Luis A. Gallo
(NPG 2012-07-6/61)
«Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). Queste parole, dette da Gesù alla fine della sua esortazione a «pregare sempre, senza stancarsi mai», sembrerebbero, a parer di qualcuno, avverarsi oggi. Non manca infatti chi pensa che la fede, e in particolare la fede cristiana, sia quasi scomparsa o in via di scomparire nel mondo attuale, così profondamente cambiato. Cosa di altri tempi, si pensa in certi circoli. Eppure, le statistiche parlano di 1 miliardo e 160 milioni di persone che si dicono credenti e appartenenti alla chiesa cattolica, e di recente è stata diffusa la notizia che ogni giorno entrano a far parte di essa 34 mila persone. Senza contare gli altri milioni che appartengono alla chiesa ortodossa e alle altre chiese e confessioni cristiane. In totale, più di 2 miliardi. Tra questi molti giovani, dal momento che essi sono maggioranza precisamente in quelle regioni della terra dove è più presente il cristianesimo.
Non c’è dubbio tuttavia che il credere da cristiani trova non poche difficoltà oggigiorno. Un tempo la società, particolarmente quella occidentale diventata da secoli ufficialmente cristiana, in qualche modo sorreggeva la fede delle singole persone. Essere credenti era un qualcosa di scontato per chi nasceva in essa: battesimo, prima comunione, cresima, messa domenicale, matrimonio, funerale, erano altrettanti momenti che segnavano la vita della maggioranza delle persone dalla nascita fino alla morte. Il profondo cambio iniziato qualche secolo fa, particolarmente ad opera del movimento della modernità, ha messo sempre più progressivamente in crisi tale situazione. Basta aprire gli occhi e guardarsi attorno per averne una conferma. Ne è una delle tante manifestazioni il fatto che in certi paesi di antichissima tradizione cristiana si stanno abbattendo i templi, o alienandoli per altri usi non sempre precisamente cristiani.
La domanda che viene quindi spontanea davanti a questa situazione è se quei milioni di persone che ancora attualmente sono recensite come «credenti» sono veramente tali, se hanno veramente fede o, ancora più precisamente, se sono veramente «credenti cristiani».
È importante pertanto chiarire cos’è la fede, come fenomeno semplicemente umano anzitutto, e poi cos’è la fede cristiana.
1. IL FATTO UMANO DELLA FEDE
Se si considera con un minimo di attenzione l’esperienza umana, la si ritrova tutta costellata di atti di fede. In realtà, anche se non lo si pensa, la vita concreta si poggia in gran parte sulla fede.
Quando si legge un giornale o si guarda un notiziario della TV e si tengono per vere le notizie che essi forniscono, si fa un atto di fede: la fiducia nella fonte di informazione fa sì che si accolgano come vere le cose che esse dicono. «Lo dice la TV», si usa dire spesso, adducendo un argomento decisivo sulla verità delle cose o dei fatti. Quando un ragazzo e una ragazza si dicono, o si scrivono «ti amo», fanno un atto di fede: essi ritengono che ciò che lui e lei dicono risponda a verità, e vivono il loro rapporto sulla base di tale certezza. Quando un paziente si sente dire dal suo medico che deve prendere tale medicina che gli farà bene, e la prende, sta facendo un atto di fede: confida nella competenze e la serietà del suo medico e agisce secondo le sue prescrizioni. Quando davanti a un leader politico o sindacale le masse accolgono il suo discorso, stanno facendo un atto di fede: accettano che la lettura della situazione e le proposte che egli fa rispondano a verità. Perfino quando si va a fare l’acquisto del pane, della carne o della frutta si fa un atto di fede: si acquistano le merci pensando che sono buone...
Credere è, nell’esperienza umana più comune, un fenomeno che include diverse componenti. Anzitutto, una componente che potremmo chiamare esistenziale. È la fiducia che si ha verso qualcuno che parla, comunica o propone qualcosa: giornalista, fidanzato, medico, leader politico, fornitore… Fiducia che significa affidamento alla sua conoscenza, e anche della sue buone intenzioni: «chi mi parla sa cosa dice, e non ha certo intenzione di ingannarmi», si pensa.
Poi, una componente conoscitiva: proprio in forza di tale fiducia, viene accolta l’informazione che tale persona dice o propone. «Io credo in te, perciò io credo ciò che tu mi dici», potrebbe essere la frase che esprime questa seconda componente. È un tener per vero ciò che l’altra persona dice o prospetta, anche se non è evidente ai miei occhi.
In fine, una componente operativa, che si concretizza nell’agire nella linea prospettata da chi parla, portando ad attuazione ciò che si è ascoltato.
2. IN CHE COSA NON CONSISTE LA FEDE CRISTIANA
In analogia con quanto è stato detto si può capire, con le peculiarità che le sono proprie, ciò che è la fede «cristiana».
Prima tuttavia di farlo, occorre effettuare una operazione di «rimozione»: scartare cioè certe concezioni che non si adeguano ad essa, e che però sono spesso presenti anche tra coloro che si dichiarano cristiani.
Anzitutto, la fede cristiana non va confusa con la semplice credenza circa l’esistenza di un Essere Superiore che è all’origine di tutto, e che premia i buoni e punisce i cattivi, soprattutto dopo la morte. Non mancano delle persone, anche dei giovani, che si ritengono credenti – e spesso lo sono davvero da questo punto di vista – perché accettano, sia pure in maniera oscura e con spiegabili tentennamenti, tale esistenza. Questa credenza, pur senza negare il suo valore umano, non è ancora fede cristiana, perché le manca, come avremo occasione di vedere, qualcosa di decisivo: l’accoglienza esplicita della persona di Gesù Cristo e della sua proposta di vita.
Tanto meno va identificata come fede cristiana quella forma di religiosità che implica un atteggiamento di cieca sottomissione a delle forze superiori manifestate attraverso i fenomeni – soprattutto straordinari – della natura. Spesso tale atteggiamento ubbidisce ad una concezione secondo la quale Dio è pensato come rivale dell’uomo. È un dio-a-spese-dell’uomo, che richiede il suo annientamento, perché ogni sua affermazione metterebbe in pericolo il dominio e la sovranità divina. Tale religiosità arriva a giustificare, appellandosi alla volontà di Dio, i più aberranti assurdi della storia umana quali la fame di milioni di persone, la povertà imposta, le ingiustizie, e anche quelli della natura quali le inondazioni, la siccità, i terremoti, le epidemie... Contro questo modo di porsi davanti alle situazioni negative ammoniva alcuni anni fa Giovanni Paolo II gli abitanti della «Favela dos Alagados» (Brasile):
«Voi dovete lottare per la vita, fare di tutto per migliorare le condizioni in cui vivete: è un dovere sacrosanto, perché questa è anche la volontà di Dio. Non dite che è la volontà di Dio che voi restiate in una situazione di povertà, di malattia, di abitazione malsana, che spesso sono contrarie alla vostra dignità di persone umane. Non dite: ‘È Dio che lo vuole’».
La fede cristiana non consiste neppure nel semplice fatto di aderire fermamente, passando anche al di sopra delle eventuali ripugnanze razionali che possono provocare, a tutte le verità che la chiesa propone ufficialmente (articoli del credo, dogmi e dottrine proposte dai papi o dai vescovi), verità misteriose che spesso non si possono comprendere con la ragione, ma che si accettano perché si ritengono rivelate da Dio.
Questo modo prevalentemente dottrinale di concepire la fede cristiana è il risultato di un lungo processo storico. Ebbe i suoi antecedenti remoti negli ultimi scritti del N. Testamento, specialmente nelle cosiddette Lettere pastorali, che riflettono la preoccupazione di far fronte alle prime eresie emergenti nelle comunità dei tempi inziali. «Mantieni intatto il deposito della fede», esorta l’autore della Lettera a Timoteo (6,20), concludendo una lunga serie di raccomandazioni rivolte al suo destinatario sul modo di comportarsi davanti alle «profane novità» che andavano spuntando in quei tempi postapostolici.
Diversi secoli più tardi, quando S. Tommaso d’Aquino (s. XIII) prese in analisi l’atto di fede utilizzando lo schema della conoscenza-per-testimonianza elaborato secoli prima da Aristotele, aprì una breccia che si andò allargando sempre più col tempo: quella di una eccessiva accentuazione della componente conoscitiva o dottrinale della fede a scapito delle altre sue componenti. La pensò soprattutto come un aderire a delle verità che superano la capacità dell’intelligenza umana, ma si accolgono per l’autorità del Dio che le rivela.
A rinforzare questa accentuazione contribuì, nel secolo XVI, la condanna che il Concilio di Trento pronunciò contro la posizione di Lutero in questo tema. Per lui, infatti, la fede, più che una accettazione di verità rivelate da Dio, era la fiducia radicale nel Dio della misericordia che rende giusto il peccatore credente in Lui. Così, contrapponendosi a questa concezione della fede-fiducia luterana, il Concilio sbilanciò ancora ulteriormente il peso verso la componente conoscitiva o veritativa della fede. Nel secolo XIX, poi, il Vaticano I, polemizzando contro il razionalismo dell’epoca che impugnava tutto ciò che pretendesse di essere al di sopra della ragione umana, definì la fede come la virtù soprannaturale per la quale, aiutati dalla grazia di Dio, si aderisce fermamente con l’intelligenza alle verità da Lui rivelate.
Si può capire, in base a questi elementari accenni storici, perché fino a non molto tempo fa non pochi cristiani abbiano avuto una concezione se non esclusivamente almeno prevalentemente dottrinale della fede. Tale concezione aveva precedentemente dato origine, in qualche momento della storia, ad atteggiamenti di esagerata preoccupazione per l’ortodossia, come quelli – veramente tristi – che si concretizzarono nella creazione della cosiddetta «Santa Inquisizione». Sono stati momenti in cui, si potrebbe dire, la chiesa si ammalò di ortodossia, convertendo paradossalmente la fede in uno strumento di tortura e di morte.
A metà del secolo XX, l’influsso di movimenti di pensiero esistenziale e personalistico portò ad un ripensamento della concezione della fede. Coerente con la sua sensibilità, a differenza della concezione precedente che accentuava gli aspetti dottrinali, esso accentuò con forza i suoi aspetti esperienziali. La fede venne infatti pensata come un aprirsi totalmente all’incontro e alla comunione interpersonale con Dio e con la sua Parola, una Parola concepita a sua volta come espressione dell’autocomunicazione della stessa intimità divina all’uomo, in un clima di fiducia e di amicizia. Tale concezione venne assunta dal concilio Vaticano II, specialmente nella costituzione Dei Verbum sulla divina rivelazione (n.5), e si diffuse ampiamente nella chiesa a livello tanto teologico quanto pastorale e catechetico.
Si tratta indubbiamente di una concezione molto arricchente, se la si confronta con quelle sopra descritte. Ma comporta anche dei limiti. Fra essi uno dei più rilevanti è la sua tendenza all’intimismo, che la porta ad ignorare, o almeno a non fare una adeguata attenzione, alle dimensioni socio-strutturali dell’esistenza umana. Questa fede esistenziale si gioca prevalentemente, infatti, sul fronte del binomio «io-Tu», senza tener sufficientemente conto che quel «io» è un essere umano che vive in un mondo nel quale le componenti culturali, sociali, economiche e politiche svolgono un ruolo di rilevante e persino decisiva importanza. Resta, di conseguenza, una fede prevalentemente circoscritta alla sfera del privato.
3. I CREDENTI NELLE ANTICHE FONTI BIBLICHE
Abbiamo scartato una serie di concezioni che non si adeguano pienamente alla genuina fede cristiana. Per arrivare a identificare il modo autentico di concepirla, occorre ricorrere alle fonti bibliche. La Bibbia è, infatti, il grande libro della fede. Naturalmente, essa non fornisce delle «lezioni» sulla fede, nel senso che non dà spiegazioni concettuali su di essa. Non è il suo stile. Presenta piuttosto dei modelli di uomini e donne che sono vissuti da veri credenti. Approfondendo tali modelli si può arrivare a comprendere cosa essa intenda per fede.
L’A.Testamento presenta innumerevoli figure di uomini e di donne che vissero un’intensa esperienza di fede. Li ricorda, quasi come in una estesa galleria di ritratti, la Lettera agli Ebrei (cap. 11). In realtà, già l’intero popolo d’Israele, protagonista della storia prima di Gesù Cristo, appare come un popolo credente, che cerca di mantenere tenacemente viva la fede nel suo Dio, anche in mezzo a non poche difficoltà.
La figura di Abramo
Gli scrittori del libro della Genesi personificarono questo sforzo di secoli in un personaggio-chiave: Abramo, il capostipite del popolo, che più tardi Paolo chiamò appunto «il padre dei credenti» (Rom 4,11). Nella narrazione della sua emblematica vicenda si possono cogliere le componenti più rilevanti della sua fede, e della fede di ogni credente biblico.
Anzitutto, il racconto delinea la situazione in cui egli si trovava al momento in cui ebbe inizio la sua avventura di credente. Lo presenta come un uomo attanagliato dalla morte. Il racconto sottolinea che sua moglie Sara era sterile (Gn 11,30; 16,1; 17,17), e che quindi egli era destinato a non avere discendenza. Il che significava, nel modo di pensare del tempo, essere inevitabilmente condannato a scomparire (Gn 15,2-3; 17,17). Nella mentalità di un popolo che non era ancora arrivato a credere in una futura risurrezione, infatti, solo i figli assicuravano una certa sopravvivenza dopo la morte. Il testo lascia capire ancora che, essendo egli un pastore seminomade che abitava con i suoi in tende senza possedere terra propria, si trovava costantemente esposto al pericolo delle bande di briganti, allora molto numerose, le quali potevano in qualunque momento piombare sul suo accampamento e uccidere lui e i suoi, portandosi via quanto possedeva. La sua era, di conseguenza, una condizione di estrema insicurezza.
La narrazione biblica aggiunge, in secondo luogo, che egli, trovandosi in quelle malsicure condizioni, ascoltò a un certo punto una parola di Dio che gli ordinava di abbandonare la sua terra e la sua parentela, e di andare verso un’altra terra che gli sarebbe stata indicata (Gn 12,1), mentre gli faceva una promessa carica di futuro: figli numerosi come le stelle del cielo o i granelli della polvere della terra (Gn 15,5; 17,2-7; 18,18; 22,17), terra spaziosa e feconda (Gn 12,7; 13,14-15; 15,7;15,18-19), sicura protezione dai nemici (Gn 12,3; 15,1). In una parola, vita straripante.
Il racconto include, in terzo luogo, la risposta di Abramo alla parola ascoltata: egli, l’uomo senza futuro e destinato irrimediabilmente alla morte, si mise in cammino alla ricerca dell’attuazione della promessa ricevuta (Gn 12, 4); lasciò cioè di guardare al suo presente di insicurezza e senza prospettive di futuro, ed iniziò la marcia verso il futuro di vita debordante promesso da Dio. Mettendosi così in cammino, dimostrò di essere profondamente convinto che ciò che sembrava impossibile, poteva diventare possibile perché Dio aveva impegnato la sua parola. In questo modo, come disse quasi venti secoli più tardi la Lettera agli Ebrei, egli vinse la morte e trovò la vita (Eb 11,8-12.17-19).
Si potrebbe analizzare l’esperienza di fede di numerosi altri personaggi dell’A.Testamento, e vi si troverebbero gli stessi tratti fondamentali reperiti nella fede di Abramo: Mosè, Giosuè, Debora, Giuditta, Davide, i profeti... sono altrettanti modelli di ciò che significa credere. La loro fede nel Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe ha fondamentalmente le stesse componenti segnalate per il fenomeno della fede umana, ma con le caratteristiche proprie che le vengono dal fatto che Colui in cui credono non è un semplice partner umano, ma quella Realtà ultima e misteriosa che chiamiamo Dio.
La loro fede implica quindi, anzitutto, un atto di radicale fiducia nei confronti di questo Dio. Leggendo infatti l’A.Testamento, si può constatare che una profonda convinzione attraversa tutte le sue pagine: il Dio con cui il popolo d’Israele e i singoli individui al suo interno sono in rapporto, è un Dio che nella sua sovrana libertà prende l’iniziativa di rivelarsi personalmente a loro, di stringere con loro un’alleanza di amicizia e di fargli conoscere il cammino che porta alla vita attraverso la legge promulgata da Mosè. È un Dio che, dopo aver creato con la sua potente parola il mondo e l’uomo (Gn 1-2), e malgrado la mancanza di una adeguata risposta da parte sua, mantiene immutata la sua volontà di bene per l’intera umanità (Gn 3-11). Volontà che si manifesta principalmente nel singolare rapporto instaurato con i Patriarchi e nelle grandi promesse di futuro e di vita ad essi fatte (Gn 12-50), ma soprattutto nello straordinario intervento con cui strappa i loro discendenti dalla schiavitù d’Egitto (Es 1-14) e si vincola strettamente con essi mediante il patto sigillato nel Sinai (Es 20-24); e, ancora, nel costante e amorevole sostegno dato loro nel cammino verso la terra da Lui stesso promessa come dono (Es, Lv, Nm, Dt).
Uno dei testi in cui probabilmente meglio traspare il modo in cui i credenti dell’A.Testamento pensano il loro Dio, è quello in cui viene narrata la chiamata di Mosè (Es 3). Il Dio che si autonomina JHWH, appare come un Dio che osserva con attenzione e cura l’afflizione del popolo schiavo in Egitto, ascolta il grido di dolore che gli strappano i suoi oppressori, conosce e condivide le sue sofferenze, e scende dal cielo per liberarlo e portarlo a una terra «in cui scorre latte e miele» (cf Es 3,7-8). Un Dio, quindi, che pur essendo creatore di tutto e perciò trascendente, come lascia capire il simbolismo del suo abitare nelle alture, per propria iniziativa lascia la sua dimora celeste ed entra nel mondo e nella storia per portarla verso una condizione nuova e incomparabilmente migliore, che la Bibbia esprime con la densa parola shalôm.
In questo Dio i credenti ripongono la loro fiducia. A lui si affidano particolarmente nei momenti di difficoltà. E perché sono sicuri della sua volontà di bene, scaricano in lui le loro preoccupazioni come, secondo il bel paragone del Salmo, «un bimbo svezzato in braccio a sua madre» (Sal 131,2).
Come ha voluto ricordare il concilio Vaticano II, il Dio invisibile (cf Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cf Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cf Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé (DV 2). Lo si constata lungo tutti gli scritti dell’A.Testamento. Essi sono una testimonianza di questo dialogo tra Dio e il suo popolo, che a momenti acquista i toni di un amore sponsale tenero e intensissimo. È, come ha voluto sottolineare papa Benedetto XVI nella sua Enciclica Deus caritas est, un dialogo «erotico», nel più nobile e alto senso del termine.
Un Dio che parla
Il Dio della Bibbia, quindi, «parla». Non è come gli idoli «che hanno bocca e non parlano» (Sal 115,5). E parla con parole di amore per il bene e la vita del suo popolo. Il popolo, che confida in lui, «ascolta» e fa sua la sua parola, la «divora», come dice il profeta Geremia (Ger 15,16). È questa la sua risposta di fede. Non per niente quando a Gesù verrà chiesto da un maestro della Legge quale sia il più grande dei comandamenti della Legge, egli risponderà rifacendosi a un testo che in qualche modo condensa tutta la fede di Israele: «Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore» (Mc 12,29; Dt 6,4). La religione di Israele è fede perché è ascolto. A differenza delle religioni greche, che sono religioni degli occhi, quella di Israele è religione dell’udito.
Ma l’ascolto di Israele non è l’ultima risposta al Dio che gli parla; esso è chiamato ad attuare ciò che ascolta. La sua fede resta inconclusa finché non esegue ciò che Egli gli indica, particolarmente attraverso quella illuminazione del cammino della vita che è la Legge (torà). È molto significativo al riguardo quanto dice Mosè al popolo:
«Oggi ti comando di amare il Signore, tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva: … io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore, tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui …» (Dt 30,15.19).
Credere è, quindi, in ultima istanza, agire nella linea di quanto Dio prospetta, camminare per la strada da Lui indicata, come fece «il padre dei credenti», Abramo, certi che così si raggiunge la vita e la felicità.
Un esempio luminoso di questa fede integrale è, alla fine della lunga storia dell’A.Testamento e alle porte del Nuovo, Maria di Nazareth, la madre di Gesù. Lo si coglie quasi come in una icona nel racconto dell’annunciazione (Lc 1,26-38). Maria ascolta con stupefatta attenzione e persino con un certo turbamento la parola che Dio le rivolge per bocca dell’arcangelo Gabriele. Una simpatica tradizione trasmessa dall’apocrifo intitolato Il protovangelo di Giacomo, del s. II, la fa persino fuggire dalla fonte del paese dove era ad attingere l’acqua e dove l’arcangelo le appare. «Tutta tremante se ne andò a casa», dice il testo. Ma poi, già nella sua stanza, accoglie il messaggio. È il Dio annunciato dai profeti che si rivolge a lei per chiederle di collaborare con Lui nella venuta al mondo di colui che da secoli il popolo d’Israele, e in lui l’intera umanità, sta aspettando. Anche se ella non capisce chiaramente come avverranno le cose, si fida pienamente di Colui «a cui nulla è impossibile», neanche far diventare feconda e capace di dare vita una donna anziana e per di più sterile, quale era la sua parente Elisabetta (v. 37), e si rimette totalmente a Lui e al suo progetto di benedizione e di salvezza. «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (v. 38), è l’espressione che esprime la sua totale fiducia. E alla fiducia nell’accogliere la parola che Dio le rivolge segue la sua azione: come Abramo, si mette in cammino. Va verso la zona montagnosa dove si trova Elisabetta, e si ferma presso di lei, aiutandola operosamente, fino alla nascita del figlio. Anche lei, quindi, porta a pienezza la sua fede, fatta di ascolto e di fiducia, nell’attuazione di un servizio sollecito a chi è nel bisogno.
Maria è, come ebbe a dire Giovanni Paolo II nella sua enciclica Redemptoris Mater, figura del credente, e
«la sua eccezionale peregrinazione della fede rappresenta un costante punto di riferimento per la chiesa, per i singoli e le comunità, per i popoli e le nazioni, in un certo senso per l’umanità intera» (RM 2.6).
4. GESÙ INSEGNA COSA VUOL DIRE CREDERE
Tra i libri del N. Testamento sono soprattutto i vangeli a riportare molte figure di uomini e donne credenti nel Dio che si rende presente in Gesù: il lebbroso che si getta ai suoi piedi per chiedergli di essere guarito dalla sua lebbra (Mc 1,10-41); il centurione che chiede con insistenza la guarigione del suo servo sofferente (Mt 8,5-13); la peccatrice che durante il pranzo a casa di un fariseo gli bagna i piedi con le sue lacrime e glieli asciuga con i suoi cappelli (Lc 7, 37-50); il padre che lo supplica di liberare il suo giovane figlio dallo spirito che lo tormenta, ma prima gli chiede di venire in aiuto della sua fede vacillante (Lc 9,37-42); il cieco di Betsaida per cui alcuni chiedono il dono della vista (Mc 8,22-26) o quello di Gerico che lo chiede personalmente (Mc 10,46-52); il gruppo di uomini che portano su di un lettuccio un uomo paralizzato e lo calano davanti a lui perché lo guarisca (Lc 5,17-25); la donna pagana che chiede la guarigione di sua figlia tormentata da uno spirito impuro, e viene lodata da Gesù per la sua grande fede (Mc 7,25-30); i dieci lebbrosi che gli chiedono a distanza di avere pietà di loro e di guarirli (Lc, 12-19); il capo della sinagoga che, gettatosi ai suoi piedi, lo supplica di andare a imporre le mani sulla sua figlioletta moribonda perché sia salva e viva (Mc 5,22-25)…
In tutti questi casi, e in tanti altri ancora che si potrebbero citare, si vede con chiarezza che i loro protagonisti mostrano di avere la ferma convinzione che ciò che appare come umanamente impossibile – e cioè uscire da una situazione segnata in diversi modi dalla morte per passare a una situazione di vita – può diventare possibile perché Dio è presente in Gesù e opera con la sua forza vivificante attraverso di lui. Concretamente, che il bene può avere la vittoria sul male, che la vita può trionfare sulla morte. È questa certezza quella che, come Gesù stesso ebbe a dire, è capace di «spostare le montagne» (Mt 17,20; Mc 11,23; Lc 17,5).
Forse uno dei casi più trasparenti in questo senso è quello della donna emorroissa che, in mezzo alla calca che lo attornia, tocca da dietro il suo mantello con la certezza di venir liberata dalla condizione umanamente disperata in cui si trova. La sua è un situazione non soltanto di malattia corporale, ma anche di emarginazione sociale e religiosa (Lv 15,25). E, come fa notare l’evangelista, aveva già molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando. Ma ella dice in cuor suo: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò salvata» (Mc 5,28). E, come racconta il vangelo, lo toccò, e subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
Spesso, come in questo caso, Gesù dice a chi ha visto esaudita la sua richiesta: «La tua fede ti ha salvato» (Mt 9,22; Mc 5,34: 10,52; Lc 7,50; 17,19; 18,42), come a dire che se ciò che attendeva e desiderava è avvenuto, era da attribuire a questa sua fiducia in Dio e in lui.
Va ancora notato che spesso egli aggiunge: «Va’ in pace». Il testo originale dice in realtà: «Va’ verso la pace», e dovrebbe essere inteso come un invito a contribuire a produrre, per sé e per gli altri, quel bene totale che la Bibbia chiama «shalôm», e che nel modo di esprimersi di Gesù è, come vedremo, «il regno di Dio». Quindi, a far sfociare la fede in un impegno nella linea di ciò che si è sperimentato nella propria persona. In questo contesto risultano molto illuminanti le parole con cui termina la parabola del Buon Samaritano. Al maestro della legge che gli domanda cosa dovrebbe fare per ereditare la vita eterna, cioè la felicità piena e definitiva, e poi ancora chi è il suo prossimo, Gesù, che gli aveva risposto raccontando la parabola in cui il Samaritano, mosso dalla compassione, si era avvicinato e aveva soccorso l’uomo lasciato mezzo morto dai briganti sull’orlo della strada, aggiunge concludendo: «Va’ e anche tu fa’ così» (Lc 10,37). La fede arriva quindi al suo culmine nell’agire nella linea dell’amore che fa uscire da condizioni di morte verso la vita.
Analizzando l’esperienza di fede di coloro che Gesù incontra sulla sua strada, si può quindi cogliere lo stesso schema di quella dell’A.Testamento, trasfigurata in qualche modo dalla novità della presenza di Gesù.
Un Dio che ama la vita
Anzitutto essi sono convinti, sia pure solo per intuizione, che il Dio con cui egli è in rapporto è un Dio che vuole la vita e il bene di tutti, a cominciare da quelli che ne sono più privi. È molto significativo ciò che egli dice in occasione di una discussione con i suoi avversari: «Dio è Dio dei viventi, non dei morti» (Mt 22,19; Mc 12,27; Lc 20,38). E lo dice per difendere la dignità di una donna che è stata ridotta a un oggetto, dal momento che in forza della cosiddetta «legge del levirato» (Dt 25,5-10) ha dovuto essere successivamente moglie di sette uomini, per soddisfare al loro bisogno di avere discendenza, senza che nessuno le chiedesse se ne era d’accordo.
Per Gesù, Dio non è quindi quella potenza strapotente che vuole assoggettare e dominare tutto e tutti, geloso della sua gloria e del suo onore, rivale quindi dell’uomo e del suo potere o, come diceva Nietzsche, assurdo nemico della sua vita. Viceversa, per lui Dio è un Padre pieno di tenerezza e sollecitudine, che vuole solo e gratuitamente il bene pieno degli uomini, particolarmente di quelli che stanno peggio a causa della malattia o dell’esclusione provocata dalla cattiva volontà degli uomini. Si rivolge a lui chiamandolo «abbà» (Mc 14,36, cf Rom 8,15; Gal 4,6), un appellativo in cui è concentrata tutta la densità della sua esperienza religiosa. Adoperandolo, egli esprime il suo modo di concepire e di esperire Dio come la fonte della vita.
Si tratta di un termine che veniva usato dai figli, specialmente piccoli, ma non solo da essi, per rivolgersi nell’ambito familiare al proprio genitore. Che Gesù l’abbia adoperato per rivolgersi a Dio e abbia invitato anche altri a farlo (Mt 6,9; Lc 11,2), costituisce una delle note più sorprendentemente caratteristiche della sua persona e della sua vicenda. Lo si coglie meglio se si tiene presente che il senso della trascendenza del Dio «tre volte santo» (Is 6,3) era andato crescendo in tale modo col passare del tempo nella coscienza religiosa del popolo d’Israele, che da qualche secolo il suo nome – JHWH – non era più nemmeno pronunciato. Gesù, invece, lo invoca con l’appellativo con cui si era sicuramente rivolto, nella sua esperienza familiare, a Giuseppe, suo «padre» terreno (cf Mt 13,55; Lc 2,33.48; 3,23; 4,22; Gv 1,45; 6,42). Dal modo in cui egli si rivolgeva a Dio trapela quale sia stata la sua maniera abituale di rapportarsi con lui: un rapporto fatto di intimità e fiducia, di familiarità estrema, di amore appassionato.
Per Gesù, Dio è Colui che, come anticipavano già alcuni testi dell’A.Testamento (Is 49,15; 66,12-13), utilizzando anche termini femminili a suo riguardo (Is 63,19), ha la sollecitudine e la tenerezza della madre (Lc 15, 20-24). In lui egli invita coloro che incontra ad avere una fiducia illimitata, nella convinzione che egli ha cura di tutti (Lc 12, 6), e vuole solamente e unicamente il bene di tutti senza distinzione (Lc 6,35), tanto da «far sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e far piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45).
L’ascolto di Gesù
Un secondo aspetto dell’esperienza di fede raccontata dai vangeli si può cogliere nella scena della trasfigurazione. In essa, rappresentato in una nube luminosa, Dio dice ai discepoli che hanno accompagnato Gesù sul monte: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo» (Mt 17,5; Mc 9,7; Lc 9,35). Dio parla, dunque, e invita ad accogliere la parola di Gesù. Parla, pertanto, sia direttamente, come in quest’occasione, sia tramite Gesù. I discepoli sono convinti che le parole che Gesù dice sono parole di Dio. Lo esprime nitidamente la professione di fede che il vangelo di Giovanni mette in bocca a Pietro a un certo momento del discorso sul pane della vita, fatto da Gesù a Cafarnao: «Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68). È come se gli dicesse: «io credo che ciò che tu dici è parola di Dio, una parola detta per la nostra felicità piena e definitiva». Si attua quindi nuovamente quanto si diceva più sopra: il credente dice a colui che gli parla: «Io credo in te, perciò credo quello che tu mi dici».
In questo consiste precisamente l’essere suoi discepoli, nell’ascoltare la sua parola e assimilarla, facendola propria.
L’atteggiamento di Maria, la sorella di Marta, che seduta ai piedi di Gesù ascolta attentamente la sua parola, costituisce un emblema del credente. Ed egli ci tiene a precisare che «Maria ha scelto la miglior parte» (Lc 10,39.42).
Una fede che diventa azione
Ma c’è ancora un terzo aspetto fondamentale nell’esperienza di fede, quello dell’attuazione della parola ascoltata. Una frase e una parabola di Gesù riferite dai vangeli sono di una inequivoca trasparenza al riguardo. La frase è quella del discorso della montagna in cui egli avverte enfaticamente: «Non chiunque mi dice: ‘Signore, Signore’, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21); frase che poi si prolunga in quest’altra, non meno incalzante:
«In quel giorno [il giorno del giudizio] molti mi diranno: ‘Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demoni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?’. Ma allora io dichiarerò loro: ‘Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità!’» (Mt 7,22).
La parabola è quella dei due figli che sono invitati dal proprio padre ad andare a lavorare nella vigna, e mentre il primo risponde che non ha voglia, ma poi ci va, il secondo dice che andrà, ma poi non ci va. Dopo averla raccontata, Gesù chiede agli ascoltatore: «Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Ed essi risposero, come si poteva aspettare: ‘Il primo’ (Mt 21,28-31).
Credere è, quindi, in ultima istanza, attuare la parola ascoltata. Non basta ascoltare, sia pure attentamente; occorre agire nella direzione della parola ascoltata. In questo senso si può dire che il vero credente è il «praticante».
Purché non si dia a questo termine il senso ridotto – che spesso gli si attribuisce – di frequentare la messa domenicale e gli altri sacramenti della chiesa.
Credere è molto più di questo, è sforzarsi per compiere «la volontà del Padre», quella cioè che Gesù ha compiuto fino in fondo e ha proposto a tutti di compiere. Solo chi si impegna in questa linea si può dire veramente credente.
5. LA FEDE FA VIVERE IL PROGETTO DI GESÙ
Ma, quale è la «volontà del Padre» di cui Gesù parla, e la cui attuazione ha cercato instancabilmente e ha proposto agli altri di attuare? Leggendo i vangeli si vede che essa è, per usare un’immagine da lui stesso adoperata, il tesoro che ad un certo punto della sua vita, probabilmente anche grazie alla sua frequentazione sin da piccolo delle Scritture, egli ha trovato (Mt 13,44), e che è diventato lo stupendo progetto per il quale ha dato tutto, un sogno per la cui realizzazione ha messo in gioco tutte le sue capacità e tutte le sue energie. Nei vangeli sinottici esso viene identificato come «regno di Dio» (Mc 1,14-15; Mt 4,17; Lc 4,43). È ormai convinzione comune nel campo degli studiosi che questo è il cuore dell’esistenza e dell’attività di Gesù Nazareth, ed è anche il cuore della proposta che egli fa a coloro che lo ascoltano. È, si può dire, la sua Parola, che a sua volta traduce la Parola del Padre suo.
Il che implica che se si vuole identificare quale sia il cuore della fede cristiana come risposta alla Parola di Gesù, occorre trovare il significato che ebbe per lui questo «regno di Dio» al quale consacrò appassionatamente tutta la sua vita fino a morirne. Solo così possono essere capite nel loro autentico significato la maggior parte tanto delle sue parole quanto delle sue azioni, e anche la sua morte. Tolte da tale contesto esse corrono il rischio di venir fraintese o stravolte, come non rare volte è successo e succede ancora.
Il regno di Dio
Un dato che si ricava con chiarezza dai vangeli sinottici è che egli aveva una sua peculiare e originale maniera di intendere questo «regno di Dio». Indubbiamente l’espressione non era completamente nuova nell’ambiente in cui egli svolse la sua attività. Non la inventò lui. Aveva infatti degli antecedenti nella lunga storia del suo popolo. L’attribuzione della regalità a Dio era molto presente nella fede del popolo nell’A.Testamento, soprattutto a partire da un certo momento della sua storia (Is 6,5; Ez 3,7-8; 15,18; Salmi regali). Ai giorni di Gesù, come fanno notare gli studiosi, l’espressione era utilizzata fondamentalmente in due sensi, uno presente e l’altro futuro. Nel primo significava che Dio era già re d’Israele, suo popolo, e la sua sovranità era effettiva nella misura in cui si obbediva alla sua volontà manifestata mediante la legge di Mosè. Sottomettersi ad essa equivaleva a «prendere su di sé il regno dei cieli». Nel secondo designava una realtà che doveva ancora manifestarsi, e la sua rivelazione sarebbe consistita nel fatto che un giorno la sua sovranità si sarebbe stabilita non solo in Israele, ma anche in tutto il mondo. In questo senso era una speranza futura, la realtà ultima e definitiva che doveva avvenire. Come si usa dire, era una realtà «escatologica».
Un regno desiderato e atteso
In questo secondo senso il regno di Dio era oggetto di una intensa attesa da parte di larghe fasce del popolo. Esse nutrivano il desiderio che si attuassero finalmente le profezie che lo avevano annunciato (Is 2,2-5; 11,1-9; 63,19; Zc 9,9-10). Al centro di tale attesa c’era l’idea che quando sarebbe piaciuto a Dio rivelare o stabilire il suo regno, tutto il male del mondo sarebbe stato eliminato, tutte le potenze malvagie sarebbero state sconfitte, e coloro che l’avessero accettato sarebbero stati liberati e avrebbero avuto una vita pienamente felice in comunione con Lui. Essi avrebbero avuto una gioia senza fine.
L’attesa era tuttavia differenziata nei diversi gruppi religiosi esistenti all’interno del popolo: farisei, esseni, zeloti, sadducei, il movimento penitenziale suscitato da Giovanni Battista, tutti e ognuno di essi attendevano, pure con sfumature diverse, la venuta del regno di Dio. Anche e in maniera particolare lo attendeva il popolo della gente comune, costituito da uomini e donne che vivevano in grande povertà e insicurezza, spesso oppressi dalle penurie materiali, dalle malattie e dal senso di colpa che seguiva alla loro trasgressione della legge di Dio. Essi attendevano un intervento divino che venisse a cambiare radicalmente la loro sorte.
Desideravano ardentemente che Dio stesso venisse a regnare, perché ciò avrebbe portato la salvezza e la felicità per loro. La loro attesa trovava una chiara espressione nella supplica che, alcuni secoli prima, aveva rivolto a Dio il profeta Isaia: «O se tu squarciassi il cielo e scendessi!» (Is 63,19).
Le manifestazioni del regno
Sullo sfondo di questa diffusa attesa acquista la sua peculiarità propria e inconfondibile l’annuncio di Gesù. Egli si dissociò dalla concezione del regno di Dio che avevano i diversi gruppi del suo popolo, e ne propose una sua, originale. Ovviamente, non chiarì in maniera concettuale ciò che personalmente intendeva per regno di Dio. La sua cultura semitica era lontana da una tale preoccupazione. I semiti avevano una mentalità piuttosto legata all’azione, ed era principalmente attraverso di essa che esprimevano il loro pensiero. Perciò, se si vuole cogliere ciò che Gesù pensava sul regno di Dio, la strada più appropriata è quella di rivisitare soprattutto ciò che egli fece. I suoi discorsi ne saranno una conferma e una chiarificazione, e acquisteranno il loro vero senso a partire dalla sua azione.
Ora, come è ampiamente attestato dai vangeli, la sua attività aveva come destinatari tanto gli individui quanto la società in cui essi vivevano. Nella sua attività in favore dei singoli individui spiccano nei racconti evangelici soprattutto tre tipi di interventi: le guarigioni da malattie corporali, gli esorcismi, e il perdono dei peccati. Attraverso la narrazione di tali interventi si può vedere con chiarezza che Gesù era fortemente mosso dal desiderio di espellere dai corpi, dalla psiche e dal cuore degli uomini e delle donne con cui era a contatto, ciò che li rendeva sofferenti e infelici. Sono interventi che contribuiscono a far capire cosa significhi per lui la venuta del regno di Dio. Essa implica l’espulsione di ciò che non permette loro di vivere una vita normale e sana, e la loro riconduzione ad uno stato di salute e di benessere, quello in cui l’uomo era stato inizialmente creato, secondo la poetica descrizione delle prime pagine della Bibbia. Si può quindi dire che, realizzando questi gesti nei confronti di singoli individui, Gesù poneva dei segni che permettevano di capire cosa significava per lui il regno di Dio che annunciava. Era come se dicesse che il regno di Dio si manifestava, almeno parzialmente e provvisoriamente, attraverso la liberazione dalla loro condizione di malattia corporale, o attraverso l’eliminazione di quelle forze negative che non li lasciavano essere loro stessi, o ancora attraverso la rimozione dal loro cuore del peso della colpa e del debito nei confronti di Dio. Tutte forme di morte che venivano eliminate per dare spazio alla vita. Era come se – dove egli passava – la morte si desse alla fuga. In questo modo si manifestava l’irruzione della sovranità benevola di Dio nel mondo: nella eliminazione della morte e nella sua sostituzione con la vita, e riconducendo in quel modo uomini e donne allo stato in cui egli li aveva creato. Una autentica «risurrezione dei morti».
Forse uno dei racconti più eloquenti da questo punto di vista è quello dell’esorcismo dell’uomo posseduto da uno spirito impuro che Gesù incontra nella regione dei Gadareni, al di là del lago di Gennesaret (Mc 5,1-20). Si tratta manifestamente di un uomo psichicamente squilibrato a conseguenza dell’entrata in lui, come specifica il testo, di una «legione» di spiriti cattivi, avversi a Dio. Dà chiari segni di aver perso ogni rapporto normale con gli altri e con la realtà in genere: vive tra i sepolcri, regno della morte, si aggira nudo, e dà segni di possedere una forza straordinaria ma completamente incontrollata. Gesù ordina con sovrana serenità agli spiriti di uscire dall’uomo. Segue nel racconto una scena alquanto strana, mediante la quale l’evangelista fa vedere plasticamente la tremenda forza di morte che abita in quell’uomo: gli spiriti chiedono ed ottengono di entrare nel numeroso branco di maiali che pascola nei dintorni e li precipitano nel lago. La morte li inghiottisce. Alla fine della scena, colui «nel quale prima c’erano molti spiriti maligni» (Mc 5,15), appare seduto ai piedi di Gesù, vestito e mentalmente sano. È stato restituito a una condizione di normalità. Prima regnava il lui la morte, ora invece regna la vita.
Un aspetto anche sociale
Rivisitando i vangeli si constata che nella sua attività in ordine al regno di Dio, oltre ad agire in favore di singoli individui, Gesù agiva anche nei confronti della convivenza sociale del suo popolo. Si può ipotizzare con ragione che egli non abbia avuto la coscienza sociale che si è andata sviluppando nei secoli posteriori, e che ha acquistato particolare rilevanza nel nostro tempo, ma da ciò che si legge nei racconti evangelici si può desumere pure che era consapevole del fatto che i singoli individui non erano delle isole, ma che viceversa erano condizionati, per il bene e per il male, dai molteplici rapporti di cui era intessuta la convivenza umana. E inoltre, che il loro vivere e il loro morire, il loro stare bene o stare male, essere felici o infelici, aveva a che vedere con tali rapporti.
I suoi interventi all’insegna del regno di Dio prendevano di mira, di conseguenza, anche le situazioni sociali, e in particolare i dolorosi conflitti che attraversavano la società di Israele dei suoi giorni, e che avevano delle ricadute notevolmente negative in particolare sulla vita dei più deboli e indifesi. Erano concretamente tre i principali: il conflitto tra giusti e peccatori, il conflitto tra ricchi e poveri, e il conflitto tra uomini e donne. Nei confronti di queste ingiuste situazioni, Gesù, come si può constatare percorrendo i vangeli, si comporta in un modo ben preciso: cerca la loro eliminazione mettendosi dalla parte di chi ne soffre più pesantemente le conseguenze. Egli vuole che i conflitti vengano superati per il bene e la gioia di tutti, ma principalmente dei più deboli: i peccatori, i poveri, le donne. E in tale modo svela anche il suo modo di pensare il regno di Dio: esso implica l’eliminazione dei rapporti che ingenerano morte e infelicità, e la loro sostituzione con rapporti che ingenerino vita e felicità.
I discorsi sul regno
Come si è detto più sopra, per il fatto di essere culturalmente un semita, Gesù esprimeva il suo pensiero prevalentemente attraverso l’azione; tuttavia, stando a quanto attestano ampiamente le fonti evangeliche, egli lo fece conoscere anche attraverso i suoi discorsi. Essi avevano un andamento per la maggior parte simbolico e narrativo anziché concettuale e argomentativo, e trovarono la loro migliore espressione nelle parabole. Nei vangeli ce ne sono numerose, e gran parte di esse si riferiscono al regno di Dio. Da un’analisi del loro insieme si può cogliere stringatamente quale sia la linea di pensiero che racchiudono: esse comunicano il lieto annuncio che il regno di Dio sta arrivando, pur in mezzo alla debolezza e alle difficoltà, e occorre accoglierlo con cuore aperto e disponibile.
L’analisi dell’azione e dei discorsi di Gesù fornisce quindi elementi decisivi per cogliere la concezione che egli aveva di ciò che stava al centro delle sue preoccupazioni, e che era la «volontà» e «l’opera» di Colui che lo aveva mandato (Gv 4,34). La si può esprimere in maniera concisa dicendo che il regno di Dio era, per lui, l’irruzione nel mondo della benevola e benefica sovranità di Dio; oppure, in forma più concreta, l’affermazione della signoria divina contro tutto il male del mondo; o ancora, il mondo pienamente ristabilito in armonia con la sua volontà originaria.
Quindi, esso riguardava certamente Dio, come si desume dalla formula stessa con cui veniva da lui annunciato; ma – proprio perché era lo stabilirsi della sovranità di un Dio Padre buono, che vuole gratuitamente il bene e la felicità di tutti e ognuno degli esseri umani – riguardava anche gli uomini e le donne concreti con cui egli era a contatto e, più in là ancora, l’intera umanità. Perciò, era regno «di Dio», ma «in favore degli uomini». Era una realtà protesa verso una realizzazione futura, piena e definitiva, ma anche già attuale e presente, lì dove Gesù guariva gli ammalati, liberava gli ossessi, perdonava i peccati, ristabiliva i rapporti vivificanti tra le persone e tra i gruppi e promuoveva la trasformazione delle strutture ingiuste; era una realtà che interessava i cuori delle persone, ossia la loro interiorità più profonda, ma anche corporale; era una realtà individuale, dal momento che concerneva ogni singola persona umana nella sua originalità unica e irrepetibile, ma anche sociale e perfino strutturale; era, infine, universale, poiché destinato, nell’intenzione di Dio, a tutti senza eccezione, ma anche preferenziale perché destinato anzitutto ai più poveri, deboli e piccoli, agli esclusi, agli ultimi tra gli uomini.
Il vangelo di Giovanni, con un linguaggio diverso da quello degli evangelisti sinottici e probabilmente più comprensibile per la sensibilità attuale, condensò la preoccupazione centrale di Gesù in queste concise parole del discorso del Buon Pastore: «Io sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano debordante» (Gv 10,10). La «vita debordante» del testo è l’equivalente del «regno di Dio» dei vangeli sinottici. Essa dice, pertanto, che ciò che stava a cuore prima di tutto e al di sopra di tutto a Gesù, era che gli uomini e le donne fossero liberati da ogni forma di morte e avessero la pienezza della vita. A ciò subordinava ogni cosa, anche la legge di Mosè e lo stesso culto (Mt 5,23-24). Questa è anche, in stringata sintesi, «la Parola» che egli propose a tutti.
6. LE COMUNITÀ CRISTIANE SONO COMUNITÀ «CREDENTI»
D a un punto di vista meramente umano, la vicenda di Gesù di Nazareth finì male: egli fu condannato a morire sulla croce, il più umiliante dei supplizi a cui sottoponevano i romani imperiali, tanto di convertire il termine in un tabù innominabile. Una lettura attenta dei dati evangelici porta a concludere, almeno da un punto di vista storico, che egli finì in questo modo perché quello che annunciava e proponeva urtò contro le prese di posizione di coloro che resistettero ad accoglierlo.
Come si è visto, il suo modo di concepire il regno di Dio era diverso da quello di tutti gli altri gruppi religiosi d’Israele. Egli proponeva, infatti, nel nome di tale regno, un ribaltamento radicale di tutto ciò che si opponeva alla possibilità di vita vera e piena per tutti, a cominciare da quelli che ne erano più privati, e ciò richiedeva necessariamente tra l’altro un nuovo assetto della convivenza sociale, anche a livello strutturale. Per questo egli chiamò sin dall’inizio a una conversione (Mt 1,15), e lungo la sua vicenda denunciò e contestò apertamente e con coraggio gli atteggiamenti, i rapporti e le strutture che si opponevano a tale progetto.
Denunciò e contestò, anzitutto, il modo legalista di rapportarsi con Dio, largamente diffuso nel popolo, che faceva dell’uomo uno schiavo della Legge. Egli dimostrò di non sopportare che il rapporto con il Dio da lui proclamato come Padre tenero e sollecito del bene dei suoi figli, potesse essere vissuto nel timore e nel legalismo. E, soprattutto, che una tale religiosità venisse imposta ad altri, riducendoli alla condizione di schiavi pieni di paura, stanchi e oppressi sotto il giogo della Legge (Mt 11,28-30). Un episodio evangelico illustra bene questo aspetto, quello della guarigione dell’uomo dalla mano paralizzata (Mc 3,1-6). Avvenne in giorno di sabato, in cui secondo alcuni maestri delle Legge non era lecito guarire, perché era giorno dedicato per decreto divino al riposo (Es 16,23; Lc 13,14). Ma a Gesù stava più a cuore la salute e la vita di quell’uomo che l’osservanza materiale del sabato, e lo guarì. I farisei presenti, invece, che avevano il cuore indurito dalla loro ottusa adesione alla Legge, non poterono sopportare colui che, secondo loro, veniva a sconvolgere l’ordine divino con il suo modo di comportarsi. Gesù, dice il testo, li guardò con ira e si rattristò per il loro indurimento di cuore; essi, invece, «uscirono dalla sinagoga e subito fecero una riunione con quelli del partito di Erode per decidere come far morire Gesù» (Mc 3,6). Coloro quindi ai quali disturbava e persino faceva paura il suo modo di concepire il rapporto con Dio, e la sua critica di tutto il sistema religioso che su di esso poggiava, decisero di eliminarlo. Capirono che se lo lasciavano andare avanti con la sua condotta e il suo annuncio, molte cose avrebbero dovuto cambiare radicalmente. Optarono, quindi, per bloccarlo.
Purità rituale e conflitti sociali
Gesù contestò, inoltre, il sistema della purità rituale imperante nel suo tempo, che implicava la divisione e separazione tra ciò che era puro e ciò che era impuro. Un’impurità a sfondo religioso, ma che aveva anche dei risvolti sociali rilevanti. Ad essa lui anteponeva sempre il bene e la felicità delle persone. Uno sei tanti esempi è il modo in cui si comportò nei confronti del lebbroso che gli chiedeva di essere guarito. Egli, «visceralmente commosso, tese la mano e lo toccò», dice il testo (Mc 1,42), passando al di sopra delle leggi che facevano di quell’uomo un impuro (Lv 13,1-17). Un tale comportamento non poteva non scatenare le ire di coloro che a tale legge erano meticolosamente attaccati, data anche la forte sensibilità che si era andata creando al riguardo di essa nel popolo attraverso si secoli.
Un terzo ambito in cui esercitò una forte contestazione fu quello dei conflitti sociali, precedentemente ricordati. Le sue opzioni davanti a detti conflitti lasciavano intravedere chiaramente, a chi le guardava con un minimo d’intelligenza, che egli proponeva una convivenza collettiva organizzata in modo esattamente opposto a quello vigente: i deboli e piccoli non dovevano venir fatti oggetto di esclusione e di emarginazione da parte dei forti e potenti, ma viceversa di attenzione preferenziale. Ciò comportava necessariamente una perdita della situazione di privilegio per «i vincenti». Ma, da quel che si legge nei vangeli, pochi di essi erano disposti a perderla. Piuttosto si indurirono nella difesa dei loro interessi e decisero di togliere di mezzo colui che «sovvertiva la gente» (Lc 23,2).
Il tempio di Gerusalemme
Un’ultima situazione contraria al regno di Dio che Gesù denunciò era quella del tempio di Gerusalemme. Come prolungamento della tenda nella quale Dio aveva voluto dimorare quando il popolo uscì dall’Egitto (Es 26), il tempio era il luogo dove gli si rendeva il culto ufficiale. Ai tempi di Gesù, era quello ricostruito ed abbellito da Erode il Grande. Ad esso affluivano tre volte all’anno gli ebrei da tutte le regioni per celebrare i grandi riti comandati dalla Legge (Es 23,14). Lo amministravano le famiglie dei sommi sacerdoti, che l’avevano convertito in uno strumento di sfruttamento del popolo, esigendo da esso le decime e altre tasse. Inoltre, nel suo cortile grande si sviluppava un rumoroso commercio di animali destinati ai diversi sacrifici prescritti. Oltre a ciò, i ricchi del paese lo usavano come un banco dove depositavano con sicurezza e vantaggi i loro denari. Così, la casa del Dio che si era rivelato inizialmente al popolo in straordinari gesti di liberazione dalla schiavitù egiziaca, col passare del tempo si era convertita in un «covo di briganti» (Mc 11,17). Si può spiegare alla luce di queste circostanze l’infuocata reazione di sdegno che gli evangelisti attribuiscono a Gesù. Tutti e quattro i vangeli, infatti, riportano l’episodio del suo sdegnato intervento (Mt 21,12-16; Mc 11,15-18; Lc 19,45-46; Gv 2,13-16). Secondo essi, in tale occasione egli contestò apertamente il sistema imperante, che costituiva una reale bestemmia contro il Dio del regno. Lo faceva apparire anziché come un Dio di libertà e di vita, come un dio di oppressione e di morte. L’ingerenza di Gesù gli attirò le ire dei capi religiosi del popolo: «Quando i capi dei sacerdoti e i maestri della legge vennero a conoscenza di questi fatti, cercavano un modo per far morire Gesù» (Mc 11,18). Lo ritenevano pericoloso, dunque, perché con le sue critiche al sistema religioso instaurato nel tempio poteva produrre un ribaltamento della situazione. Tanto più che la folla lo ammirava (Mc 11,19). Si rendeva necessaria, quindi, la sua eliminazione. E fu decisa (Gv 11,53).
Sono questi i principali motivi storici che portarono Gesù al patibolo della croce. Infatti, secondo le testimonianze dei vangeli, il primo capo d’accusa che gli venne imputato durante il processo davanti al Sinedrio fu quello di aver parlato contro il tempio (Mt 26,60-61; Mc 14,58); il secondo, invece, davanti al tribunale romano, quello di sovvertire il popolo (Lc 23,2). Sono motivi strettamente legati alla sua attività per il regno di Dio. Egli portò tanto avanti la sua dedizione al suo progetto, che non esitò ad affrontare anche la morte per esso.
La croce di Gesù è, quindi, la conseguenza di una esistenza vissuta fino in fondo per il regno di Dio. Per ciò è anche la massima espressione del suo amore verso il Padre, e allo stesso tempo la massima espressione del suo amore verso i suoi fratelli. In questo senso è la manifestazione culminante della sua maturità, della sua fecondità e della sua gloria, come lascia comprendere il vangelo di Giovanni (Gv 12,23-25).
Le prime comunità cristiane
Dopo la morte violenta che subì Gesù, e superati i primi comprensibili momenti di smarrimento provocati nei suoi seguaci dalla sua tragica fine sulla croce, sorsero le prime comunità cristiane, gruppi di uomini e donne credenti in lui come Signore e Salvatore, trionfatore sulla morte per la potenza vivificante dello Spirito di Dio, come scrisse più tardi Paolo nella sua lettera ai cristiani di Roma (Rm 1,5).
Essi andarono imparando, pur non senza difficoltà ed esitazioni, a incontrarlo vivo. Sono commoventi e illuminanti, tra altri, i racconti di due esperienze di un tale incontro tramandate dai vangeli. La prima è quella di Maria di Magdala, la donna dalla quale per opera di Gesù «erano usciti sette demoni» (Lc 8,2), che poi lo aveva seguito per le strade della Galilea e, a differenza della maggioranza dei suoi discepoli che erano fuggiti, era rimasta ai piedi della croce quando egli morì il pomeriggio del venerdì a Gerusalemme (Gv 19,25). Il suo amore appassionato per lui l’aveva spinta ad andare la domenica seguente, di primo mattino, quando era ancora buio, al sepolcro, e lì a poco a poco andò scoprendo, in un dialogo tutto intriso di tenerezza, la presenza misteriosa del «suo Signore» vivo. Ad un certo punto egli le disse: «Maria!». Ella si voltò e gli disse in ebraico: «Rabbunì!» – che significa: «Maestro!» (Gv 20,16), e si effuse in uno stretto abbraccio dei suoi piedi, tanto che Gesù ebbe a dirle: «Non mi trattenere». Era andata in realtà a cercare il suo cadavere per portarlo con sé (Gv 20,15), e credeva inizialmente di aver visto il custode del giardino dove si trovava il sepolcro, ma poi ebbe la certezza che era il suo Maestro e Signore colui che le parlava con l’accento inconfondibile di sempre. Il racconto conclude con un invio. Gesù le dice: «Va’ dai miei fratelli e di’ loro: ‘Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro’» (Gv 20,17).
L’altro racconto è quello dei due discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35). Anch’essi la domenica dopo la crocefissione se ne andavano da Gerusalemme, tristi e scoraggiati, commentando per strada i tragici eventi vissuti appena due giorni prima, e fecero un’esperienza molto simile a quella di Maria di Magdala. A poco a poco, conversando con lo sconosciuto che si era avvicinato e camminava con loro, sentivano ardere il loro cuore (Lc 24,32), e andarono scoprendo che egli era proprio Gesù vivo e risorto che apriva loro gli occhi perché potessero vedere, in ciò che era avvenuto, «tutto ciò che avevano detto i profeti» su di lui (Lc 24,25). Essi, come Maria di Magdala, come i primi undici Apostoli e come numerosi altri uomini e donne, arrivarono alla ferma convinzione che Gesù di Nazareth, che era stato ingiustamente crocifisso e ucciso, Dio lo aveva risuscitato, liberandolo dai dolori della morte (At 2,23-24).
La vita nel Risorto
Ora, anche questi uomini e donne delle prime comunità si trovavano nella condizione di dover affrontare, come Abramo e come ogni essere umano, le mille forme di presenza della morte che popolavano la loro esistenza personale e sociale. Anch’essi, come Abramo, ma in maniera ancora più rilevante, ricevettero una promessa di vita debordante. Se ne sentono gli echi, per esempio, nel discorso che Pietro, a nome del gruppo degli Apostoli, rivolse a coloro che il giorno della Pentecoste si erano radunati davanti al cenacolo, attratti dai segni della venuta dello Spirito: «Dio ha risuscitato Gesù di Nazareth sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere […]. Per voi e per i vostri figli è la promessa» (At 2,22.24.39); oppure in quello di Paolo ai giudei di Antiochia di Pisidia: «Vi annunciamo la buona notizia che la Promessa fatta da Dio ai padri l’ha compiuta in noi, i figli, risuscitando Gesù» (At 13,32).
Era questo, infatti, il gioioso annuncio che i primi credenti andavano ripetendo, in mille forme diverse, a tutti coloro che li ascoltavano. Lo attesta il libro degli Atti degli Apostoli: «Gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù con grande forza» (At 4,33). Con tale testimonianza dicevano alla gente, in forma equivalente, che Dio aveva già cominciato ad attuare, nella persona di Gesù, che era morto ignominiosamente sulla croce del calvario, la speranza più radicale che si annida nel cuore di ogni essere umano: il superamento totale e definitivo della morte. E inoltre, che questa prima attuazione costituiva una garanzia del superamento della morte per l’intera umanità.
I testi lasciano intravedere che la risposta all’annuncio di quegli uomini e donne non consistette principalmente nel cercare di capirne il significato, cosa che peraltro si sforzavano anche di fare, ma piuttosto nell’impegno di realizzare ciò che esso proponeva e prometteva. Infatti, appena Pietro finì di fare il suo discorso, coloro che lo ascoltavano reagirono chiedendo agli Apostoli: «Fratelli, cosa dobbiamo fare?» (At 2,37). E l’intero libro degli Atti degli Apostoli descrive ciò che gli Apostoli stessi fecero in risposta concreta all’annuncio che facevano agli altri: guarirono lo storpio del Tempio (At 3,1-10), curarono molti ammalati (At 5,15-19), risuscitarono una donna morta (At 9,36-41), liberarono un’alienata sfruttata dai suoi padroni (At 16,16-19)...
Inoltre, la risposta alla Parola ascoltata si concretizzava, da parte di questi primi credenti, nello sforzo di vivere in chiave di risurrezione, ossia organizzandosi in una convivenza comunitaria nella quale il criterio con cui si rapportavano tra di loro e con i beni che possedevano non era quello dell’egoismo che accaparra per sé escludendo gli altri, ma quello dell’amore che condivide (At 4,32-35). Davano così una risposta vivificante al bisogno di superare la morte per asfissia che si produce in ogni essere umano quando rimane chiuso in sé e non condivide se stesso, e di superare la morte per privazione che si ingenera nelle persone quando non condividono ciò che hanno, considerandolo come esclusivamente proprio.
Si potrebbe esprimere quindi l’essenziale dell’esperienza di fede dei credenti dopo la morte e risurrezione di Gesù, dicendo che per essi credere nella sua risurrezione consisteva concretamente in ultima istanza nel «fare» la risurrezione dei morti. Poiché erano fermamente convinti che la morte era già stata vinta da Dio in lui, si impegnavano con entusiasmo e gioia nella sua eliminazione ovunque essa si manifestava tra gli uomini: nel loro corpo, nella loro psiche, nei loro rapporti, nelle loro stesse istituzioni.
7. LA FEDE HA UNO SVILUPPO E UNA STORIA
Questa fede degli inizi entrò nella storia e si andò sviluppando in essa. I credenti sentirono da sempre il bisogno da una parte di esplicitare il denso contenuto di ciò che li aveva colmato di gioia, e dall’altra anche di mantenerlo intatto nella sua genuinità davanti ai rischi di deformazione che andavano sorgendo e che potevano deturparlo.
Il bisogno di esplicitare il contenuto della fede, già presente in qualche misura sin dagli inizi – dato che i credenti erano esseri umani e in quanto tali sentivano il bisogno di «pensare» la fede a cui aderivano – si acuì dopo che, valicando l’orizzonte culturale semitico-giudaico nel quale la loro fede era nata, si aprirono al più vasto orizzonte dell’impero romano. Ne troviamo le tracce nel libro degli Atti degli Apostoli, in cui viene raccontato in un primo momento l’ingresso del primo non giudeo, il centurione romano Cornelio, nella comunità dei discepoli di Gesù (At 10,1-48), e poi l’intensa attività svolta da Paolo e i suoi collaboratori nelle zone ellenistiche a partire da Antiochia, la terza città dell’impero in quell’epoca (At 11,19-26).
Come è risaputo, la sensibilità culturale ampiamente diffusa nell’ambito dell’impero era di tipo ellenistico, una sensibilità fortemente segnata dal desiderio di vedere con chiarezza la realtà. La sua era, per dirla con una frase molto espressiva, una «cultura degli occhi». Ne era un segno manifesto il simbolo della sua filosofia, la civetta, che coi suoi grandi occhi spalancati, scruta le tenebre della notte. In detta sensibilità occupava un posto centrale la ricerca della verità, nella cui contemplazione veniva riposta, in definitiva, stando ai suoi principali pensatori, la felicità dell’uomo. Ciò che principalmente le interessava era quindi di sapere che cosa fosse la realtà in se stessa, e di saperlo sempre più pienamente; di impadronirsene, quindi, mediante la conoscenza. Pertanto, anche di spiegarla, di darsi ragione della sua esistenza, della sua natura o essenza, del suo funzionamento. Fondamentalmente si poneva tre domande: che cos’è? perché è? come è?
I cristiani, entrando in questo nuovo mondo culturale, sentirono il bisogno di calarvi il messaggio di Gesù di cui erano entusiasti portatori. Di «inculturarlo», si direbbe oggi. Lo fecero agli inizi con non poche incertezze ed esitazioni e perfino con errori, ma poi finirono per trovarsi in esso come a casa propria. Dopo non molto tempo, questa nuova comprensione del contenuto della loro fede parve loro ovvia e scontata. E perfino definitiva. Tanto che trovarono difficoltà nello spostarsi ad altri orizzonti di pensiero.
Tale inculturazione fece sua la finalità prioritaria della sensibilità ellenistica. Di conseguenza, ciò che perseguì in maniera prioritaria fu «l’intelligenza della fede». Partì cioè dalla convinzione che gli enunciati della fede svelano all’uomo il mistero di Dio e dell’intera realtà, e cercò conseguentemente di approfondirli, sotto la guida delle domande accennate, per conoscere sempre meglio ciò che essi contenevano. La fede fu così ritenuta uno strumento di conoscenza di quanto Dio aveva rivelato. «Credo per comprendere», scriveva S. Anselmo d’Aosta nel sec. XI, e con tali parole esprimeva in forma programmatica l’intenzionalità prioritaria di questo tipo di approccio alla fede, una intenzionalità che la segnò profondamente e le diede unità attraverso i secoli, malgrado i cambiamenti che si andarono avverando in essi.
Così nacquero storicamente nella chiesa le grandi elaborazioni dottrinali, alcune delle quali sono dei veri monumenti ammirevoli, innalzati dallo sforzo della mente umana nell’esplorazione del mistero di Dio e delle cose da Dio rivelate.
L’operazione comportava anche dei rischi, che non sempre furono superati. Uno di essi fu quello di perdere di vista il punto di partenza. A forza di elaborare delle dottrine sempre più raffinate sul messaggio centrale di Gesù di Nazareth, si finì più di una volta per ricoprirlo con dette formule dottrinali in tale modo da farlo quasi scomparire. A non pochi credenti di oggi, particolarmente ai giovani, risulta difficile cogliere quel messaggio iniziale nelle formule che vengono enunciate nella catechesi, nella predicazione e nelle stesse celebrazioni liturgiche.
Integrità del messaggio ed «eresia»
Occorre dire che la elaborazione di tali formule venne spesso provocata – nella sua origine e nel suo sviluppo – dal bisogno di difendere la genuinità della fede dalle deviazioni che sono andate sorgendo nel corso dei secoli. Già quasi nei primi momenti ci sono stati alcuni che hanno fatto dei loro sistemi di pensiero il mitico «letto di Procuste» con il quale misurare la figura di Gesù Cristo. Anziché prenderla nella sua integralità, la ritagliarono per farla coincidere con le loro idee. Perciò le loro formulazioni sono state considerate come «eretiche».
Un esempio palese è quello del «subordinazionismo», propugnato nel sec. IV dal prete alessandrino Ario. Egli, che aveva abbracciato la diffusa visione neoplatonica della realtà, in cui il Verbo occupava un posto centrale come mediatore nel rapporto tra l’Uno supremamente perfetto e il mondo imperfetto, filtrò attraverso tale schema la figura di Gesù Cristo, che era stato proclamato dal vangelo di Giovanni come il Verbo fatto carne (Gv 1,1.14), e ne dedusse la sua inferiorità nei confronti di Dio, dal momento che era stato creato da Lui prima di tutte le cose per poi, tramite la sua azione, creare tutto il resto. «C’è stato un tempo in cui [il Verbo] non esisteva», era la formula che concentrava tutto il suo pensiero. La chiesa del tempo, già ampiamente ellenizzata, reagì contro ciò che riteneva essere un attentato contro l’uguaglianza di Gesù con Dio affermata dalle Scritture (Gv 1,1; Fil 2,9-11), e la combatté strenuamente. Da tali polemiche venne fuori, nel primo concilio ecumenico celebrato a Nicea nel 325, la solenne professione di fede espressa nel suo simbolo:
«Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente […]. Ed in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli: […]. Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create».
Arrivare a una formulazione di questo genere costò dei grandi sforzi intellettuali, implicò delle discussioni molto raffinate e significò introdurre nell’ambito della fede delle espressioni tipicamente filosofiche, come quella della «consostanzialità» del Figlio con il Padre. In tale modo si cercò di mantenere intatta «la fede di sempre» (Gd 3), difendendo la sua genuinità. Implicò tuttavia, come fanno notare gli studiosi, un grave rischio, quello di prendere una piega notevolmente astratta, metafisica, allontanandosi dalla storia. Anziché mettere al centro della fede il Gesù concreto dei vangeli e il suo annuncio del regno di Dio, si finì per mettervi il Verbo eterno «consustanziale con il Padre». Ne è una dimostrazione il fatto che nel Credo citato si omette ogni allusione alla vicenda storica di Gesù, e si passa direttamente dalla sua incarnazione nel senso della Vergine Maria alla sua morte in croce. Un indirizzo che si andò ulteriormente accentuando nei grandi concili ecumenici che seguirono, e poi nella teologia e persino nei catechismi, riflettendosi anche nella liturgia.
Si elaborarono delle formule che aiutarono a mantenere la genuinità della fede nel momento storico in cui vennero forgiate, quasi come delle lenti con cui vedere meglio la figura di Gesù Cristo, ma che oggi spesso si convertono in un ostacolo e in una opacità che la nascondono. Lo diceva recentemente Benedetto XVI nel suo libro Luce del mondo:
«Spesso [Gesù Cristo] è stato presentato con formule senz’altro vere che però sono insieme inerti. Esse non riescono più a penetrare nel contenuto della nostra vita e spesso ci risultano incomprensibili […]. Dobbiamo quindi cercare di dire veramente l’essenziale come tale, ma dirlo con parole nuove […]».
8. I TESTIMONI DELLA FEDE
Mentre nella chiesa si lavorava a certi livelli nella formulazione dei contenuti della fede, più di una volta, come si è detto, anche con atteggiamenti polemici contro chi la avversava o la travisava, la maggioranza dei suoi membri si sforzava di vivere alla sua luce e sotto la sua guida. In altre parole, di testimoniarla con la propria vita.
Certo, non tutti con la stessa intensità e coerenza. Non mancarono dei casi, più o meno numerosi, in cui alcuni si comportarono da questo punto di vista in maniera che potremmo chiamare «schizofrenica». Un po’ come veniva denunciato già dai profeti dell’A.Testamento, che mettevano sulle labbra di Dio questa sferzante accusa: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Is 29,13; cf Mt 15,8; Mc 7,6). Il divario tra la professione della fede e la vita vissuta li portava a vivere un’esistenza scissa in due, che non giovava né alla fede né a loro stessi. Per di più alcuni di essi erano alle volte acerrimi difensori dell’ortodossia dottrinale, e si battevano strenuamente in salvaguardia delle formule imparate dalla predicazione o nel catechismo. Era in realtà una autentica anti-testimonianza.
Ma come contropartita ci sono stati non pochi uomini e donne, anche molto semplici, che hanno cercato di vivere con coerenza, pur nei limiti propri della debolezza umana, ciò in cui credevano. Si sforzarono cioè di calare la fede nella loro vita quotidiana di famiglia, di lavoro, di impegno scientifico, sociale, politico … E ciò non è avvenuto solo nel passato, ma è una realtà anche nel presente.
Alcuni, poi, portarono la loro coerenza di fede vissuta a un grado elevato di attuazione: sono i santi e le sante. Essi hanno creduto fino in fondo alle proposte della fede e hanno realizzato quanto esse suggerivano loro. Anche rinunciando alle volte ad altre prospettive molto allettanti. Si tratta di quelli uomini e donne che la chiesa ha ritenuto opportuno proporre come modelli di vita credente, cioè quelli che sono stati beatificati o canonizzati dopo processi più o meno lunghi e complessi di verifica della loro santità. Ce ne sono di tutti i tipi e di tutte le condizioni sociali: donne e uomini, anziani e giovani, sani e ammalati, poveri e ricchi, colti e ignoranti, sposati e celibi … Ma oltre a questi ci sono stati e ci sono molti altri e altre che, nel nascondimento e senza nessun riconoscimento ufficiale, con la loro modesta vita di ogni giorno hanno reso e rendono una chiara testimonianza della fede che professano.
Martiri ieri e oggi
Un caso particolare è quello dei martiri. Quei credenti cioè che hanno dato letteralmente la loro vita in fedeltà alla loro professione di fede. Nei primi secoli del cristianesimo, quando ancora credere in Gesù Cristo era ufficialmente vietato nell’impero romano, una serie quasi ininterrotta di persecuzioni fece innumerevoli vittime, alcune di esse celebri per il coraggio dimostrato malgrado la loro naturale debolezza. I diversi Atti dei martiri ne sono una impressionante dimostrazione, e la chiesa ne conservò la memoria anche nel momento della celebrazione eucaristica, ricordando espressamente i loro nomi: Lino, Cleto, Clemente, Sisto, Cornelio e Cipriano, Lorenzo, Crisogono, Giovanni e Paolo, Cosma e Damiano, Giovanni, Stefano, Mattia, Barnaba, Ignazio, Alessandro, Marcellino e Pietro, Felicita, Perpetua, Agata, Lucia, Agnese, Cecilia, Anastasia (Canone Romano); ma oltre a questi ce ne sono stati migliaia e migliaia di altri che non hanno esitato a sacrificare la propria vita pur di essere fedeli alla fede che avevano abbracciato.
Il martirio non è tuttavia solo una realtà dei primi tempi, ma è stato presente sempre, per diversi motivi, lungo i duemila anni di storia della fede. Lo è anche attualmente. Il 29 agosto 2004 Giovanni Paolo II, nel discorso all’Angelus, disse:
«Anche oggi, in alcune parti del mondo, i credenti continuano ad essere sottoposti a dure prove per la loro adesione a Cristo e alla sua chiesa». E secondo autorevoli statistiche recenti, «ogni anno i cristiani uccisi nel mondo per la loro fede sono 105.000, uno ogni cinque minuti» (Center for Study of Global Christianity).
È interessante rilevare che ultimamente il concetto di martirio si è allargato. Mentre infatti in passato era visto principalmente come testimonianza di fedeltà alla fede in genere, o ad alcuno dei suoi contenuti dottrinali, si potrebbe quindi dire alla fede come ortodossia, oggi lo si vede anche come testimonianza di fedeltà alla fede come ortoprassi. Alcuni dei martiri più recenti sono appunto stati considerati tali per la loro difesa fino a morirne della dignità umana, come coloro che sono stati uccisi per salvare la castità minacciata sia propria (S. Maria Goretti, B. Antonia Messina) che di altre persone (S. Luigi Versiglia e S. Callisto Caravario), o della giustizia sociale, come coloro che sono stati assassinati per il loro coraggioso e irremovibile impegno in favore dei più bisognosi (B. Jerzy Popieluszko; mons. Oscar Romero), oppure per la donazione della propria vita affinché altri potessero continuare a vivere (S. Massimiliano Kolbe). Comunque, i martiri restano sempre come un pungolo alla fede dei credenti di tutti i tempi.
9. LA FEDE VA NUTRITA
La fede cristiana nasce, come si è detto, dall’ascolto e dall’accoglienza del messaggio evangelico. Paolo nella sua lettera ai cristiani di Roma dice che «la fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo» (Rom 10,17). Dei primi credenti gli Atti degli Apostoli attestano che «erano assidui nell’insegnamento degli apostoli» (At 2,42), i quali «davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù» (At 4,32).
Due cose si possono apprendere da queste stringate informazioni. La prima è che per poter mantenersi in vita, e soprattutto per poter crescere, la fede ha bisogno di essere nutrita. Essa è come una pianta che se non viene innaffiata finisce per morire, e solo se la si innaffia può continuare a crescere e a dare frutti. La «assiduità» a cui allude il testo citato si può intendere in questo senso. Anche se la fede fosse una mera adesione a delle dottrine, essa avrebbe bisogno di un continuo sforzo di approfondimento delle verità apprese per arrivare a una loro migliore comprensione; ma, come si è visto, essa è molto di più di una adesione a delle verità: è un «modo di vivere», e come tale richiede un nutrimento adeguato. Tanto più che il modo di vivere che propone prende le distanze da altri modi, e in più di un caso si contrappone ad essi.
L’esempio più palese è quello del modo di rapportarsi con i nemici, che costituisce una delle caratteristiche più clamorosamente controcorrente della proposta evangelica. Seguendo quanto disse Gesù nel suo discorso della montagna, la fede richiede di «amare i propri nemici» (Mt 5,44). È uno degli orientamenti in cui maggiormente si evidenzia il tipo di convivenza che egli prospetta, quello che implica l’amore gratuito modellato sull’amore del Padre, che «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45). La proposta implica un «modo di vivere» che non è spontaneo. Anzi, qualcuno lo ha considerato errato o anche irraggiungibile. Qualche tempo fa Jacob Neusner, un «grande erudito ebreo», come lo definì Benedetto XVI nel suo libro Gesù di Nazareth, riteneva che in questo punto Gesù, che pure ammirava in tanti altri aspetti, aveva sbagliato. E più di uno pensa che la proposta di amare coloro che ci sono nemici perché non vogliono il nostro bene e persino vogliono e fanno il nostro male, è inattuabile. Questo caso estremo fa capire la necessità che ha la fede di nutrimento.
La seconda cosa che si può ricavare è che la fede deve nutrirsi ascoltando con assiduità «l’insegnamento degli Apostoli», un insegnamento attraverso il quale i credenti ricevono «la parola di Cristo». Ci sono molti mezzi mediante i quali tale parola può raggiungerli. Uno di essi, del tutto privilegiato stando a quanto ha ribadito con forza il Vaticano II nella sua Costituzione sulla liturgia, è la proclamazione dei testi della Bibbia che viene fatta durante la celebrazione liturgica dell’Eucaristia e degli altri sacramenti. Dice infatti la Costituzione: «Quando nella chiesa si legge la sacra Scrittura è lui [Cristo] che parla» (SC 7). È una delle forme in cui Gesù Cristo si fa presente alla comunità ecclesiale, oltre a quelle dell’assemblea stessa, di chi la presiede e del pane e vino consacrati.
Ma, ampliando lo sguardo, lo stesso Concilio afferma: «È necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla sacra Scrittura» (SC 22). Quindi, dopo secoli di ciò che si potrebbe chiamare «l’esilio della Bibbia», si propone un ritorno massiccio alla sua frequentazione. Uno degli effetti collaterali negativi delle decisioni del Concilio di Trento nel suo tentativo di arginare i rischi che aveva provocato la Riforma protestante, fu infatti quello di allontanare sempre più i cristiani cattolici, soprattutto i laici, dal contatto diretto con i testi biblici. Si era arrivati ad un situazione paradossale nella quale, mentre i protestanti si vantavano di una dimestichezza e di una conoscenza spesso anche profonda della Bibbia, i cattolici avevano quasi paura di tenerla fra le mani. Ordinariamente solo ne ascoltavano la lettura, e per di più in una lingua che ormai non capivano, nelle celebrazioni liturgiche.
Per effetto di svariati fattori, da qualche tempo non pochi gruppi ecclesiali avevano cominciato a reagire a tale situazione. Una ventata di entusiasmo per la lettura della Bibbia invase la chiesa nei decenni che precedettero immediatamente il Vaticano II. Tale entusiasmo trovò espressione anche nella sua Costituzione Dei Verbum, in cui più di una volta si invita i credenti in genere, e le diverse categorie ecclesiali in particolare, a riprendere in mano la Scrittura. Quasi come tracciando un programma di impegno ecclesiale dice: «La Parola di Dio deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo» (n. 26). Si è così lontani da quella interdizione che, per ragioni di una certa prudenza pastorale, era stata in vigore per parecchio tempo, producendo a lungo andare un vero allontanamento della Bibbia dalla chiesa. Il recente Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio nella vita e nella missione della chiesa ne è un’ulteriore conferma.
L’autentico messaggio
Naturalmente, non basta l’ascolto dei testi, è indispensabile che lo accompagni lo sforzo di cogliere in essi ciò che è veramente «parola di Cristo», ossia il suo messaggio fondamentale. Cosa che risulta facile e persino quasi scontato in molti casi, ma non è altrettanto facile in altri, data la natura dei testi biblici. Richiede, più di una volta, l’utilizzazione di strumenti adeguati a tale scopo. A detta utilizzazione si riferì espressamente la già citata Costituzione Dei Verbum. Ribadì anzitutto il fatto che «Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana» (n. 12), e che quindi, per capire ciò che Dio ha voluto dire, occorre cercare il senso che lo scrittore del testo intese esprimere ed espresse nelle sue determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso. E aggiunse poi che per comprendere nel suo giusto valore ciò che lo scrittore volle asserire nello scrivere, si deve fare attenzione agli abituali e originari modi di intendere, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi che allora erano in uso nei rapporti umani (DV 12).
Ciò significa che va scartata una lettura «fondamentalista» o «letteralista» della Bibbia in genere e dei vangeli in particolare. Infatti, come attesta l’esperienza, la massima fedeltà letterale ai testi finisce spesso per costituire in realtà un’autentica infedeltà al loro vero senso. In più di un caso, nel tentativo di essere fedeli alle parole, si finisce per diventare infedeli alla Parola che vogliono comunicare. Leggere, per esempio, i vangeli senza tener conto della loro natura di scritti elaborati da alcuni credenti in Cristo per illuminare e alimentale la fede di altri credenti in Cristo, è travisare totalmente il loro senso fondamentale. Si può far dire ai testi ciò che essi non vogliono dire, oppure perfino l’opposto di ciò che essi vogliono dire.
Occorre tener presente, infine, che la «parola di Cristo» non si rende presente solo attraverso la Bibbia. Egli parla anche, come avremo occasione di dire più avanti, attraverso gli avvenimenti della storia umana, e in maniera del tutto particolare attraverso la situazione di sofferenza e di bisogno degli uomini. La parabola del cosiddetto «giudizio finale» è un testo chiave al riguardo. In essa il re-giudice, che è Gesù Cristo, il Figlio dell’uomo, si rivolge a tutti i popoli radunati davanti al trono della sua gloria dicendo ad alcuni: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,35-36), e ad altri: «Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato» (Mt 25,42-43). La solennità della scena sta a dire dell’importanza del messaggio che si vuole trasmettere.
Al di là della rappresentazione «drammatica», ciò che interessa è quello che Gesù vuole enunciare: è il criterio ultimo per valutare l’autenticità dell’esistenza umana, quello dell’amore fattivo verso il bisognoso.
10. LA FEDE SI CONDIVIDE
Come si coglie nel racconto della prima esperienza credente, la fede in Cristo morto e risorto non è un fatto individuale, pur implicando la libera decisione di ogni singola persona, ma si vive in comunione (At 2,44). Da questa comunione nasce precisamente la chiesa come «comunità di fede».
Occorre tuttavia rilevare subito che esiste una comunione nella fede che va oltre l’accettazione degli enunciati espliciti in cui essa si esprime. La si potrebbe definire come comunione nella «fede operativa». Consiste nel condividere l’attuazione di ciò che la sostanza del suo annuncio propone. Come si diceva poco sopra, chi dà da mangiare all’affamato e da bere all’assetato, chi veste l’ignudo o visita l’ammalato e il carcerato è, pur senza saperlo e forse anche senza volerlo, in comunione di fede operativa con tutti quelli che cercano di realizzare ciò che Gesù ha proposto. Da tale comunione nasce la grande comunità di tutti coloro che sono uniti dallo stesso Spirito che dà vita (GS 22e), e che va molto al di là della comunità ecclesiale visibile e organizzata, perché ha le dimensioni del mondo intero.
Tuttavia, e senza eliminare questo primo dato di rilievo, ce n’è un altro pure importante: esiste la chiesa come comunità di credenti in Cristo. Fanno parte di essa coloro che hanno deciso di impegnarsi nell’attuare ciò che Gesù ha proposto alla luce del suo evangelo. Essi non sono solo in comunione di azione, ma condividono anche la visione della realtà e della vita propria di Gesù, il modo in cui egli stesso l’ha vista e l’ha affrontata. Sono fermamente convinti che questa maniera di vedere le cose è la più ricca e la più feconda per l’umanità, come ebbe a dire Paolo VI nella sua Esortazione Apostolica Evangelii Nuntiandi (n. 53), pur senza negare che ce ne siano altre pure ricche e feconde. Perciò aderiscono saldamente ad essa.
Da questa visione evangelica della realtà, i credenti in Gesù Cristo ricevono luce per affrontare ed illuminare i problemi che la vita e la storia vanno presentando. Per questo, dietro le orme dei primi discepoli, anch’essi cercano di tornare spesso a prendere contatto con il vangelo per poter cogliere tutte le sue implicanze. Una comunità ecclesiale che non frequentasse la Parola evangelica finirebbe per inaridirsi, o per assumere come guida del suo modo di comportarsi e di agire altre proposte che non sono quella che dovrebbero conferirle la sua identità. È anche questo uno dei motivi che consigliano un ritmo settimanale d’incontro nell’Eucaristia, la cui prima parte è centrata sull’ascolto della Parola di Dio.
Come si è già accennato per inciso precedentemente, in alcuni momenti della sua storia la chiesa è stata perfino eccessivamente preoccupata della comunione dei suoi membri nella stessa fede. L’eresia, in quanto rottura di tale comunione, costituì per essa come un incubo che mise a dura prova la sua serenità. Una notevole quantità di concili, regionali ed ecumenici, ebbero come obiettivo prioritario la lotta contro gli errori gravi o meno gravi che incrinavano la dottrina. Davanti a questo dato innegabile, bisogna anzitutto ribadire ancora una volta l’importanza che riveste la condivisione degli enunciati della fede: se la comunità ecclesiale non ne fosse convinta, non li custodirebbe con tanto zelo. Sa che, come ricordava ancora Paolo VI, l’infedeltà ad essi rischia di mettere a repentaglio la salvezza degli uomini (EN 53). È quindi convinta che non è indifferente abbracciare e proporre qualunque annuncio. Quello di Gesù Cristo è, per i credenti, il più fecondo, il più capace di contribuire alla salvezza degli uomini. Perciò ci ha tenuto sempre, e ci tiene tanto anche al presente, a custodirlo con estrema fedeltà.
D’altra parte occorre pure ricordare che se il senso genuino di questa comunione nell’unica fede viene meno, i suoi contenuti finiscono per convertirsi in una ideologia astratta e statica che trasforma l’ortodossia in un fanatismo generatore di morte, come ricordavamo, nei tempi della cosiddetta «Santa Inquisizione». È di somma importanza, quindi, tener presente che l’ortodossia della fede è al servizio della vita più piena degli uomini e che, pertanto, è sempre un mezzo e non un fine.
Ciò comporta, fra altre cose, il bisogno di rivedere costantemente gli enunciati in cui essa viene espressa, affinché conservino la loro autentico senso. I membri della chiesa non sono in comunione nella stessa fede perché custodiscono insieme qualcosa di passato e di morto, ma perché condividono una risposta seria e impegnata ai problemi reali degli uomini alla luce del vangelo.
È anche importante tener presente che la proposta evangelica, che i cristiani sono chiamati ad abbracciare nella sua integralità, può venire accolta, sia pure solo in parte, da altri uomini e donne che non sono membri della chiesa. E che anche all’interno della comunità ecclesiale può avvenire qualcosa del genere. Un fenomeno che attualmente si verifica con una certa frequenza, soprattutto nel mondo dei giovani. La ragione è che si vive oggi in una società fortemente frammentata. Il fatto di vivere una pluralità di appartenenze porta spesso, particolarmente i giovani, a essere selettivi nei confronti dei contenuti della fede che propone la comunità ecclesiale. In altri tempi si è reagito in maniera piuttosto drastica davanti a situazioni come queste, applicando il criterio integrista del «o tutto o niente»: chi non accoglieva tutte e ognuna delle verità della fede, veniva estromesso dalla comunità ecclesiale. In pratica «scomunicato», ossia tagliato fuori dalla comunione. Oggi invece sembra che tale criterio si deva allentare, date la condizioni socio-cultuali dei credenti. Certo, va saldamente mantenuta la convinzione che nella fede ci sono degli elementi essenziali che non possono venir tralasciati senza cambiarla sostanzialmente, perché sarebbe intaccarla nel suo nucleo; ma, allo stesso tempo, va riconosciuto che ci sono altri aspetti della fede che hanno dei rapporti più tenui con tale nucleo. Il Vaticano II ha parlato, in questo contesto, di una «gerarchia delle verità» all’interno della fede stessa (UR 11; cf EN 25).
Flessibilità ed ecumenismo
Una prima conseguenza di questo cambio di prospettiva è che, all’interno della chiesa stessa, non risulta tanto facile dichiarare qualcuno «eretico», come accadeva in altri tempi. La visione evangelica delle cose, infatti, lascia un ampio margine di flessibilità per molti aspetti che non sono essenziali. Probabilmente, se in passato la comunità ecclesiale avesse tenuto maggiormente conto di questo dato, non si sarebbe arrivati alle rotture tra i diversi gruppi di cristiani (ortodossi, protestanti) che si sono dolorosamente avverate in diversi momenti della storia.
Una seconda conseguenza riguarda il rapporto tra le diverse chiese che si dicono cristiane, ossia il problema dell’ecumenismo. Il fatto di riconoscere l’esistenza di una gerarchia tra gli enunciati della fede ha già avuto, e continua ad avere, una grande incidenza in quest’ambito. In esso ora le numerose chiese cristiane tendono ad ammettere che, in realtà, è, – come amavano sottolineare Giovanni XXIII e Paolo VI, – «molto più quello che ci unisce che quello che ci separa». In genere, ciò che attualmente separa ancora i diversi gruppi di cristiani è costituito da componenti della fede che si situano a una certa distanza dal cuore del messaggio evangelico. Alle volte, più che di contenuti diversi si tratta di ottiche o modi di vederli culturalmente diversi. Si capisce allora perché il documento conciliare sull’ecumenismo, intitolato Unitatis Redintegratio, abbia abbandonato il criterio integrista in questo contesto, sostituendolo con quello della gradualità nella comunione (UR 3-4). La meta dello sforzo ecumenico consiste, quindi, nel superare ciò che ancora divide le chiese che si ispirano alla persona e al messaggio di Gesù Cristo, e nell’arrivare alla piena comunione di fede, senza però auspicare una uniformità nel modo di esprimerla.
Ancora una questione si ricollega strettamente con ciò che è stato finora detto. Un certo modo di concepire la fede nel passato aveva portato a dimenticare quasi completamente la componente esistenziale dell’adesione ad essa. Come se il credere si producesse all’insegna della sola intelligenza. Più realista su questo punto si dimostrava ai suoi tempi S. Tommaso d’Aquino, il quale sosteneva che, umanamente parlando, il motivo ultimo per il quale ci si decide a dare l’assenso alla fede è il fatto di trovare in essa un appagamento del proprio appetito di felicità. Affermava infatti, in termini equivalenti: «Oggetto della fede sono le cose che riguardano la felicità dell’uomo» (Summa theologica IIa IIae, II 5).
Quest’osservazione porta a concludere che, come si è detto precedentemente, solo chi scopre – sia pure solo intuitivamente – il collegamento tra gli enunciati della fede e il proprio desiderio di pienezza di vita e felicità può dare ad essi il proprio consenso. E ciò non avviene, ordinariamente, da un momento all’altro, ma richiede tempo e pazienza.
E richiede inoltre grande rispetto del ritmo proprio di ogni persona. Probabilmente, date le condizioni di pluralismo e frammentarietà di cui parlavamo sopra, alcuni uomini e donne, e soprattutto alcuni giovani, non arriveranno mai a un assenso totale e definitivo a tutti i contenuti secondari della fede.
11. LA FEDE SI CELEBRA IN COMUNITÀ
Nel libro degli Atti degli Apostoli si dice che oltre a frequentare assiduamente l’insegnamento degli Apostoli – frequentazione che consolidava la loro comunione nella stessa fede in Cristo risorto e vivo – i membri della prima comunità erano anche assidui «nella frazione del pane e nelle preghiere» (At 2,42). Viene evidenziata, in queste poche parole, la dimensione cultuale della comunità credente delle origini. Si tratta di una delle componenti costitutive delle comunità credenti di tutti i tempi: esse sono chiamate a celebrare la loro fede nel culto.
Le caratteristiche del culto
Al riguardo è bene rilevare, come prima cosa, che il culto cristiano ha delle caratteristiche proprie e peculiari che lo rendono originale nei confronti sia dei culti pagani che dello stesso culto dell’Antico Testamento, soprattutto in ciò che esso ha di meno evoluto o perfino di deteriore. La sua originalità si riallaccia alla tenace azione svolta dai profeti per dare autenticità al culto. Percorrendo la Bibbia si constata, infatti, che una delle loro preoccupazioni più importanti fu quella di lottare contro un modo di praticare il culto a Dio che finiva per convertirlo in una azione puramente esterna e ritualista.
Basta ricordare, a modo di esempio e per averne una conferma, un testo in cui il profeta Amos, parlando a nome di Dio, rinfaccia con parole durissime al popolo del regno del Nord la falsità del suo culto:
«Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni; anche se voi mi offrite olocausti, io non gradisco i vostri doni e le vittime grasse come pacificazione io non le guardo. Lontano da me il frastuono dei tuoi canti: il suono delle tue arpe non posso sentirlo. Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia scorra come un torrente perenne» (Am 5,21-24).
Forse ancora più esplicito su certe caratteristiche di tale pratica rituale è Isaia:
«Udite la parola del Signore, voi capi di Sodoma; ascoltate la dottrina del nostro Dio, popolo di Gomorra! ‘Che m’importa dei vostri sacrifici senza numero?’ dice il Signore. ‘Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che veniate a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità […]. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova’» (Is 1,10-17).
Si vede con chiarezza da questi testi come i profeti dell’A.Testamento mettevano in crisi la falsa sicurezza del popolo nel suo rapporto con Dio, un rapporto che si fondava non su di una vita di impegno nel realizzare ciò che egli si attendeva da loro, ma sulla mera pratica di alcuni riti esteriori.
Secondo le testimonianze dei vangeli, Gesù fece pienamente sua la linea dei profeti e la approfondì ancora ulteriormente, lottando apertamente contro l’ipocrisia di un culto al quale non corrispondeva l’impegno della vita, e annunciando al suo posto un culto nuovo, realizzato, come egli dice nel dialogo con la Samaritana, «in spirito e verità» (Gv 4,23). Il racconto di Mc 7,1-13 è uno dei più eloquenti da questo punto di vista. Ai farisei e agli scribi, scrupolosi osservanti di tutte le prescrizioni rituali stabilite dalla Legge, Gesù rinfaccia l’inautenticità del loro culto. La ragione di tale inautenticità viene da lui riposta nel fatto che essi, in nome del culto a Dio, impediscono ai figli di aiutare i loro genitori bisognosi, annullando così la Parola di Dio in forza della tradizione umana. Infatti, secondo l’uso introdotto nel popolo, quando un figlio che possedeva dei beni li dichiarava corban, ossia dedicati al culto, restava automaticamente liberato dall’obbligo di assistere con essi i propri genitori anche se bisognosi. In questo modo si lasciava da parte il precetto fondamentale dell’amore del prossimo, nel caso concreto dei genitori, per rendere culto a Dio.
Il senso rituale/esistenziale del culto
Una ricerca approfondita sugli scritti neotestamentari ha portato alcuni studiosi a concludere che in essi vengono spesso utilizzati termini del vocabolario cultuale («vittima», «olocausto», «sacrificio», «liturgia») con due sensi diversi: quando si riferiscono al culto pagano o ebraico, hanno un senso rituale; quando invece si riferiscono al culto cristiano, hanno sempre un senso esistenziale e designano gli atti della vita comune e quotidiana nei quali si esprime l’amore e la dedizione agli altri. Uno dei testi più significativi al riguardo è quello in cui Paolo scrive ai cristiani di Roma: «Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rom 12,1). Con tali parole l’Apostolo intende dire che mentre il culto dell’A.Testamento consisteva nell’offrire a Dio delle vittime immolate in suo onore, ora, dietro l’esempio di Gesù, esso consiste invece nell’offrire se stessi nella vita di ogni giorno, in una vita vissuta secondo la sua proposta. E poi aggiunge: «Questo è il vostro culto spirituale», come a dire che non ne possono avere un altro.
In sintesi, si può dire che il culto reso a Dio, secondo gli scritti neotestamentari, si esercita in ogni atto della vita a lui veramente gradito. In questo modo diventa comprensibile che Dio possa avere degli adoratori «in spirito e verità» ovunque, anche oltre le frontiere visibili della comunità ecclesiale. Infatti, ogni uomo di buona volontà, che vive cercando di collaborare al bene e alla vita più piena degli altri, rende in ciò stesso culto a Dio, anche senza saperlo.
In questo modo viene anche superata la classica dicotomia, profondamente radicata in molti popoli e, almeno parzialmente, anche nel popolo della Bibbia, tra sacro e profano. Per quei popoli, infatti, la realtà era come scissa in due: da una parte il mondo del sacro, nel quale avveniva l’incontro salvifico con il divino e al quale appartenevano persone, luoghi, tempi, cose e azioni destinate esclusivamente a fare da mediazione di detto incontro; dall’altra il mondo del profano, vuoto di presenza salvifica divina e al quale apparteneva tutto il resto che non era stato riservato al culto. Alla luce di quanto Gesù fece e propose, tale dicotomia resta completamente abolita. Nel suo pensiero non esistono, infatti, né persone, né cose, né luoghi, né azioni che siano di per sé privi della presenza divina; anzi, tutto ciò, se vissuto secondo il suo volere, si converte in culto a Dio. È questo che spiega perché i primi cristiani non abbiano avuto inizialmente templi per realizzare le loro liturgie, ma abbiano celebrato la Cena del Signore nelle case di famiglia (At 2,46), e non abbiano utilizzato oggetti particolarmente riservati per il culto (calici, altari), né abbiano avuto delle persone riservate esclusivamente a tale scopo. Lo stesso Paolo, che come si può giustamente supporre avrà presieduto la Cena del Signore, alla quale fa riferimento nella sua lettera ai cristiani di Corinto (1Cor 11,17-33), si guadagnava la vita lavorando come fabbricante di tende (At 18,3; 20,34.)
Il cuore dell’uomo per adorare in spirito e verità
Il Concilio Vaticano II riprese con coraggio la linea neotestamentaria su questa tematica. Lo si coglie soprattutto in un’affermazione molto densa della Costituzione Lumen Gentium. Il testo si riferisce specificamente ai cristiani laici o secolari, ma va certamente oltre il laicato, fino a riferirsi a tutti i membri della chiesa:
«Ad essi infatti, che intimamente congiunge alla sua vita e alla sua missione, Cristo concede anche parte del suo ufficio sacerdotale per esercitare un culto spirituale, affinché sia glorificato Dio e gli uomini siano salvati […]. Tutte infatti le loro opere, le preghiere e le iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, se sono compiuti nello Spirito, e persino le molestie della vita, se sono sopportate con pazienza, diventano sacrifici spirituali graditi a Dio per Gesù Cristo» (n. 34b).
Secondo questo testo, quindi, tutta la vita, senza eccezione, anche quella che viene detta «profana», a condizione che sia vissuta «nello Spirito», e cioè nell’amore disinteressato verso gli altri, è già un atto di culto a Dio. Non ha bisogno, quindi, di nessuna aggiunta esterna che la renda tale. Si mette così in evidenza che non sono le circostanze rituali quelle che rendono la vita cultuale, ma il cuore dell’uomo, trasformato dello Spirito. E ciò è in linea con quello che si coglie nella stessa vicenda di Gesù: egli intende rendere culto e gloria a Dio, suo Padre, con tutto ciò che fa. Per lui è culto a Dio guarire il lebbroso (Mc 1,40-41), come lo è anche dare da mangiare agli affamati (Mt 14,15-21 e par.) e liberare gli oppressi da spiriti cattivi (Mc 5,1-20 e par.), o perdonare i peccati (Mc 2,1-12 e par.).
Questo modo di intendere il culto illumina ancora un altro aspetto della comunità ecclesiale, posto fortemente in rilievo con un certo senso di novità dallo stesso Vaticano II. Durante molti secoli un certo modo di agire nell’ambito liturgico portò a pensare che il sacerdozio fosse solo una prerogativa di alcuni membri della comunità ecclesiale. Concretamente dei vescovi, dei presbiteri e in parte dei diaconi o degli altri ministri ordinati. Essi monopolizzavano di fatto il ruolo attivo nella celebrazione dei sacramenti. Si collegò così il concetto di sacerdozio con quello di culto rituale o liturgico, circoscrivendolo spesso esclusivamente ad esso. Da questo modo di agire derivò, tra l’altro, l’accentuata passività degli altri fedeli nelle celebrazioni sacramentali e l’atteggiamento di meri spettatori assunto dalla maggioranza di essi, e favorì di conseguenza la dicotomia tra culto e vita.
Il Concilio diede degli orientamenti decisivi per modificare questo modo di pensare e di fare. Senza negare l’esistenza di un sacerdozio ministeriale, lasciò in chiaro l’esistenza di un altro sacerdozio, anteriore e più fondamentale, chiamato «sacerdozio dei fedeli» (LG 10-11). Ciò equivale a dire che in realtà è la comunità tutta intera ad essere sacerdotale. Ed è tale in forza di quel sacerdozio chiamato ad esercitare il culto spirituale del quale si è parlato sopra. Essa, e in essa ognuno dei suoi membri, è chiamata ad esercitare costantemente quel sacerdozio che consiste nell’impegnarsi concretamente al servizio degli uomini perché abbiano vita, e l’abbiano in abbondanza.
L’originalità del culto cristiano appena evidenziata porta a superare radicalmente la dicotomia tra culto e vita, sacro e profano. Infatti, è un invito a trasformare tutto ciò che si fa e tutto ciò che si vive in impegno per la vita più piena di tutti. Lungi dall’essere un’alienazione, si converte in un nuovo stimolo alla responsabilità, tanto più pressante quanto maggiore è la coscienza di ciò che Dio stesso vuole, che non è una sua glorificazione a spese dell’uomo, poiché egli trova viceversa la sua gloria nel fatto che, come diceva in una stupenda sintesi del vangelo il vescovo martire S. Ireneo nel sec. II, l’uomo sia vivente.
Questo modo di pensare il culto può suscitare delle difficoltà circa il senso degli atti rituali che si realizzano nella comunità ecclesiale, a cominciare dai sacramenti che tra essi sono i più importanti. Tali difficoltà non sono immaginarie. Tanto i cristiani meno sensibili alla vita ecclesiale comunitaria quanto quelli più desiderosi di vivere una vita evangelicamente impegnata le possono sperimentare. I primi, perché forse non hanno scoperto la dimensione comunitaria della fede e la riducono a qualcosa di puramente individuale; i secondi, perché alle volte non vedono il rapporto esistente tra una vita di donazione agli altri e gli atti rituali che si praticano nella chiesa. Tali difficoltà possono venire superate se si tiene conto del carattere di celebrazione che contrassegna il culto liturgico cristiano.
Da un punto di vista antropologico, celebrare è un atto carico di senso. È fare in forma festiva, e quindi anche comunitaria e in qualche misura rituale, un’azione che di per sé e comune e corrente. Un esempio, tra tanti, può chiarirlo. Mangiare è un’azione che viene fatta con una certa frequenza per sfamarsi e ricuperare le energie consumate; ma ci sono delle occasioni in cui il mangiare umano acquista un altro senso, che va al di là di tali esigenze naturali. Sono le feste. Ad esempio, l’anniversario di una data cara, uno sposalizio, un onomastico, ma anche in occasione di un trionfo sportivo o professionale... In tali circostanze il fatto di mangiare cessa di essere qualcosa di comune, per acquistare il carattere di celebrazione: si celebra facendo un banchetto, nel quale si vive una continuità e una rottura con il mangiare di ogni giorno, precisamente perché si tratta di un mangiare festivo. Si utilizzano fondamentalmente le stesse cose, si fanno fondamentalmente le stesse azioni, ma in un altro tono. Tutto acquista una dimensione diversa: si mangia non tanto per sfamarsi e riacquistare le forze fisiche, quanto soprattutto per condividere la gioia tra le persone, per stare gioiosamente insieme.
La celebrazione ha di per sé un carattere comunitario: essa coinvolge l’intero gruppo e ognuno dei partecipanti ad essa. Celebrare da soli non ha senso, perché la festa implica sempre lo stare insieme con altri e condividere con essi momenti esistenziali di una certa importanza. Inoltre, celebrare comporta sempre, – come si diceva sopra, – una certa dose di ritualità, nella quale entrano in gioco discorsi, gesti, simboli e modi di fare o di atteggiarsi carichi di significato per chi vi partecipa. Spesso tali riti sono già istituzionalizzati per tradizione, così che vengono realizzati in un determinato modo perché la storia culturale del gruppo che celebra lo richiede.
L’esperienza dimostra che la celebrazione e la festa sono una necessità umana, che gli esseri umani hanno bisogno di manifestarsi vicendevolmente l’affetto che si portano, e che ogni celebrazione e ogni festa, se è autentica, rafforza i vincoli già esistenti tra di essi. Una vita umana senza celebrazioni perde in colore e in forza, e corre il rischio di disumanizzarsi. Viceversa, se è costituita da un alternarsi tra il feriale e il festivo, tra il quotidiano e la celebrativo, trova in ciò una fonte di crescita e di equilibrio.
Celebrazione e culto cristiano
Così succintamente descritta la celebrazione nell’ambito antropologico, si può facilmente evidenziare l’analogia esistente tra essa e il culto liturgico-rituale della comunità ecclesiale. Tutti e due sono, in realtà, azioni celebrative che, in quanto tali, rendono visibili e rafforzano delle realtà che possono passare inavvertite nella quotidianità. In questo senso esse sono di natura sacramentale, nel senso classico della parola. Sono cioè segni visibili ed efficaci di realtà in qualche modo invisibili e più grandi di esse. Quelle ecclesiali hanno di proprio il fatto di venir effettuate all’insegna della fede sulla quale poggia la comunità che ne è soggetto. Sono, perciò, «sacramenti della fede».
Ogni autentica celebrazione compiuta da coloro che vivono e si radunano in forza della fede in Gesù Cristo comporta diversi aspetti. Anzitutto, esse hanno un contenuto, celebrano qualcosa. In concreto, ciò che in esse si celebra è sempre la Pasqua di Gesù Cristo come vittoria della vita sulla morte. Se i cristiani li realizzano in assenza di questo contenuto, il loro celebrare si riduce a pura apparenza, a culto vuoto, come quello che denunciava Gesù presso gli scribi e i farisei dei suoi tempi (Mc 7,7), e corre il rischio di convertirsi in un atto di magia o di ipocrisia.
A questo riguardo risulta molto illuminante l’avvertimento fatto da Paolo alla comunità dei cristiani di Corinto (1Cor 11,17-34). Ai membri di quella giovane chiesa da lui stesso fondata, che si radunavano per celebrare la cena fraterna nel ricordo del Signore risorto, l’Apostolo scriveva perentoriamente: «Ciò che voi fate non è mangiare la Cena del Signore». La loro celebrazione era, secondo lui, vuota, senza contenuto.
La ragione da lui addotta era il fatto che essi non vivevano ciò che intendevano celebrare e che implicava tale Cena, cioè l’amore fraterno attuato nella vita. E rilevava i due motivi per i quali il loro gesto rituale risultava vuoto: «Fra di voi ci sono divisioni» (v.18) e «mentre uno è ubriaco l’altro ha fame» (v.21). Metteva inoltre in evidenza l’effetto negativo della loro celebrazione: «Vi fa più male che bene» (v.17).
Troviamo in questo testo un criterio fondamentale per giudicare dell’autenticità del culto rituale nelle comunità ecclesiali di tutti i tempi: il suo legame con il culto nella vita, ossia con lo sforzo fatto previamente dalla comunità per rendere a Dio il culto spirituale. È questo culto nella vita che viene elevato a livello di celebrazione festiva negli atti liturgici e rituali della comunità. Dove esso è morto, o nella misura in cui non esiste, i partecipanti al culto rituale celebrano nel vuoto. Sulla scia di Paolo e riferendosi al caso di una eucaristia compiuta senza amore fraterno, S. Tommaso affermava che essa è la celebrazione di una bugia, dal momento che intende celebrare un amore fraterno che in realtà non esiste (Expositio in I Cor, cap. XI).
Oltre al contenuto, va tenuto presente anche il modo in cui il culto viene celebrato. Esso è condizionato dagli aspetti che la comunità vuole in concreto celebrare, e dagli effetti che ne vuole ottenere. Per questo motivo non c’è nella chiesa un’unica celebrazione, sempre uguale e costantemente ripetuta, ma esiste invece una variegata molteplicità di celebrazioni. Di fatto, quelle fondamentali sono i sette sacramenti, ognuno con delle caratteristiche proprie e peculiari. Tra essi spiccano i cosiddetti «sacramento dell’iniziazione»: il battesimo, la cresima e l’Eucaristia.
I sacramenti della vita cristiana
Nel battesimo, come si vede nel libro degli Atti (2,41; 8,12; 10,47-48; 16,33; 19,5), la comunità ecclesiale celebra gioiosamente l’incorporazione di nuovi membri, il primo passo nell’adesione alla fede. È un’incorporazione e un primo passo che implicano di per sé l’opzione di fare propria la proposta di Gesù, e di entrare a far parte della comunità ecclesiale in quanto «sacramento universale della salvezza» (LG 48b). Nella cresima viene celebrato comunitariamente l’impegno più adulto dei battezzati nell’ambito dell’appartenenza alla comunità ecclesiale. Tale impegno è frutto dell’azione vivificante dello Spirito Santo, che in questo sacramento si comunica in maniera del tutto particolare ad essi (LG 11a). Mediante la più importante delle celebrazioni, l’Eucaristia (LG 11b), la comunità ecclesiale rende visibile e contribuisce a far crescere ciò che, quale dono di Dio, costituisce la sostanza viva della chiesa stessa: l’amore fraterno, l’unità della comunità, il fatto di essere «un cuor solo e un’anima sola» (At 4,32). In essa sfociano tutti gli sforzi fatti in ordine a creare una maggiore fraternità nella chiesa e nel mondo. Perciò viene celebrata come banchetto festivo, nel quale tutti siedono alla stessa mensa e condividono lo stesso pane del Corpo di Cristo e lo stesso calice del suo Sangue. L’Eucaristia è memoriale della Cena del Signore e del suo sacrificio (1Cor 11,17-26), nutrimento della vita di amore della comunità e pegno della sua realizzazione escatologica (SC 47).
Oltre a queste tre celebrazioni dell’iniziazione nella fede, la comunità ecclesiale ha altri momenti celebrativi di rilievo. La penitenza o riconciliazione è la celebrazione ecclesiale della conversione di quei membri della comunità che riconoscono di essere stati incoerenti con gli impegni della fede, chiudendosi nel loro egoismo e offendendo così se stessi, i fratelli e Dio. A tale conversione, manifestata visibilmente, corrisponde anche il visibile perdono di Dio e della comunità (LG 11b). L’unzione degli infermi è la celebrazione del senso evangelico che i membri della comunità, seriamente ammalati, danno nella fede alla loro sofferenza e alla stessa loro morte (LG 11b). Nel sacramento dell’ordine la chiesa celebra l’opzione di alcuni suoi membri di mettersi al servizio pastorale dei loro fratelli. Nel matrimonio viene ecclesialmente celebrato l’amore sponsale che, quale grazia di Dio, è germogliato e cresciuto tra un uomo e una donna, fino a maturare in loro la decisione di essere definitivamente l’uno per l’altro, e ambedue per gli eventuali figli. Nella sua celebrazione tale amore si rende ecclesialmente visibile ed è accolto, benedetto e rafforzato da Dio e dalla comunità (LG 11b).
La comunità come soggetto
È importare ricordare ancora che il soggetto di tali celebrazioni sacramentali è sempre la comunità credente in quanto tale. Lo richiede la loro stessa natura festiva. Su questo punto ha insistito con forza il Concilio Vaticano II nella sua Costituzione sulla liturgia, reagendo contro la tendenza accentuatamente individualista dei secoli immediatamente precedenti (SC 14.26). Nessuno, di conseguenza, si deve considerare un mero spettatore nelle celebrazioni ecclesiali. Ognuno invece è chiamato a svolgere attivamente il suo ruolo. In forma molto stringata, si può dire che ogni autentica celebrazione richiede di avere, quindi, un vero carattere «sinfonico».
Aggiungiamo inoltre che, come ogni comunità umana, anche quella ecclesiale ha bisogno di alternare il quotidiano e feriale con il festivo. Il ritmo di frequenza con cui la chiesa è andata celebrando i suoi riti sacramentali si è andato determinando, lungo la storia, a seconda della natura del sacramento da una parte, e della sensibilità dei tempi dall’altra. Così, per esempio, mentre agli inizi l’Eucaristia si celebrava soltanto le domeniche, in quello che veniva chiamato «il giorno del Signore risorto» (At 20,7), più tardi cominciò ad essere celebrata ogni giorno e perfino, in alcuni momenti storici, diverse volte al giorno; il battesimo, che in un primo momento era celebrato in qualunque giorno della settimana (cf At 2,41; 8,12; 10,48; 16,13; 18,8; 19,5), passò poi a essere celebrato solo nel tempo pasquale e, più tardi e per altri motivi ancora, di nuovo senza data fissa; la penitenza o riconciliazione, che ebbe una forma molto solenne nei primi sei secoli per i peccatori pubblici, e veniva celebrata una sola volta nella vita, acquistò poi col tempo altro ritmo e altre modalità fino ad arrivare a una periodicità settimanale e anche maggiore.
Il fatto poi che i sacramenti siano delle celebrazioni fa sì che in essi vi si congiungano, come in ogni celebrazione, gli aspetti di continuità e di rottura tra il quotidiano e il festivo di cui si è parlato sopra. Agli inizi del cristianesimo, probabilmente per contrapporre più chiaramente la novità del culto propugnato da Gesù nel superamento della dicotomia tra culto e vita assai diffusa tra i pagani, la chiesa sottolineò di più la continuità con la vita che la rottura con essa. A questo periodo iniziale seguì un altro in cui si mise l’accento sul polo opposto. Con l’ufficializzazione del cristianesimo nel sec. IV, molti elementi religiosi del paganesimo entrarono nuovamente nella chiesa. Si andò così rinforzando una linea di progressiva re-sacralizzazione, che sottolineò la rottura di ciò che è cultuale con il resto della vita. I cristiani cominciarono ad avere dei templi, a separare sempre più i loro ministri dal profano, a consacrare altari, calici e svariati oggetti di culto, a riservare vesti speciali per le celebrazioni. Al presente sembra che si torni a far sentire il bisogno di insistere più sulla continuità con il quotidiano che sulla rottura con esso. È anche un modo di saldare la dicotomia tra culto e vita, sempre in agguato nella vita di fede (GS 43). Ciò non può tuttavia far dimenticare che ogni celebrazione, per il fatto di essere tale, esige una tonalità diversa da quella feriale. Ogni celebrazione è in qualche misura festa, e la festa comporta un’esigenza di ritualità, espressa in gesti e in linguaggio che aiutano a «trasgredire» il quotidiano, a uscire verso il festivo e a realizzarlo nell’ambito della fede. La celebrazione rituale è anche, di conseguenza, il luogo per eccellenza dove la comunità può e deve dispiegare la sua componente estetica, dove può e deve cercare il modo di fare che tutto sia bello, di una bellezza che, senza essere ostentata, sia vera e reale.
12. LA FEDE LEGGE LA STORIA CON GLI OCCHI DI DIO
Parlare della chiesa come comunione di fede richiede di affrontare anche il tema della profezia. Un veloce sguardo al profetismo dell’A.Testamento aiuta a impostare adeguatamente tale tema.
Il profeta biblico non era semplicemente colui che parlava nel nome di Dio o che trasmetteva la sua Parola, come potrebbe suggerire l’etimologia del termine; non era neanche colui che faceva dei vaticini misteriosi sul futuro, o indovinava in anticipo ciò che sarebbe avvenuto nel futuro. L’originalità dei profeti dell’A.Testamento si coglie meglio se li si confronta con altre figure in esso presenti. Infatti, essi si distinguevano tanto dai saggi quanto dagli scribi. E la distinzione fondamentale consisteva precisamente nel fatto che mentre questi avevano a che fare con insegnamenti e con spiegazioni della Legge, i profeti esercitavano il loro ruolo soprattutto nei confronti degli avvenimenti storici del popolo. Essi erano mossi dalla preoccupazione di mettersi all’ascolto dei grandi movimenti storici e dei mutamenti del loro tempo, e tutta la loro predicazione era contrassegnata da una straordinaria mobilità nel seguire tali fenomeni, e da una grande flessibilità nell’adeguarvi costantemente i loro discorsi. Grazie ad essi, il popolo d’Israele poté crescere nella coscienza del progetto di Dio nella storia. Furono essi, infatti, a mettere in risalto la tensione del tempo verso un futuro di pienezza.
Se già l’A.Testamento fornisce delle indicazioni utili per capire il significato della funzione profetica dei cristiani, esso si può cogliere con ancora maggior chiarezza appellandosi a ciò che dice la Costituzione Dei Verbum sulla Parola di Dio e il suo rapporto con la storia. Vi è in essa un’affermazione che in qualche modo racchiude la sostanza stessa della Bibbia, pur non coincidendo con nessuna delle sue asserzioni esplicite: «La rivelazione divina si realizza mediante eventi e parole intrinsecamente vincolati fra di loro [...]. Le parole portano a luce il mistero in essi contenuto» (n.2). La frase finale è molto densa. Include due elementi di decisiva importanza.
Anzitutto, l’affermazione che il luogo proprio del mistero sono gli eventi. Per «mistero» si intende non una verità che supera la capacità della ragione umana, ma il progetto divino di salvezza. Da ciò che si ricava dalla frase citata, tale progetto, nascosto sin dall’eternità nell’intimità della libertà di Dio, viene detto da Lui negli avvenimenti della storia del suo popolo. La storia risulta essere, di conseguenza, una parola che svela operativamente il disegno salvifico di Dio. Ciò significa, in definitiva, che essa ha uno spessore umano-divino.
Il secondo elemento importante è l’affermazione che «le parole portano a luce il mistero in essi contenuto». Si riferisce alle parole dei profeti, e attribuisce ad esse una funzione simile a quella dell’ostetrica che fa venire alla luce il bambino presente, ma nascosto, nel seno della madre. Implicitamente intende dire che per cogliere la presenza del progetto di Dio negli avvenimenti ci vogliono gli occhi del profeta. Profeta è appunto, come si è visto, colui che ha la capacità di testare gli avvenimenti, di attraversare la loro esteriorità e di cogliervi l’azione di salvezza operata da Dio. La fede gli dà la capacità di scoprire il Dio vivente all’opera nella storia.
Nell’A.Testamento ne è un caso emblematico quello di Mosè, il profeta dell’avvenimento dell’esodo dall’Egitto (Dt 18,15). Probabilmente ci furono nell’antichità diversi esodi simili a quello degli ebrei (cf Am 9,7); tuttavia solo il popolo d’Israele arrivò, grazie alla guida illuminante di Mosè, a scoprire che la sua liberazione non era un avvenimento meramente umano, pur essendo anche realmente e crudamente tale, ma era molto di più, dal momento che in esso si manifestava l’azione salvifica di Dio in suo favore.
Nel N. Testamento è altrettanto emblematico il caso di Gesù, il Profeta per eccellenza (Mt 21,11; Lc 7,16; Gv 4,19; 7,40; 9,17), che nel racconto dei due discepoli di Emmaus fa da profeta del suo proprio avvenimento, e apre i loro occhi portandoli così a cogliere, nella dolorosa vicenda umana della croce, la massima manifestazione del progetto di salvezza di Dio (Lc 24,13-27).
In sostanza, quindi, si può dire che nella concezione biblica è profeta colui che annuncia in mezzo al popolo la Parola di Dio colta negli avvenimenti della storia. L’annuncia affinché coloro che l’ascoltano la accolgano e la seguano. È quest’ultimo il suo obiettivo fondamentale. La parola profetica non si riduce mai ad una chiamata alla mera contemplazione dell’intervento di Dio negli avvenimenti, ma sollecita sempre all’impegno davanti a tale manifestazione. È, in definitiva, un servizio alla corresponsabilità del credente con il Dio della storia.
L’esperienza della Pentecoste
Verso la fine dell’A.Testamento, quando lo spirito profetico si stava spegnendo in Israele, gli stessi profeti annunziarono una sua futura effusione sull’intera comunità dei tempi finali (Gl 3,1-5; Ez 36,27). In At 2,16-18 si narra che dopo l’esperienza della venuta dello Spirito il giorno della Pentecoste, Pietro proclama davanti al mondo che gli sta davanti il compimento di tale annuncio in questi termini:
«Sta ora accadendo quello che predisse il profeta Gioele: ‘Negli ultimi giorni, dice il Signore, io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profeteranno [...]. E anche sui miei servi e sulle mie serve in quei giorni effonderò il mio Spirito ed essi profeteranno».
Il Concilio Vaticano II riprese la linea di tali affermazioni bibliche soprattutto nella Costituzione Gaudium et Spes. In essa enuncia il seguente orientamento denso di contenuto:
«Il Popolo di Dio, mosso dalla fede [...], cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio» (GS 11).
È un testo che merita una particolare attenzione, data la sua singolare portata. Viene anzitutto indicata in esso l’azione principale a cui è sollecitato il Popolo di Dio. Lo si fa mediante il verbo «discernere». Esso designa l’azione di identificare, in un insieme di cose, alcuni elementi e non altri, in base ad un criterio prestabilito. Il verbo principale viene accompagnato da un verbo ausiliare: «si sforza», che sta ad indicare la difficoltà che comporta tale azione, data la complessità del materiale sul quale va esercitata. Detto materiale viene indicato con questi termini: «gli avvenimenti, le richieste e le aspirazioni cui [il Popolo di Dio] prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo». In altre parole, l’oggi della storia. Non soltanto della storia della comunità ecclesiale, ma della storia umana in quanto tale. Per inciso si allude anche al bisogno che i membri della chiesa siano veramente incarnati in essa. I credenti non devono vivere in un altro mondo, ma devono immergersi nel processo della storia (cf GS 4), altrimenti non potrebbero partecipare con i loro contemporanei a quanto accade in essa, e neanche esercitare la loro funzione profetica nei suoi confronti.
Il testo indica ancora cosa occorre sforzarsi di scoprire mediante il discernimento: i segni veri della presenza o del progetto di Dio. In concreto, individuare dove si stia manifestando, nella storia umana, il disegno divino di salvezza dell’umanità. Dato che la storia è spesso molto ambigua, poiché in essa si frammischiano salvezza e perdizione, vita e morte, bene e male, il discernimento previo risulta indispensabile per poter agire adeguatamente. Il giudizio che si formula a suo riguardo è di estrema importanza, dal momento che da esso dipende l’azione che poi si dovrà intraprendere. Una diagnosi sbagliata porta ordinariamente anche ad una prognosi errata.
C’è anche nel testo una segnalazione sul soggetto al quale viene attribuita questa responsabilità. Lo si indica con l’espressione «il Popolo di Dio». Va intesa nel senso dell’intera comunità dei credenti in Cristo. Nessuno resta quindi esentato da essa, così come nessuno può pretendere di averne il monopolio. Il servizio profetico è di tutti e di ognuno nella chiesa, senza eccezione. Ciò non significa che si neghi l’esistenza di quel servizio ecclesiale che viene chiamato «Magistero», esercitato da coloro che presiedono le comunità ecclesiali (Papa, vescovi); significa invece che la stessa loro funzione va svolta in chiave prevalentemente profetica. Consisterà, quindi, più nell’animare e presiedere il discernimento di fede dell’intera comunità su ciò che succede nella storia, che nell’insegnare dottrine o verità.
Resta da puntualizzare un aspetto, non esplicitamente rilevato nel testo, quello del criterio da utilizzare per realizzare il discernimento proposto. Lo si ricava dall’avvenimento chiave di tutta la storia della salvezza, la risurrezione di Gesù. Alla sua luce si capisce che tutto ciò che porta al trionfo della vita sulla morte è sicuramente segno vero della presenza del disegno di Dio nella storia, e viceversa. Si tratta di un criterio che, nella sua applicazione, richiede l’utilizzazione di tutti i mezzi necessari per identificare, nella concretezza delle circostanze storiche, ciò che in esse c’è di vivificante e ciò che c’è invece di mortificante per gli uomini e le donne concrete, singoli e collettivi. Tenendo d’altronde presente che ordinariamente i due aspetti si trovano mescolati fino al punto di richiedere alle volte molta fatica per riuscire a distinguerli. Il giudizio dei credenti non dovrebbe perciò essere eccessivamente affrettato e, d’altronde, dovrebbe essere sempre accompagnato da un atteggiamento di modestia e di moderazione, nell’ascolto anche e nel dialogo con coloro che non sono credenti ma sono mossi dallo stesso desiderio di bene che dovrebbe guidare i credenti (GS 43g).
13. LA FEDE IN CRISTO MORTO E RISORTO APRE ALLA SPERANZA
La fede cristiana si vive, quindi, nel mondo. In un mondo in cui si alternano situazioni positive e favorevoli e situazioni problematiche, e in più di un’occasione anche dolorosamente avverse. Come ogni essere umano, chi ha deciso di credere nel messaggio di Gesù Cristo e di accogliere la sua proposta, vive la sua vita di fede all’interno dell’esperienza umana più radicale e universale, quella dell’antitesi vita-morte.
È un’esperienza che comporta due facce. La prima è quella del desiderio di vivere, e di vivere in pienezza, che si porta dentro ogni essere umano. È il più profondo e radicale tra i tanti desideri che egli sperimenta. Infatti, se lo si considera attentamente si arriva facilmente alla conclusione che ogni desiderio umano, individuale o collettivo, è espressione del desiderio di vivere, e di vivere senza ritagli, in pienezza di qualità e di durata. Ad appagare tale desiderio vanno indirizzati in definitiva tutti gli sforzi umani, ad ogni livello. Ed è pure esso il motore di ogni dinamismo umano, singolo o collettivo. L’uomo potrebbe venir definito, da questo punto di vista, come un essere radicalmente e inguaribilmente «affamato di vita».
Ma, accanto a questa prima faccia ce n’è un’altra, di portata non meno universale né meno radicale: l’esperienza della morte. Intendendo per morte tutto ciò che in qualunque modo contraddice il desiderio di vivere in pienezza o si oppone ad esso, che non gli permette di attuarsi o di attuarsi adeguatamente, che lo soffoca, lo ostacola, lo devia. Questo secondo aspetto trova la sua più chiara e palpabile espressione nella fine dell’esistenza in questo mondo, in cui l’uomo vede venir meno ogni possibilità di soddisfare il più radicale dei suoi desideri. Ma oltre a tale fatto-limite, ce ne sono innumerevoli altre manifestazioni: la fame non saziata, la malattia corporale o psichica, l’insicurezza economica, l’angoscia, la solitudine profonda, l’incapacità di mantenere rapporti interpersonali, la mancanza dei beni elementari della vita, l’emarginazione imposta per motivi razziali o religiosi, la schiavitù psicologica o sociologica, la perdita del senso o del gusto della vita, lo sfruttamento subìto, la preclusione all’auto-determinazione... In una parola, ogni forma di menomazione umana.
Questa duplice esperienza radicale è, come si è detto, l’esperienza della antitesi vita-morte, cioè del co-esistere delle due realtà in reciproca eliminazione: dove c’è la vita e in quanto essa c’è, viene eliminata o soppressa la morte, e viceversa. Tale antitesi è una realtà ultima. Al di là di essa non se ne può trovare un’altra più radicale. Perciò, essa viene a costituire, per dirla con categorie mutuate da Aristotele, come un «trascendentale» concreto, presente e operante in ognuno dei suoi «inferiori», senza però esaurirsi in nessuno di essi. Ecco, a modo di esempio, alcuni di essi: sazietà-fame, salute-malattia, sicurezza-insicurezza, serenità-angoscia, comunione-solitudine, gioia-tristezza, senso-nonsenso della vita, benessere-povertà, partecipazione-emarginazione, pace-guerra, libertà-schiavitù... In ognuno di questi binomi antitetici, che si potrebbero moltiplicare all’infinito, il primo membro concretizza la vita, il secondo la morte.
Speranza oltre la morte
Va ancora aggiunto un altro dato: in seno a questa concreta antitesi, una e molteplice, ogni essere umano è sempre alla ricerca, in maniera conscia o inconscia, di una vita-senza-morte. Ricerca che si manifesta in svariate forme positive, ma anche in forme negative. Come, ad esempio, nella paura della morte. Essa, che in realtà non è altro che l’altra faccia del desiderio della vita, costituisce la radice ultima di ogni paura umana. Anche in forza di essa vengono messi in movimento i dinamismi dell’uomo, individuali e collettivi. Non ultimo quello dell’aggressività.
Se poi si vuole puntualizzare in che cosa consista concretamente quella vita-senza-morte così universalmente e radicalmente ricercata da ogni uomo, si deve confessare che non lo si sa con precisione. Benedetto XVI, ispirandosi a S. Agostino, nella sua Enciclica Spe Salvi dice di essa, con una frase molto espressiva, che è una «sconosciuta realtà conosciuta» (n. 12). Appunto perché è immerso nell’antitesi vita-morte, l’essere umano non può avere l’esperienza della vita-senza-morte. La sua è sempre un’esperienza di vita-con-la-morte, di una vita vissuta sotto il segno allo stesso tempo del desiderio della vita e delle mille presenze della morte. Vita-senza-morte è quindi un’espressione-limite, senza riferimento nel reale sperimentabile. Di essa se ne hanno soltanto dei sentori in quei momenti in cui si vive in qualche misura una situazione di pienezza, di realizzazione, di gioia e felicità. Momenti d’altronde sempre minacciati di instabilità e fugacità: essi non sono la vita-senza-limiti di qualità e di durata alla quale aspira instancabilmente l’uomo, anche quando sopprime la sua vita biologica con il suicidio o quando si lascia prendere dal non-senso della sua esistenza.
È importante inoltre rilevare che l’antitesi vita-morte non ha solo dei risvolti individuali, bensì anche collettivi, anzitutto nel senso che vita e morte hanno a che vedere pure con la convivenza tra le persone e i gruppi umani, dato che i rapporti esistenti tra di essi, e anche le strutture di diverso ordine in cui detti rapporti si cristallizzano, sono di fatto fonte di vita e di morte per gli esseri umani; e poi, anche nel senso che l’umanità intera, collettivamente, è alla ricerca instancabile di una vita-senza-morte. In questo senso la storia umana si può definire come lo spazio nel quale l’umanità come tale si dibatte nella dialettica tra la vita e la morte in cerca della vita piena e totale.
Se si analizzano infine i fattori che causano la morte, si conclude che essi appartengono in gran parte all’ambito delle libere decisioni degli stessi uomini, singolarmente o collettivamente presi. Libere decisioni che acquistano consistenza e stabilità in strutture e istituzioni di diversa indole e portata: familiare, nazionale, internazionale, mondiale. Sono principalmente tali decisioni a sbilanciare la dialettica vita-morte dalla parte della morte.
Ora, la cruda esperienza di un tale sbilanciamento mette a dura prova il desiderio di vita piena dell’uomo. Non manca chi pensa che la vita-senza-morte, pur costituendo una insopprimibile aspirazione, sia irraggiungibile. C’è pure chi tenta di trovarla individualmente in soddisfazioni effimere come il potere, il piacere, la fama… che a corto o lungo andare provocano spesso una profonda delusione. Il credente in Cristo invece, nella misura in cui crede veramente, vive di altre convinzioni. È convinto, anzitutto, che il suo desiderio di vivere in pienezza non è vano e che non è destinato al fallimento, perché già in uno dell’umanità esso ha raggiunto il suo compimento: Gesù Cristo risorto è ora nella pienezza della vita, dopo aver vissuto fino in fondo una vita-con-la-morte. Così lo proclamano gioiosamente i testi del N. Testamento, che tramandano la profonda persuasione dei primi credenti. Con una insistenza quasi martellante essi tornano a dirlo e ridirlo incessantemente: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto», si legge nel racconto della risurrezione di Luca (Lc 23,5). «Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui», proclama Paolo (Rom 6,9). E nella visione del libro dell’Apocalisse viene messa in bocca al maestoso personaggio che appare al vedente dell’isola di Patmos questa solenne dichiarazione: «Io sono il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre» (Ap 1,17-18). Molto bellamente lo espresse il poeta medievale che compose il testo della «Sequenza pasquale», proclamata ogni anno nella celebrazione appunto della Pasqua, in cui viene cantata la quintessenza della fede: «Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello [nella croce]. Il Capo della vita è morto; ma ora, vivo, regna». Il credente, quindi, è convinto che l’antitesi vita-morte è già stata pienamente risolta in Gesù dalla parte della vita, e che egli ha raggiunto quella vita-senza-morte che costituisce la meta ultima di tutte le sue aspirazioni. Gesù è nella vita «eterna», ossia nella vita «piena», che è propria di Dio. È una convinzione che i testi neotestamentari esprimono con termini metaforici, che vanno oltre l’esperienza empirica per cercare di raffigurare il non raffigurabile: dicono che Gesù è «risorto», è «salito al cielo», è stato «liberato dai dolori della morte», è stato «esaltato», è stato «glorificato», «siede alla destra del Padre»…: tutte espressioni che, pur collegandosi a esperienze del mondo conosciuto, aprono verso lo sconosciuto. Distruggono cioè in qualche modo il senso ovvio e scontato delle parole per dare loro uno nuovo, inatteso e inconsueto.
Gesù primizia e primogenito
Ma il credente è inoltre convinto che Gesù è, per dirla con espressioni di S. Paolo, «primizia di coloro che sono morti» (1Cor 15,20) e «primogenito di quelli che risorgono dai morti» (Col 1,18), e che quindi ciò che è avvenuto in lui come «primogenito», avverrà anche in chi crede in lui. È questo il motivo ultimo della sua «speranza contro ogni speranza», come dice lo stesso Paolo riferendosi ad Abramo, il padre di tutti i credenti (Rom 4,18). Il credente risponde affermativamente alla domanda che, in occasione della morte del suo amico Lazzaro, Gesù rivolse a sua sorella Marta: «Chi crede in me, anche se muore, vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?» (Gv 11,25). Sa per esperienza che la morte è una realtà innegabile nella sua vita, perché la tocca con mano ad ogni momento in mille forme diverse, e che nell’orizzonte si delinea inevitabilmente una sua vittoria finale e, umanamente parlando, definitiva. Ma davanti ad essa egli osa dire, passando al di sopra dell’evidenza: «Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!» (1Cor 15,56-57). Infatti, «ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte» (1Cor 15,26). L’ultima parola sull’esistenza umana è, quindi, per chi crede, una parola di vita, e di vita traboccante. Perciò chi crede accoglie l’esortazione dell’Apostolo ai cristiani di Tessalonica: «Non vogliamo, fratelli, […] che siate tristi come gli altri che non hanno speranza» (1Tes 4,13). Egli ha speranza, e quindi non lascia spazio alla tristezza, ma alla gioia profonda.
La speranza certa di raggiungere la vita-senza-morte alla fine della propria esistenza in questo mondo o, come si suole dire, nell’al di là, non si converte tuttavia per il credente in un incitamento alla de-responsabilizzazione. Viceversa, lo sollecita a combattere la presenza attuale della morte in se stesso e ovunque essa si faccia presente. Egli sa che così si comportò Gesù stesso, impegnandosi a fondo, come si è visto sopra, nell’eliminarla dai corpi, dalla psiche, dal cuore, dai rapporti tra le persone e dalle strutture in cui essa si annidava. Certamente egli pensava e sperava il compimento pieno del regno di Dio o della vita in abbondanza per la fine dei tempi, secondo la promessa fatta da Dio per mezzo dei profeti (Is 25,8), ma in qualche modo lo anticipava, sia pure parzialmente, nella storia. E così fecero pure coloro che per primi aderirono al suo progetto, come attestano gli Atti degli Apostoli, ma anche tutti i veri credenti che li seguirono lungo la storia.
Edificare il mondo alla luce della speranza
Benedetto XVI, nella sua già citata Enciclica sulla speranza, precisa che essa – pur mirando alla vita eterna, cioè quella vita in pienezza che si raggiungerà nell’al di là – «ha a che fare anche con la edificazione del mondo – in forme molto diverse, secondo il contesto storico e le possibilità da esso offerte o escluse» (n. 15). E andando più sul concreto specifica alcuni ambiti di tale edificazione:
«Possiamo liberare la nostra vita e il mondo dagli avvelenamenti e dagli inquinamenti che potrebbero distruggere il presente e il futuro. Possiamo scoprire e tenere pulite le fonti della creazione e così, insieme con la creazione che ci precede come dono, fare ciò che è giusto secondo le sue intrinseche esigenze e la sua finalità […]. Così, per un verso, dal nostro operare scaturisce speranza per noi e per gli altri; allo stesso tempo, però, è la grande speranza poggiante sulle promesse di Dio che, nei momenti buoni come in quelli cattivi, ci dà coraggio e orienta il nostro agire» (n. 35).
In poche parole, la fede sa che quello che un giorno si attuerà, e che costituisce l’oggetto ultimo della sua speranza, deve diventare il punto di riferimento, la meta a cui tendere giorno per giorno sia sul piano individuale che su quello sociale.
Ancora un rilievo: aprendo gli occhi attorno a sé, il credente constata che ci sono altri uomini e donne che, pur senza condividere la sua fede, e perfino dichiarandosi con sincerità non credenti, si muovono di fatto nella stessa direzione. Essi sono presi dalla stessa passione per la vita che muoveva Gesù, e la traducono in un amore fattivo. Per essi, come scrisse il filosofo cristiano Gabriel Marcel, dire ad una persona: «io ti amo», equivale a dirgli: «io voglio che tu non muoia mai, che tu viva sempre», e perciò si danno da fare perché gli altri abbiano la vita, e un vita sempre più piena. Ciò porterà i credenti, come dice la Costituzione Gaudium et Spes, a dare «volentieri la loro cooperazione a quanti mirano a identiche finalità» (n. 43g).
14. EDUCARE ALLA FEDE: UNA CONSEGNA AI GIOVANI
A conclusione di quanto è stato esposto ci si può chiedere cosa proporre ai giovani di oggi in ordine ad una loro vita credente in Gesù Cristo, come contribuire alla loro educazione in questa direzione. Tratteggiamo quasi schematicamente alcune possibili linee di azione.
Gli «ostacoli» alla fede dei giovani
Occorre come prima cosa prendere atto con serietà e rispetto delle difficoltà reali dei giovani nei confronti della fede. Se ne è fatto già qualche cenno precedentemente, ma merita di essere nuovamente rilevato. I profondi cambiamenti avvenuti e tuttora in corso nell’umanità in questi ultimi tempi, rendono spesso problematico il credere. Tale problematicità proviene per prima cosa, all’interno stesso della chiesa, da quell’insieme di cose che un tempo erano un aiuto per enunciare e vivere la fede, ma che ora sono piuttosto un ostacolo ad essa: formulazioni dottrinali, norme morali, celebrazioni cultuali.
Anzitutto, le formulazioni dottrinali. Un semplice contatto con i giovani d’oggi porta facilmente a concludere che essi trovano spesso serie difficoltà a scoprire la figura affascinante di Gesù Cristo e il suo messaggio originario nelle enunciazioni dottrinali che in diversi modi vengono loro proposte. La loro sensibilità culturale vibra in un’altra «lunghezza d’onda», e riescono con fatica ad afferrare ciò che esse vogliono trasmettere.
In secondo luogo, le espressioni cultuali. Occorre constatare con serena oggettività che mentre da una parte per non pochi giovani credenti d’oggi la celebrazione dell’eucaristia è ancora il momento più abituale dell’incontro con Gesù Cristo, dall’altra la loro sensibilità, profondamente cambiata, più di una volta rende loro difficile scoprire il suo volto nelle celebrazioni a cui prendono parte. A contatto con essi si percepisce che non sono pochi quelli che le sentono come sfasate e anacronistiche, e che più che viverle come un momento di gioia, le sentono come peso e un ostacolo al loro avvicinamento a Gesù Cristo.
In terzo luogo, le norme morali. Anche da questo punto di vista, è facile verificare che oggi i giovani fanno fatica a ritrovare la proposta originaria di Gesù in esse. Spesso non riescono a cogliere il collegamento esistente tra ciò che viene loro proposto dalla chiesa come norma di comportamento, particolarmente in ambito di morale sessuale, e l’orientamento fondamentale dato da lui.
Questo insieme di cose – riti, dogmi, norme morali – che ebbe indubbiamente il più delle volte la sua origine in un autentico desiderio di fedeltà, da parte della chiesa, a Gesù Cristo e al suo vangelo, cambiate le circostanze storico-culturali finì per fare come da schermo nei loro confronti.
Dall’interno della Chiesa
A queste difficoltà provenienti dall’interno della chiesa si aggiungono quelle che provengono dal di fuori. Ne evidenziamo solo alcune. Anzitutto quella che provoca in loro il rapporto fede-ragione, soprattutto ragione strumentale o scientifica. Si sa che, teoricamente, come gli ultimi papi ci hanno tenuto a mettere chiaramente in rilevo, il rapporto fede-ragione non è di contrapposizione né di contrasto, ma di distinzione e complementarità. Più in concreto, la fede e la ragione scientifica hanno ognuna una propria visione della realtà che non esclude l’altra, perché si muovono su piani differenti. Né la fede può pretendere di comandare la scienza, come ha fatto qualche volta in forma anche clamorosa in passato (caso Galileo), né la scienza può pretendere di negare spazio alla fede, come succede qualche volta da parte da qualche scienziato nel presente. Ma di fatto, poiché molti giovani sono stati iniziati alla fede in età infantile, e in genere mediante enunciazioni formulate in un linguaggio rispondente a una visione sacrale della realtà, una volta arrivati all’età della adolescenza e della gioventù, a contatto con una sua comprensione scientifica non riescono a coniugare la visione che ne propone la scienza e quella che ne propone la fede. Di solito è la fede che ne fa le spese.
La seconda difficoltà è creata dalla nuova sensibilità culturale postmoderna, sempre più diffusa particolarmente in Occidente. Il pensiero post-moderno proclama, tra l’altro, la fine della storia. Non nel senso che neghi il verificarsi di nuovi avvenimenti, ma in quello di una incapacità, provocata dal progresso trasformato ormai in routine, di sentire la novità degli avvenimenti e di percepire il nesso esistente tra essi. Non è più quindi il futuro – tanto meno il passato – ad occupare un posto predominante nella sua percezione, ma piuttosto il presente. Si potrebbe dire che l’uomo d’oggi, e in particolare i giovani, sono fortemente segnati da un «presentismo esasperato» che rivela una chiara mancanza del senso storico. Tale sensibilità implica necessariamente anche la crisi e la caduta dei grandi meta-racconti e dei grandi meta-discorsi (illuminismo, liberalismo, marxismo...), creati dalla modernità al servizio del senso della storia intesa come progresso indefinito, come emancipazione, libertà e felicità dell’uomo. Ora, ciò non può non creare difficoltà alla fede cristiana che crede in un Dio che si è rivelato nella persona storica di Gesù di Nazareth, il quale ha lanciato al popolo d’Israele e al mondo una proposta «messianica», e quindi storica, proclamando il grande «meta-racconto» del regno di Dio.
Una terza difficoltà è creata dal bombardamento di proposte alternative a quella della fede che soffrono i giovani d’oggi. Il moltiplicarsi dei mezzi di comunicazione, messi costantemente a loro disposizione, e i messaggi che vengono da essi trasmessi, fanno sì che vengano costantemente a contatto con sollecitazioni che non sono precisamente quelle che vanno nella linea del vangelo, ma piuttosto spesso in una linea lontana de esso, se non persino contraria ad esso. Il loro fascino diventa a momenti irresistibile.
Cosa proporre?
A dei giovani che sono più o meno intensamente alle prese con tali difficoltà, cosa quindi proporre?
Pur consapevoli della complessità delle situazioni in cui essi si trovano, enunciamo succintamente alcune delle cose che sembra si potrebbe tentare di fare.
La prima è quella di aiutarli a scoprire il nesso tra il loro inarrestabile desiderio di vita e di felicità con la proposta della fede, che non può essere che quella di Gesù. Come attesta il vangelo di Marco, quando egli si lanciò alla sua attività lo fece annunciando una «buona notizia» (Mc 1,14-15). E, secondo il vangelo di Matteo, la prima parola che pronunciò nel suo discorso programmatico fu la parola «beati», cioè «felici». In ciò anche egli differiva dal suo Precursore, Giovanni il Battista, che annunciava invece il minaccioso e imminente arrivo di un implacabile giudizio divino (Mt 3,7-10; Lc 3,7-10). La fede non può quindi fatta apparire agli occhi dei giovani come portatrice di un messaggio che mortifichi il loro desiderio più profondo, ma viceversa portatrice di un messaggio vivificante, fonte di gioia e felicità. Abbiamo sopra ricordato ciò che, con un linguaggio certamente molto diverso da quello attuale, diceva S. Tommaso: «Oggetto della fede sono le cose che riguardano la felicità dell’uomo». Solo se colgono questo nesso, se viene fatto balenare in qualche modo ai loro occhi che ciò che prospetta la fede è una risposta alla loro fame di vita e di felicità, i giovani abbracceranno genuinamente la fede. Altrimenti la porteranno al massimo sulle loro spalle come un peso morto che occorre trascinare o per consuetudine o per convenzione sociale, cosa alla quale in genere essi non sono più disponibili.
Una seconda cosa è quella di aiutarli a «centrarsi nel centro», superando da una parte una dispersione che li porti ad andare dietro a mille cose secondarie nell’ambito della fede, e dall’altra evitando delle concentrazioni sbagliate su centri che tali non sono. Già nei vangeli si leggono queste dure parole di Gesù rivolte ai farisei del suo tempo: «Voi filtrate il moscerino e ingoiate il cammello» (Mt 23,24). Non si può quindi far perdere tempo ed energie ai giovani facendoli andare dietro a cose che sono totalmente secondarie, distraendoli così da ciò che è centrale. D’altra parte, è importante aiutarli a riscoprire costantemente il vero centro nel quale centrarsi, che non può essere altro che quello che stava al centro delle preoccupazioni di Gesù stesso, ciò che i vangeli sinottici esprimono con la formula «regno di Dio», in tutta la pregnanza del suo significato colto principalmente attraverso la sua prassi, e che il quarto vangelo traduce con l’espressione, probabilmente molto più vicina alla sensibilità giovanile, «vita traboccante». In questo contesto occorrerà aiutare anche i giovani a scoprire ciò che Gesù dice sull’importanza del momento presente, eliminando ogni angosciosa preoccupazione del futuro (Mt 6,34), ma allo stesso tempo ciò che implica la ricerca di un futuro buono e migliore per tutti e per tutto, che egli, con un linguaggio tipico del suo ambiente e del suo tempo, prospetta come «la venuta del Figlio dell’Uomo» (Mt 10,23; 13,41; 16,27. 28; 19,27; 24,27; 25.31), e cioè il trionfo pieno e definitivo della vita sulla morte per l’umanità e la creazione intera (Ap 21,1-7).
Una terza cosa è quella di dare loro strumenti per superare il conflitto, molto sentito da alcuni di essi, tra fede e scienza. Fondamentalmente aiutarli a riconoscere il valore della scienza come strumento di gestione delle realtà del mondo, in accordo con il volere di Dio stesso suo creatore, e la sua autonomia nei confronti della fede (GS 36a), e allo stesso tempo a capire che il linguaggio della fede e il linguaggio della scienza appartengono a «giochi linguistici» diversi, validi tutti e due nel proprio ambito. Aiutarli cioè a riconoscere la natura del linguaggio della fede come metaforico e prevalentemente narrativo, a differenza del linguaggio scientifico che è razionale e concettuale. Sarà un modo di contribuire a superare anche ogni forma di «concordismo» tra affermazioni bibliche e affermazioni scientifiche, che costituisce un modo inadeguato di impostare il rapporto tra di esse.
Un’ultima cosa è quella di aiutarli a coltivare la fede, non tanto né principalmente mediante l’approfondimento dei suoi contenuti, quanto soprattutto come un lasciarsi impregnare e in qualche modo «fermentare» sempre più profondamente dalla proposta di Gesù nel modo di pensare, di sentire, di agire, di reagire. Come? con quali mezzi?
Si possono segnalare brevemente questi: l’ascolto della Parola di Dio in un contatto assiduo con la Bibbia, particolarmente con i vangeli, per riscoprire sempre di nuovo la figura affascinante di Gesù e la sua proposta di vita e azione, e ravvivare costantemente l’amicizia personale con lui; la frequentazione della comunità di fede, particolarmente nella celebrazione dell’Eucaristia, per condividere con gli altri credenti la mai conclusa ricerca dell’autenticità del proprio credere; la preghiera personale, fatta principalmente di contatto «nel segreto» (Mt 6,6) con Dio come Padre pieno di sollecitudine e tenerezza, con Gesù risorto e vivo, con la sua Madre; l’impegno nel servizio disinteressato verso tutti, ma particolarmente verso i più bisognosi; un atteggiamento di costante conversione alla fede stessa, che si esprima anche nella frequentazione del sacramento della riconciliazione, vissuto non come un semplice rito o una abitudine, ma come una vera celebrazione del ritorno alla coerenza della fede.
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All’inizio di questo breve corso sulla fede ci rifacevamo alla inquietante domanda posta da Gesù: «Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). L’intenzione di quanto è stato esposto è stata precisamente quella di darle una risposta, nel desiderio che il Figlio dell’uomo, Gesù, nel suo costante «venire», trovi nei giovani d’oggi, pur in mezzo alle non poche difficoltà a cui devono far fronte, la fede. Una fede non sopportata o smorta, ma genuina, viva e appassionata, come è stata quella di tanti giovani che attraverso i secoli hanno trovato in essa una appagante risposta al loro incontenibile desiderio di vita e felicità.