemento di gratuità, perché l'aver cura per l'altro si concretizza nel produrre una forma di beneficio, e il beneficium è dare qualcosa a un altro senza cercare dall'altro nulla per sé. Dare senza chiedere nulla all'altro non vuol dire perdere qualcosa, perché la cura per essere buona non deve procurare danno a nessuno: «bisogna che dal rapporto non derivi alcun danno – spiega Fedro a Socrate – ma un vantaggio per entrambi» [5]. Solo che per chi-ha-cura il vantaggio non è qualcosa che si chiede a chi-riceve-cura, ma sta in quello che si fa.
Smentendo ogni facile sentimentalismo della cura, va sottolineato che non è propriamente vero che il dono del prendersi a cuore l'altro non chiede nulla in cambio: chiede all'altro di rispondere positivamente alle azioni di cura. La cura materna chiede al bambino di esistere, la cura del docente chiede all'altro di aver cura di sé per dare forma concreta alle proprie possibilità; la cura del terapeuta chiede al paziente di iniziare un percorso nuovo ridisegnando la sua postura nel mondo. Ogni atto di cura che riceviamo richiama alla coscienza la nostra condizione di bisognosità e la responsabilità etica di dare forma al nostro esserci. Ma proprio là dove ne va del senso dell'essere la gratuità è decisiva.
Mettere in relazione il senso alto dell'agire con la gratuità può sembrare un discorso ingenuo, proprio di chi non ha capito come va il mondo. Al contrario, trovare invece, quando la realtà lo richiede, lo spazio per l'agire gratuito è proprio di chi sta nel mondo secondo altre logiche, quelle che sono alla base di un'etica profondamente spirituale, che non si affida a regole ma al senso buono delle cose.
Nella cultura cristiana il dono, il dare per migliorare la qualità della vita dell'altro, è un'azione basilare. Si pensi alle opere di misericordia: dar da mangiare a chi ha fame, dar da bere a chi ha sete, vestire chi non ha abiti, accogliere chi non ha casa. L'azione del prendersi cura di chi si trova nelle condizioni di non potere fare nulla da sé è narrata nella parabola del buon samaritano e in questo racconto si condensa l'essenza etica della cura. Mentre la favola sulla cura riportata da Heidegger [6] dice la qualità ontologica della cura, la parabola del samaritano (cfr. Lc 10,25-37) ne condensa l'essenza etica. L'azione del samaritano è un dare che ha la qualità della gratuità: offre il suo tempo e agisce in prima persona per alleviare la sofferenza dell'altro senza attendere nulla per sé, poi mette a disposizione ciò che possiede responsabilizzando altri nell'azione di cura.
Nell'agire gratuito della cura non c'è perdita di qualcosa, ma un guadagno di qualcosa di essenziale, l'agire gratuito non è semplice emorragia delle proprie energie, perché c'è un guadagno di senso: esso sta nel pensare di aver fatto ciò che era necessario fare. La vita è un viaggio nel tempo e del tempo si deve avere la massima cura; ma il tempo si riempie di senso quando si agisce alla luce della ricerca di bene, per questo il samaritano non esita a interrompere il suo viaggio per dedicare tempo ed energie a chi si trova in una condizione di bisognosità.
Sospendere il tempo per sé e dare tempo ad altri accade però secondo una giusta misura: il fermarsi per aiutare l'altro comporta solo una pausa nel viaggio, non mette a rischio i progetti personali; infatti il samaritano dopo essersi preso cura dell'altro riprende il suo viaggio. L'agire donativo occupa momenti dell'esistenza, non è mai totalizzante; se si pretendesse tale sarebbe insostenibile. L'agire con cura è tale se avviene secondo una giusta misura: trovare la giusta misura del tempo e delle energie da rendere disponibile. Per questa ragione il samaritano coinvolge un'altra persona, fa un gesto politico di condivisione della responsabilità della cura; chiama un altro là dove ne va del senso delle cose. È dunque bandita ogni forma di protagonismo e di onnipotenza, perché spesso per avere cura dobbiamo a nostra volta affidarci ad altri con il senso della nostra limitatezza.
Nel modo di agire del samaritano c'è la risposta alla domanda che Alcibiade pone a Socrate: «in che cosa consiste l'aver cura in modo giusto?» [7]. Socrate usa il termine orthos che nel greco antico è usato per indicare il punto dell'equilibrio perfetto. Possiamo azzardare una risposta alla domanda socratica interpretando il giusto con l'equilibrio, con la giusta misura dell'esserci. Si è nel giusto quando si sa trovare la giusta misura, il punto di equilibrio fra i poli opposti entro i quali sempre ci si trova a operare: l'occuparsi di sé e l'occuparsi dell'altro, fare da sé e delegare ad altri; e poi specificatamente, sapere fino a che punto agire per l'altro o interpretare la cura come richiesta all'altro di agire da sé, quanto essere responsívamente attivi e quanto passivamente presenti.
Il buono c'è se c'è il giusto e una cosa è giusta se sta nella misura esatta delle cose. In questo senso il bene richiede sempre misura. Trovare il giusto modo di esserci. Non c'è allora opposizione fra etica della cura ed etica della giustizia se per agire-con-giustizia s'intende trovare la giusta misura dell'esserci.
Avere rispetto
Il rispetto si esprime nei gesti e nelle parole: c'è rispetto da parte del docente quando la critica al prodotto di un percorso di apprendimento, ritenuta necessaria, si concretizza in parole che valutano con onestà la situazione senza ferire lo studente; c'è rispetto in una manovra terapeutica sul corpo del paziente se fatta con delicatezza; c'è rispetto nell'ascolto di un amico in difficoltà quando si sa stare con un'attenzione non anticipata dentro giudizi che rischierebbero di non accogliere l'altro nella qualità del suo vissuto; c'è rispetto da parte di un operatore dei servizi quando con un adolescente in stato di disagio si cerca insieme il modo di trasformare la sua postura evitando di imporre soluzioni già date che non tengono conto dei vissuti dell'altro e del suo orizzonte di significati.
Il rispetto si manifesta nell'avvicinare (andare verso) l'altro con delicatezza e nel sapere essere ospitali della soggettività dell'altro (accogliere). Il rispetto è ospitalità; è lasciare che l'essere dell'altro mi parli e che sporga sui modi del mio pensare. C'è una violenza concreta: quella che toglie spazio vitale all'altro o quella che ferisce il suo corpo; ma c'è anche la violenza intangibile ma non meno dolorosa delle parole e del pensiero, quando con il mio linguaggio impedisco all'altro la sporgenza del suo essere sul mio pensiero, quando pretendo di contenerlo dentro le mie teorie e nei miei schemi interpretativi. Il rispetto lascia all'altro tutte le mosse necessarie per oltrepassare le idee già date e si manifesta nella ricerca di un linguaggio adeguato alla sostanza ontologica dell'altro.
Avere considerazione per i pensieri dell'altro, per il suo vissuto, non giudicare prima di avere dato spazio al suo essere, non va inteso come un cedere laddove si vede che la cosa non è sensata, o addirittura ingiusta. Va invece inteso come un fare posto all'altro, come primario e imprescindibile atto di rispetto. Prima di qualsiasi azione l'altro va ascoltato e capito a partire dal suo modo di stare nella realtà.
Il dolore dell'altro non resta altro, l'infermiera si lascia interpellare dalla sofferenza della paziente, e poiché sente la, qualità dolorante del suo vissuto non può rimanere inattiva, sente la necessità di dovere agire dedicando il suo tempo e le sue energie a ridurre il suo stato di sofferenza. Non solo si adopera per cercare una soluzione adatta alla condizione di quella specifica paziente, ma poi interviene con gesti che sanno comunicare riguardo e premura.
Quando si parla di rispetto si pensa alla relazione con l'altro nella sua dimensione spirituale, spesso dimenticando che l'altro è anche corpo, e certe pratiche di cura comportano una relazione intensa col corpo dell'altro, si pensi alle cure materne e alle pratiche terapeutiche. Avere rispetto per il corpo dell'altro significa esercitare la cura con una vicinanza partecipe ma allo stesso tempo discreta. Il modo d'esserci dell'incontro fra corpi con accoglienza e rispetto è simboleggiato nella carezza. La carezza è attestazione di una prossimità piena di premura, che sa testimoniare un'attenzione sensibile all'altro senza nulla cercare e nulla pretendere.
Chi ha necessità di cura si affida a chi-ha-cura, perché mancante di tutto ciò che viene dall'essere in relazione; ma mentre si affida perché mancante e necessitante di ciò che altri possono dare, l'affidarsi intensifica la condizione di vulnerabilità. È l'intensificarsi della condizione di vulnerabilità che obbliga l'altro ad avere il massimo di rispetto, quello che accade quando si sa avere reverenza per l'altro. Il difficile da parte di chi-ha-cura è tenere la relazione nella giusta misura fra il rispondere alla bisognosità dell'altro e agire senza diminuire la sua posizione di soggetto, la sua sfera di autonomia, la sua possibilità di fare da sé. Anche nelle buone pratiche di cura può accadere che la giusta misura della presenza di chi-ha-cura venga meno, allora l'altro non può che opporre resistenza a tutte quelle azioni, parole e gesti, che tramutano l'accoglienza in possesso. Chi è capace di esercitare una buona cura sa avvertire quando il rispetto dello spazio dell'altro è messo a rischio, perché sa cogliere i segnali di resistenza che questi manifesta rispetto a ogni azione che manca di riguardo. Si può parlare di una relazionalità generativa quando chi-ha-cura è capace di un'apertura all'altro libera da modi di appropriazione dei suoi spazi esperienziali e da quelle forme di intrusività che arrivano a spodestare l'altro di quella responsabilità di sé che gli/le appartiene intimamente.
Una relazione di rispetto ha bisogno, però, anche di altro: della capacità da parte di chi-ha-cura di sottrarsi all'eventuale tendenza ad annullare la propria identità nell'altro attraverso una disponibilità smisurata, che in quanto tale non è giusta. Una buona azione di cura capace di fecondare l'essere dell'altro ha necessità in primis del rispetto per sé. Aver cura per l'altro chiede disponibilità di tempo, di energie cognitive, emotive e fisiche, ma la disponibilità – come ogni altro modo dell'esserci – per essere una cosa buona deve accadere secondo una giusta misura, e in questo caso si tratta di trovare l'equilibrio esatto fra un fare che rischia di espropriare l'altro e un tenersi da parte che può scivolare nell'incuranza per l'altro. L'equilibrio si concretizza nel sapere stabilire la giusta distanza o la giusta vicinanza, ossia un approssimarsi all'altro in cui ci si mantiene sempre in ritardo sul proprio sé. In una buona relazione di cura all'altro è dato lo spazio per resistere a ogni possibile riduzione della sua alterità e chi-ha-cura mostra di saper coltivare uno spazio relazionale dove la resistenza attivata dall'altro non è tale da non interrompere il dialogo.
Avere coraggio
Di cura si fatica a parlare, perché ai più sembra un'etica debole, fuori luogo in un mondo che segue altre logiche. La cura sembrerebbe una pratica atopica nel nostro tempo per quell'individualismo che fortemente lo caratterizza. A dominare sarebbe la tendenza a preoccuparsi essenzialmente del proprio spazio vitale, considerando come indice di autenticazione dell'esistenza una condizione di libertà intesa come alleggerimento da ogni vincolo [8]. Ci sarebbe poca disponibilità alla responsabilità per gli altri e alla solidarietà perché l'orientamento prevalente nella nostra società sarebbe fondamentalmente narcisistico. In luogo di quel sentimento morale che è l'attenzione per l'altro prevarrebbe l'amore di sé, che è kantianamente il contrario dell'etica. Elena Pulcini descrive il soggetto postmoderno come «un individuo mosso da un impulso illimitato all'autorealizzazione, entropicamente chiuso nel circuito autoreferenziale dei propri desideri che esclude ogni alterità, indifferente alla sfera pubblica e al bene comune e incapace di progettualità» [9].
Secondo Charles Taylor [10], l'individualismo – da molti considerato la più importante conquista della modernità – porta a una progettualità esistenziale tutta concentrata sul sé, rispetto a cui gli altri restano mere comparse. La visione individualistica induce a concepire il proprio sé indipendente dagli altri e quindi a non considerarlo come parte di una rete estesa di relazioni sociali e biologiche. L'individualismo è un modo di interpretare la vita «centrato sul sé, che appiattisce e riduce le nostre vite, impoverendole di significato e rendendole meno attente agli altri» [11]. Fra le perdite che l'individualismo si porta appresso Taylor vede il venir meno dei grandi ideali, delle passioni; ma, innanzitutto, l'ethos della centratura su di sé comporta una svalutazione di tutti quei modi di essere che sono attenti alla relazione con l'altro, perché visti impoverenti il progetto di autorealizzazione del sé [12].
L'individualismo che permea la visione della modernità «ci ha abituati a credere di vivere da soli», nel senso di concepire la nostra esistenza come uno spazio completo in sé, che da questa completezza individuale incontra l'altro [13]. Il soggetto considerato «capace sia di perseguire i propri interessi sia di mettersi al servizio di una visione sociale ispirata al principio della realizzazione dell'interesse comune, non sarebbe che un residuo ideologico con nessun radicamento nel contesto culturale»; a dominare oggi sarebbe «una soggettività senza spessore e senza pensiero, dipendente dai movimenti economici e culturali contingenti, che agisce sulla base di progetti effimeri fortemente condizionati da un dilagante conformismo e da un rapporto consumistico con il mondo», ridotto a un grande mercato l'evidenza di forti disuguaglianze nel potere di acquisto sembra lasciare indifferenti e senza più il minimo sentire di una indignazione politica; ciascuno sarebbe mosso da niente altro che «da una vocazione all'espansione illimitata dei propri desideri e delle proprie pretese che la rende cieca ai desideri e alle esigenze dell'altro da sé» [14]. Uno sguardo sulla fenomenicità relazionale del nostro tempo rivela una diffusa incapacità di sentire il legame emotivo con l'altro e di conseguenza di coltivare quella etica della relazione che è la condizione per costruire mondi condivisi e partecipati. A dominare sarebbe uno spirito edonista e narcisista, che attualizza un'autoreferenzialità esistenziale entro la quale il soggetto si percepirebbe libero da vincoli.
Molti dati confermano questa tesi, perché molti sono i fatti ,ghe attestano incuranza per l'altro, indifferenza, se non addirittura emarginazione e violenza. Nella vita quotidiana — al lavoro, per le strade, nelle istituzioni, nei servizi — spesso sperimentiamo quell'entropia dell'amore di sé e di indifferenza per l'altro che segnala la perdita di attenzione per l'altro, ricondotto dentro una politica dell'esperienza utilitaristica se non incurante.
Però a fronte di quegli argomenti tesi a evidenziare tutto il grigio del nostro tempo due sono le considerazioni da fare. Innanzitutto l'individualismo esasperato e il narcisismo non sono una caratteristica solo della contemporaneità, l'oggi non è un tempo degenerato che non ha precedenti; affrontare la realtà da questa prospettiva significa assumere uno schema interpretativo distorto. Plutarco (I sec. d.C.) scriveva che ai suoi tempi la causa principale di quella che definisco una 'cattiva cultura del vivere' era «il cieco amore di se stessi che rende desiderosi di primeggiare in ogni circostanza, di essere vincenti e di voler acquisire di tutto senza sazietà. (Perché) non pretendono soltanto di essere ricchi, eloquenti, forti, capaci di stare nei simposi, simpatici, amici dei re e dei governatori, ma si disperano se non hanno anche cani, cavalli, quaglie e galli da primo premio» [15]. Inoltre, è da considerare che il negativo, che c'era nei tempi passati e che c'è oggi, è sempre mescolato al positivo: così è da sempre. È sempre pericoloso vedere la realtà solo attraverso un solo tipo di lente. Se questo modo monocromatico di guardare alle cose fosse adatto a rivelare lo spirito dei tempi in generale, allora la cultura della cura non troverebbe nessun campo in cui crescere, parlare di cura sarebbe come gettare i semi di grano su un terreno asfaltato.
Un'informazione planetaria che concentra l'attenzione sul negativo, sulle forme critiche di rapporto con-gli altri e con il mondo, porta le coscienze a non vedere il buono che c'è nel reale. È necessario vedere se c'è altro, e questo altro c'è perché senza cura nessuna cultura sopravvivrebbe. Evitando di lasciarsi condizionare da visioni monologiche della realtà, è necessario andare a cercare testimonianza di quella che si può definire una 'buona cura', perché è da lì, dal positivo che c'è, che si può costruire una cultura della cura. È un dovere della politica dell'esistenza cercare zone verdi anche nella città cementificata e asfaltata. E il verde lo si trova un po' dovunque, magari nascosto come i licheni abbarbicati sui muretti o certi fiori che sanno crescere lungo i muri di cinta. Così è il positivo della cura.
Per cercare testimonianze di buona cura si può prendere in esame quella regione del mondo della vita che in modo particolare, e in genere giustamente, è soggetta a forti critiche per la scarsa attenzione che viene riservata all'essere dell'altro, cioè l'ambito sanitario. Sono frequenti qui le denunce di incuria, di trascuratezza, o di offesa all'essere dell'altro. Ma questo non è tutto: ci sono atti di cura che sanno lenire le ferite, restituendo al malato il senso del suo valore come persona. In certi casi l'azione di cura assume una valenza politica, perché si esprime come denuncia delle situazioni di incuria che provocano inutile sofferenza nel malato. Sono atti di cura che richiedono coraggio.
Il racconto documenta un'esperienza difficile, quella di un malato graffiato da una sofferenza insostenibile, quella sofferenza che fa desiderare il venir meno di ogni capacità di sentire fino a toccare l'insensibilità del nulla. Ma di fronte a questa sofferenza c'è chi sa mettere in atto un esempio di buona cura. Quello che sa fare questa infermiera è trattare adeguatamente l'altro, ciò che Zambrano definisce «pietà» [16]. L'infermiera non si limita a occuparsi del paziente così come le viene chiesto, somministrando le terapie previste, ma di lui si pre-occupa e si prende cura. La fenomenologia dell'atto di cura rivela che, proprio perché sente il dolore del paziente, decide che deve assumersi la responsabilità di un atto coraggioso: confrontarsi con chi ha l'autorità di decidere la terapia e mettere in discussione le sue scelte.
Si tratta di un caso autentico di parresia, cioè del dire come stanno veramente le cose trovandosi a parlare in una posizione di svantaggio rispetto al proprio interlocutore. La parresia è una presa di parola pubblica mossa dall'esigenza di denunciare ciò che non va e riportare lo sguardo dell'altro sulla verità delle cose a partire da una situazione di asimmetria di potere, comporta dunque un rischio elevato per il parlante. In questo caso il gesto della parresia è un gesto di cura perché nasce dall'attenzione alla situazione dell'altro ed è mosso dall'intenzione di innescare un processo di trasformazione delle cose.
Si è capaci di parresia perché il proprio esserci ha optato per una postura responsabile nei confronti dell'altro e coraggiosa verso chi ha il potere di decidere la qualità della vita. Questo non significa che chi-ha-cura decida di essere coraggioso come risposta a un dover essere che si esprime nella forma del sottostare a imperativi categorici formalmente codificati; si trova invece a esserlo 'semplicemente' perché sta in una relazione responsabile col reale. Come spiegano Patricia Benner e Judith Wrubel [17], si agisce con coraggio perché si sente che non c'è altra opzione compatibile col bisogno di cura dell'altro.
Alla radice di questo modo di essere c'è la capacità di sentire intimamente la condizione dell'altro, il lasciarsi toccare – non contagiare ma toccare – dalla sua sofferenza, e anziché scansare l'esperienza del dolore dell'altro perché troppo forte, fare di questo sentire la spinta ad agire con cura. Agisco per l'altro quando so sentire l'altro, quando non mi limito a vedere il suo volto, ma sento la qualità del suo vissuto. Si è capaci di cura quando si avverte l'appello dell'altro ad aver cura di lui/lei.
NOTE
1 E. Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1990, p. 266. Or. francese, Totalité et Infini, Martinus Niyhoff's Boekhandel en Vitgeversmaatschappiy 1971.
2 E. Lévinas, La traccia dell'altro, Tullio Pironti Editore, Napoli 1985, p. 74. Or. francese, En découvrant l'existence avec Husserl et Heidegger, Paris, Vrin 1949.
3 Ibidem.
4 E. Lévinas, Altrimenti che essere, Jaca Book, Milano 1991, p. 93. Or. francese, Autrement qu'étre ou au-delà de l' essence, Martinus Nijhoff Publishers, The Hague 1978.
5 Platone, Platone: tutti gli scritti. Fedro, 234c, Bompiani, Milano 2000.
6 M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976. Or. tedesco, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927.
7 Platone, Platone: tutti gli scritti. Alcibiade Primo, 128b, Bompiani, Milano 2000.
8 P. Benner - J. Wrubel, The Primacy of Caring: Stress and Coping in Health and Illness, Addison-Wesley Publishing Company, 1989, p. 2.
9 E. Pulcini, La cura del mondo, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 32.
10 C. Taylor, The ethics of authenticity, Harvard University Press, Boston 1991, p. 4.
11 Ibidem.
12 Ibidem.
13 M. Zambrano, L'uomo e il divino, Edizioni Lavoro, Roma 2001, p. 260. Or. spagnolo, El hombre y lo divino, FCE, México 1973 - Siruela, Madrid 1992.
14 E. Pulcini, La cura del mondo, cit., pp. 31-32.
15 Plutarco, Serenità dell'anima, Archinto, Milano 2004.
16 M. Zambrano, L'uomo e il divino, cit., p. 185.
17 P. Benner - J. Wrubel, The Primacy of Caring, cit., p. 4.
(La Rivista del Clero Itaiano, 7-8/2017, pp. 554-568)