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    Trent’anni di animazione culturale. Un bilancio



    Intervista a Mario Pollo

    A cura di Giancarlo De Nicolò

    (NPG 2012-08-5)


    Correvano gli anni Ottanta quando nei nostri convegni di pastorale giovanile appariva la parola «animazione». Quello che sorprendeva era appunto il suo collegamento con «pastorale giovanile», portando a una prima sintesi e proposizione organica quanto da qualche mese compariva sulla rivista NPG.
    Animazione, dunque, sola o con diverse aggettivazione (cristiana, e poi definitivamente culturale), in collegamento con varie realtà (i preadolescenti, la scuola, l’oratorio, le istituzioni educative in genere), fino a diventare un sostanzioso corpo di pensiero, un vero e proprio modello pedagogico particolarmente aperto e di possibile fecondo dialogo con quanto si veniva elaborando sui temi della fede e della sua educazione/educabilità soprattutto per il mondo giovanile.
    Il concetto era affascinante ma anche leggermente ambiguo, e in ogni caso doveva dichiararsi e chiarire i suoi fondamenti.
    Di certo non aiutava l’utilizzo dello stesso termine in ambiti e contesti di «ludicità», o laddove essa era intesa e utilizzata come una metodologia particolarmente vantaggiosa solo per i piccoli gruppi, mentre ad esempio per contesti più ampi (territoriali, istituzionali) veniva utilizzato un altro termine (animazione sociale).
    Un fatto è che il progetto di pastorale giovanile attorno alla rivista NPG (e al CSPG di quel tempo) entrò in stretto rapporto con l’animazione culturale, avvertendola come una possibile base filosofica-antropologica-metodologica – per il suo dichiarato intento di essere una filosofia e pedagogia dell’amore alla vita – per la proposta della fede soprattutto alle nuove generazioni.
    I processi educativi messi in atto erano facilmente (o non in maniera impossibile) componibili e «adattabili» ai processi e dinamismi della crescita e maturazione della fede, pur riconoscendone la diversa logica (la «grazia» e lo Spirito non sono frutto di educazione e di conquista personale o con processi di riuscita socializzazione, ma «dati» di dono). E comunque la risposta umana e l’atteggiamento di accoglienza erano questi sì «passibili» di educazione mediante processi di animazione…
    L’animazione culturale diventava inoltre riferimento obbligato per vari ambiti di lavoro nel sociale (prevenzione o gestione della devianza, riqualificazione del territorio, metodologia di azione politica…) e soprattutto come teoria-metodologia educativa particolarmente efficace (dicevamo) per i piccoli gruppi giovanili, appunto per l’anima che la sostiene e la definisce, l’amore alla vita, a cui i giovani sono particolarmente sensibili (e la fede ed esperienza cristiana pure).
    Per questa e altre ragioni sono fiorite e si sono diffuse su tutto il territorio nazionale (e anche spagnolo) scuole di animazione e per animatori che hanno piastrellato il cammino di tante generazioni di giovani che si sono cimentati nella loro crescita personale e spirituale e nel campo dell’educazione o prevenzione (anche con l’ausilio di dossier e rubriche su NPG: dizionario dell’animazione, animatori di gruppo, per una scuola di animatori, animatori «vita da cani», spiritualità dell’animatore, ecc…).
    E adesso?
    Certamente il passato è «glorioso» e il presente ancora significativo. Che dire del futuro?
    Intanto sussistono elementi di criticità. Sia come teoria-metodologia pedagogica (diciamo che a livello accademico non ha mai suscitato grandi entusiasmi… ma certamente non basta questo a definirla superata…), che come «supporto antropologico-metodologico» per la pastorale giovanile, dunque a livello teologico.
    È dunque il tempo di una disanima seria, approfondita, critica.
    È quanto abbiamo fatto – sulla scia di un’altra intervista a Riccardo Tonelli su quarant’anni a servizio della PG – con Mario Pollo, colui che storicamente ha elaborato tale proposta e nella rivista ha contribuito più di chiunque altro a farla conoscere, applicare, diffondere.
    Non abbiamo inteso essere «celebrativi».
    Abbiamo raccolto da vari ambiti una serie di domande di chiarimento, di esplicitazione, e le abbiamo poste con onestà… Non siamo in grado di prevedere se questo sia in vista di un rilancio… ma certamente per operare chiarificazioni e per ridire il nucleo e il cuore di essa: in effetti siamo soprattutto consapevoli di una sua non sempre piena comprensione e corretta utilizzazione. Mettiamo dunque le carte in tavola, e affrontiamo i nodi.
    Che sono di un duplice livello: anzitutto la comprensione dell’orizzonte «di pensiero e valoriale», della sua antropologia e della sua metodologia. Dunque la comprensione senza ambiguità della proposta pedagogica che offre l’animazione, che non è una metodologia educativa ma anzitutto un «corpo pedagogico», una filosofia-antropologia (non centrata per nulla sull’autosufficienza dell’umano o sull’autorealizzazione chiusa del soggetto, come a volte «accusata») prima che prassi pedagogica.
    E poi (ma qui forse compete di più alla teologia e alla teologia pastorale), il nodo fondamentale, su cui oggi persistono incomprensioni o rifiuti: se la PG si definisce come disciplina pratica per dire-proporre la fede oggi ai giovani, per la sua stessa natura e per i soggetti coinvolti essa ha una qualità educativa e necessita dunque di scegliere un modello di educazione, rispettando l’autonomia e accogliendo il valore di essa. Il problema (tutto dalla parte della teologia) sta nella implicita poca attenzione all’educazione nella sua autonomia (almeno relativa), e nella difficoltà di mettere a fuoco il rapporto tra educazione ed evangelizzazione.
    L’Autore – lo garantiamo – non si è sottratto a nessuna domanda, anche particolarmente «dura». L’impressione è che non ci è sembrato voler difendere una sua creatura intellettuale, a tutti i costi e in tutte le virgole, bensì chiarire, esplicitare, proporre senza arroccamenti.
    Il tutto – come risulta – per amore della vita «piena» dei giovani.
    Che è appunto quanto trova consonanza tra esperienza giovanile ed esperienza cristiana.
    E che dunque per noi risulta perlomeno una proposta seria con cui confrontarsi.
    Editorialmente, anche se forse risulterà faticoso per il lettore, abbiamo pensato di pubblicare in un unico numero tutte le 6 parti in cui abbiamo suddiviso la tematica e l’intervista. Sarà faticoso, ma di certo risulterà vantaggioso, e speriamo più i vantaggi che le fatiche…

    1. LA COSTRUZIONE DI UNA TEORIA E METODO EDUCATIVO

    Gli albori dell’animazione

    Domanda
    Uno dei suoi ultimi libri, indice dell’evoluzione costante del suo pensiero e diremmo riassuntivo del suo percorso di riflessione e proposta, è «Manuale di Pedagogia generale. Fondamenti di una pedagogia culturale dell’anima». Un sottotitolo abbastanza curioso, non usuale.
    A parte la «moda-interesse» editoriale circa l’anima (Zambrano, Mancuso, Ravasi, Canobbio…), cosa L’ha spinto a questo sottotitolo «pedagogia culturale dell’anima»? Perché abbandonare la più classica dicitura «animazione culturale»?

    Risposta
    Questa scelta nasce da due motivi molto diversi.
    Il primo dalla constatazione che alla parola «animazione» è accaduto ciò che capita in economia, che la moneta cattiva scaccia la moneta buona. Infatti, nell’uso linguistico comune la parola «animazione» non evoca più il suo significato originale, l’atto del dare l’anima o del mantenere la vita; bensì quello che il Tommaseo definiva un gallicismo: un «moto vivace di persona, passionato o no».
    Questo fa sì che quando si parla di animazione si pensi a dei giochini, più o meno intelligenti, con cui vivacizzare – animare appunto – un momento ludico o espressivo/creativo. Per fare l’animatore basterebbe acquisire qualche tecnica e, soprattutto, avere la vocazione dell’uomo di spettacolo. Non è un caso che un famoso intrattenitore contemporaneo, Fiorello, abbia cominciato la sua carriera facendo l’animatore in villaggi turistici.
    Costatata che è per ora persa la battaglia di affermare l’autentico significato della parola «animazione», ho preferito una sorta di ritirata strategica che consentisse di tenere in vita il significato dell’animazione come autentica pedagogia dell’anima.
    Il secondo motivo è, molto semplicemente, dovuto a una scelta dell’editore. Infatti, quando ho sottoposto all’editore il manoscritto, questo era intitolato: «Pedagogia dell’anima. Fondamenti di animazione culturale». Per ragioni che sfuggono alla mia comprensione si è preferito il titolo molto scolastico e tradizionale di «Manuale di pedagogia generale» con un sottotitolo che è una sorta di sintesi tra il titolo e il sottotitolo originali.
    In altre parole, con la dicitura «pedagogia culturale dell’anima» ho voluto semplicemente ricordare il significato originale dell’espressione «animazione culturale»: che è quello di un modello educativo che ha al centro l’amore alla vita, e che considera l’uomo un essere che vive la paradossalità dell’essere – da un lato – limitato nello spazio-tempo dal corpo e – dall’altro lato – privo di confini spaziotemporali grazie alla sua anima.
    Confesso di avere approfittato – per compiere quest’operazione – di un momento storico culturale che vede riemergere con forza il tema dell’anima. Tema che la modernità – a partire da John Locke – aveva messo in soffitta e sostituito prima con il surrogato «identità personale» e poi con quello di «mente». Tuttavia, sin dai miei primi scritti alla fine degli anni Sessanta, la definizione di animazione che ho proposto era radicata nel suo significato etimologico di «dare anima». E quindi questo mi mette al riparo dall’essere considerato, grazie a quel titolo, come uno che segue le mode culturali del momento.

    TORNANDO AGLI INIZI

    D. Torniamo indietro nel tempo, all’ingresso dell’animazione culturale nel panorama educativo italiano, che deve a Lei la sua formulazione e sistematizzazione più precisa e matura.
    Cerchiamo di ricostruire un po’ di storia delle idee, in particolare, il contesto storico-sociale, i «maestri ispiratori», le intuizioni originanti, le prime sintesi, l’accoglienza e le critiche, le successive aggiunte e sistematizzazioni, le applicazioni in vari campi…

    R. Le radici della mia scoperta dell’animazione culturale risalgono al lontano 1967 quando, conclusi i miei studi universitari, nell’attesa di un impiego nel settore per cui avevo studiato, accettai un lavoro saltuario propostomi dal Centro di Sviluppo e Organizzazione Sociale della Provincia di Torino (CSOS) che mi condusse a fare alcune peculiari esperienze educative.[1]
    Ricordo questo momento aurorale (che a prima vista può apparire alquanto caotico) della mia vita professionale, perché in esso si sono ibridate molteplici esperienze e alcune discipline assai differenti e addirittura lontane tra di loro. Per avere un quadro completo di quel periodo, è bene ricordare che esso fu teatro di fenomeni sociali rilevanti come la contestazione studentesca, i movimenti antipsichiatrici, il sindacalismo dell’autunno caldo, i movimenti sociali e politici che miravano a un rinnovamento radicale della società.
    Quegli anni sono stati un vero e proprio crogiolo sociale e – come avrebbe scritto Alberoni poco dopo – hanno consentito alle persone di vivere un vero e proprio «statu nascenti».[2]
    Comunque, l’animazione culturale, già nei miei primi scritti, è stata concepita come:
    «un metodo formativo globale che mira a una crescita ed evoluzione armonica dell’individuo considerato un’unità indivisibile e non una somma di parti o funzioni. Questa crescita o maturazione passa attraverso la presa di coscienza che l’individuo e i gruppi sociali vivono in un mondo simbolico e, quindi, primariamente devono sviluppare la loro capacità di apprendere, utilizzare concretamente e creare sistemi simbolici. […] Il rapporto tra l’uomo e i sistemi simbolici avviene in uno spazio-tempo la cui struttura fisica è quella relativista i cui confini possono essere estesi dai simboli. L’animazione deve ampliare la coscienza dello spazio-tempo e, attraverso la tradizione e la creatività, stimolare l’uomo alla sua trascendenza. Essa si pone poi il compito di attivare negli individui e nei gruppi la ricerca di una sintesi tra morale individuale e morale sociale al fine di consentire la ricomposizione della coscienza dell’uomo. Nella sua azione di metodo formativo globale, l’animazione si avvale della ricerca di una cultura non più divisa ma unitaria in cui trovino sintesi le culture umanistiche, artistiche, scientifiche, popolari e religiose dell’uomo. L’animazione deve poi come compito massimo stimolare l’uomo alla ricerca della via della trascendenza».[3]
    Come si vede da questa definizione, i punti chiave dell’animazione erano costituiti dal superamento della concezione meccanicistica dell’uomo a favore di una concezione olistica, dall’affermazione del ruolo dei sistemi simbolici nella definizione dell’uomo e del suo mondo, nell’apertura alla visione dello spazio-tempo così come la fisica relativistica e la meccanica quantistica andavano disegnando, dall’affermazione dell’unità nell’uomo delle dimensioni individuali e sociali, della complementarietà di tutte le vie della conoscenza (scientifiche, letterarie, artistiche e religiose) e, infine, dalla necessità che l’educazione dell’uomo trovasse il suo compimento nella scoperta della trascendenza.
    Rispetto alla prima formulazione dell’animazione culturale, sviluppata tra la fine degli anni Sessanta e Settanta, quella successiva ha articolato in modo più specifico la sua definizione e i suoi rapporti con l’educazione, la socializzazione e l’inculturazione, ha arricchito e approfondito il suo fondamento antropologico, ha strutturato e definito i suoi obiettivi sia generali che particolari e, infine, ha posto al centro del metodo la dimensione relazionale.
    Questo sviluppo dell’animazione culturale iniziato negli anni Ottanta ha raggiunto la sua più compiuta sistemazione alla soglia del terzo millennio.

    La sua «finestra sul mondo»

    D. Torneremo sull’antropologia che supporta tale proposta, ma vogliamo prima di tutto individuare il punto focale dell’animazione (la «finestra da cui guarda il mondo»), e cogliere più ampiamente i suoi nuclei fondamentali e caratterizzanti…

    R. Il punto focale da cui l’animazione guarda il mondo è quello dell’amore alla vita. In quanto legata ai significati più genuini dell’esistenza, l’animazione pone come estranee al proprio orizzonte di senso le forme della vita segnate dall’alienazione, dalla schiavitù, dall’oppressione dell’uomo sull’uomo o su se stesso, e che impediscono alla singola vita umana di svolgersi in tutta la potenza in essa contenuta.
    Il suo orizzonte di senso rimanda perciò alla libertà, alla creatività, alla gioia, all’amore per gli altri giocato sul rispetto di se stessi, alla speranza come senso fondamentale dell’essere e infine allo scacco, al fallimento come tratto umano, origine di vita e non di distruttiva disperazione.
    L’animazione è una qualità che compare solo nelle forme di vita liberanti e liberate. Prima ancora che una proposta educativa, essa è un modo di vivere e di affrontare la vita in cui è protagonista l’amore alla vita, nella libertà e nella verità, che si esprime in un atteggiamento globale, fallace e imperfetto per sua natura, ma che testimonia lo sforzo dell’uomo e del suo pensiero di onorare la vita al di là dello scacco e del fallimento che ogni giorno segnano il suo vivere.
    L’animazione è allora una scommessa sulla vita e sull’uomo: scommessa sull’uomo e sulla sua capacità di liberazione storica, pur nella povertà che contraddistingue ogni sua azione. Essa è un «tema generatore»[4] di vita nel momento in cui la vita stessa è minacciata, un luogo di speranza per il futuro dell’umanità, in cui liberare la ricchezza delle nuove generazioni e in cui continuamente rigenerare l’uomo e la stessa società.
    Questo, perché l’amore alla vita che l’animazione persegue è, per prima cosa, la fiducia che nonostante tutto è possibile per l’uomo costruirsi secondo un progetto che, accanto alla sopravvivenza e all’adattamento sociale, colloca le domande fondamentali sul senso dell’esistenza.
    Un progetto che sa che all’uomo non è negato – se segue il soffio dello Spirito – il farsi effettivamente a immagine e somiglianza di Dio. Un progetto che sa anche che la storia – così com’è disegnata dalla vita sociale odierna – non è ancora per tutti gli uomini il luogo fecondo di questa possibilità. Un progetto che sa che l’uomo deve costruire se stesso dentro il lavoro per la realizzazione di una diversa, più giusta e vera società, di una nuova storia. Un progetto che sa che tutte le sconfitte che l’uomo subisce nella sua quotidiana fatica di vivere non riescono a intaccare irrimediabilmente il suo futuro.
    L’animazione è, da questo punto di vista, un progetto educativo e uno stile di vita che colloca la costruzione dell’uomo all’interno di un faticoso lavoro di redenzione della convivenza sociale e della storia; e perché tutto questo avvenga, è necessario che l’uomo si emancipi da tutti quei vincoli, da tutte quelle dipendenze che inibiscono il fiorire del suo essere: novelli idoli nel nome dei quali l’uomo sacrifica il divenire pienamente se stesso, e i cui nomi sono successo, ricchezza, piacere, potere, ecc.
    Amore per la vita e amore per l’uomo sono alla fine la stessa cosa. È su questa convinzione che poggia il modo di vivere nello stile dell’animazione: fondamentalmente la scommessa che oggi è possibile non essere idolatri, bensì portatori di quel progetto che impedisce all’uomo di rinchiudersi nei limitati orizzonti che il conformismo sociale propone, un progetto permeato dal significato le cui radici sono al di là della soglia del mistero.
    Un amore alla vita tuttavia non facile, perché intriso dalla sofferenza e dalla sconfitta. Infatti, dire un progetto non idolatra oggi significa pagare un qualche prezzo in termini di sofferenza personale e di gruppo. Allo stesso modo, il lavoro di trasformazione della storia sembra essere sempre sconfitto dalle logiche dominanti del potere.
    L’affermazione della speranza pur nella sofferenza è un altro connotato dell’amore alla vita nello stile dell’animazione. La sofferenza, da scandalo che ancora affligge il mondo, può divenire la forza rigeneratrice delle infedeltà dell’uomo al proprio essere.
    La logica dell’amore per la vita dell’animazione si fonda, alla fine, sull’irriducibilità della speranza, sulla fede cioè nella redimibilità di ogni situazione umana, anche della più disperata.

    I VALORI DI RIFERIMENTO

    Tuttavia l’amore alla vita per dirsi e per poter essere declinato richiede di essere sostenuto da un insieme coerente e unitario di valori.
    Il centro di questo sistema di valori è costituito dalla coscienza e, quindi, dalla libertà e dall’autonomia della persona umana da tutte le dipendenze che impediscono la sua piena realizzazione.
    Connessi e inscindibili vi sono i valori della solidarietà, dell’armonia e dell’unità con il tutto costituito dalla realtà sociale e naturale in cui l’uomo abita: unità che presuppone una coscienza aperta al dialogo con le dimensioni psichiche che abitano le regioni dell’inconscio e con il mistero del radicalmente Altro.
    Il valore della coscienza, proprio perché «fa sistema», è assolutamente diverso da quello proposto dalla cultura dominante e costituito dall’affermazione narcisistica dell’Io.
    Un altro valore forte dell’animazione è quello della «storia». L’animazione accetta sino in fondo la concezione secondo cui il senso della vita umana, individuale e sociale, è nella sua storia. Che lo svolgersi della vita umana nel tempo non è un inutile e vano procedere, ma un cammino lungo, faticoso, doloroso ma anche gioioso verso la propria redenzione e salvezza.
    La sua acquisizione comporta la condivisione dei valori della memoria, come fondamento dell’identità umana, e del futuro, come fondamento della speranza del presente. Dentro questo grappolo trovano spazio i valori del lavoro come contributo alla storia della redenzione della condizione umana e non solo alla sopravvivenza, dell’amore come antidoto al potere nella vita sociale, dell’utopia come fondamento di ogni realismo e della finitudine come luogo sia del peccato, in altre parole della debolezza umana, sia della possibilità della sua sconfitta.
    Accanto ad essi e inestricabilmente connessi vi sono poi i valori inerenti la sfera della responsabilità dell’agire sociale. Centrale in questo grappolo è l’altro da me come valore, il riconoscimento cioè che il senso e il valore della propria vita è strettamente interconnesso al senso e al valore della vita delle altre persone con cui si condivide lo spazio e il tempo: è l’amore come fonte dell’unità profonda della persona con se stessa e con gli altri e fondamento di quella realizzazione umana piena in cui non c’è conflitto tra la dimensione individuale e quella sociale.
    Un altro valore importante è quello dell’accettazione che la relatività degli elementi che costituiscono la vita umana è compresa all’interno di un assoluto che diventa normativo e giudica, quindi, lo stesso relativo. Quest’assoluto è dato dall’intangibilità di ogni forma di vita umana come espressione del radicale amore alla vita. Intangibilità che si esprime non solo nel rispetto della vita fisica delle persone, ma anche nel rispetto della loro vita psichica e spirituale. Valore che alla fine manifesta la certezza che in ogni vita umana, anche in quella più povera e disperata, vi è una radicale dignità da salvaguardare e amare, e dunque che ogni situazione umana, ogni persona umana è redimibile.
    La gratuità è valore cardine: esso può essere definito come «trasformatore» degli altri, nel senso che li carica – oltre che della donatività – anche della gioiosità tipiche della festa e del gioco. Gratuità, festa e gioco, dopo il dono della Croce, accompagnano l’impervio cammino della redenzione dell’uomo nella terra straniera in cui ancora abita.
    In uno sguardo attento alla dimensione dell’educazione, particolarmente rilevante per l’animazione è la reciprocità della relazione educativa, che consente a chi educa – pur senza smarrire il proprio ruolo – di essere educato mentre educa. Perché questo possa avvenire, l’animazione sottolinea l’importanza della coerenza, che deve condurre chi si mette in gioco a vivere sino in fondo a livello pratico i valori ideali che enuncia, unificando i due livelli dell’ideale e del pratico.
    Accanto a questi valori finalizzati alla vita attiva ve ne sono altri che sottolineano la dimensione contemplativa dell’esistenza umana, intesa come capacità da parte dell’uomo di sottomettere la sua vita, dopo averne affermato la libertà e l’autonomia, ad un disegno più grande la cui origine è laddove è mistero. Ricordiamo qui il silenzio, l’accettazione – nonostante i continui sforzi per superarli – dei limiti propri e altrui come luoghi da cui è possibile cogliere la presenza dell’infinito nella storia umana, la capacità del linguaggio – quando lo si apre al simbolico – di trascendere la banalità per mettere in relazione la vita dell’uomo con il mistero del Totalmente Altro.
    Tutto il sistema dei valori dell’animazione è infine giudicato nella sua coerenza dal punto di vista della Fede. Infatti la Fede – pur non intervenendo direttamente nell’azione dell’animazione – la giudica e la ispira.
    Finora ho descritto – del sistema dei valori dell’animazione – quanto mi pareva più importante, anche in vista di un discorso fondante sull’antropologia dell’animazione che da questi valori discende. L’anima­zione nel suo svolgersi ha la pretesa di comunicare questi valori rafforzando semplicemente la loro presenza, se essi già esistono nella persona del giovane, oppure lavorando perché il giovane maturi quel profondo cambiamento di sé che gli consentirà di esprimere questi valori nella sua vita.
    L’animazione – oltre ai suoi valori propri, come già detto – può comunicare altri valori, purché siano congruenti con i propri. Questo avviene tutte le volte che l’animazione diventa lo strumento di azioni formative particolari e specializzate, come ad esempio quella pastorale, quella politica o quella sportiva.
    Se senza valori non si ha educazione, senza questi particolari valori non si ha animazione.
    Questi or ora descritti sono come l’orizzonte attraverso cui l’animazione circoscrive il mondo dell’uomo e della sua educazione.

    2. LA VISIONE DI UOMO DELL'ANIMAZIONE CULTURALE

    D. Sappiamo che alla base di qualunque progetto di educazione ci sta una antropologia di riferimento, che definisce i valori nella loro coerenza reciproca e come traduzione storica dei grandi orientamenti di fondo, e la loro gerarchia, e che punta alla realizzazione possibile (attraverso il cammino pedagogico) di quel tipo di uomo «immaginato». Ovviamente un’antropologia seria non guarda solamente all’uomo ma alla storia-cultura in cui è inserito, alle relazioni (personali e istituzionali), ai diritti-doveri che lo impegnano verso se stesso e gli altri.
    Qual è la concezione di uomo che sostiene la capacità di guardare la realtà del mondo dal punto focale dell’amore alla vita?

    R. L’antropologia dell’animazione ha al centro la concezione dell’uomo come essere progettuale. Essa infatti riconosce che la progettualità nell’uomo riguarda sia la sua formazione come persona sia la costruzione della realtà, ovvero del mondo che abita. Infatti egli, producendo se stesso, incorpora la cultura, i linguaggi e tutti i sistemi simbolici che mediano e medieranno il suo rapporto con la realtà.

    L’UOMO COME ESSERE CULTURALE E SIMBOLICO

    Questo significa che accanto al riconoscimento che l’uomo è un essere progettuale mistero a se stesso, l’antropologia dell’animazione propone l’uomo come essere culturale e simbolico o, come direbbe Cassirer, come animal symbolicum.
    È la cultura in effetti che media il rapporto dell’uomo con se stesso e la realtà fisica e sociale. Essa va ovviamente intesa in senso allargato, come quel complesso di regole e di modelli che consente all’uomo di elaborare quelle conoscenze, credenze, arti, norme morali, diritto, costume e tutti quei comportamenti che lo faranno riconoscere come appartenente ad una data società.
    Utilizzando un linguaggio semiologico, la cultura appare come un vero e proprio codice per mezzo del quale l’uomo interpreta gli stimoli che gli provengono dal mondo e attraverso cui organizza le proprie risposte agli stessi.[5] Il presupposto è ovviamente una concezione di cultura come un sistema unitario in cui le singole parti non possono essere comprese correttamente se non in rapporto alla totalità del sistema cultura. Tale affermazione non deve far pensare che essa sia priva di conflitti e di tensioni al proprio interno, in quanto l’unitarietà si manifesta nella sua capacità di risolverli, o attraverso il loro superamento o per mezzo di forme che non mettano a repentaglio la sua sopravvivenza.
    La cultura non deve essere perciò intesa come una sorta di magazzino in cui sono depositate le varie parti che la costituiscono, ma come un sistema che si trasforma continuamente perché vive nelle persone che la utilizzano, nei loro rapporti con gli altri e con la realtà in generale: un vero e proprio sistema vivente che, pur permanendo identico a se stesso, evolve o regredisce all’interno dei rapporti vitali delle persone che lo esprimono.
    La relazione indissolubile tra comunicazione e cultura nell’uomo fa emergere il ruolo del linguaggio nel processo attraverso cui l’uomo costruisce se stesso e il proprio mondo. Infatti, nell’agire umano la comunicazione è sempre organizzata intorno a dei linguaggi, e non è riducibile al semplice scambio di stimoli sensoriali sconnessi e indipendenti l’uno dall’altro.
    Il linguaggio è costitutivo dell’esperienza umana, non tanto perché è attraverso esso che sono formulate le domande intorno al senso dell’esistenza umana, ma per il fatto che esso è mondo, che esso sta prima e dopo la realtà della materia e che, infine, apre alla trascendenza.

    Abitante del tempo

    Un’altra caratteristica che declina l’antropologia dell’animazione strettamente connessa con quanto finora espresso, è quella dell’uomo «abitante del tempo».
    È infatti un’ovvietà affermare che i limiti della condizione umana sono definiti – oltre che dallo spazio – dal tempo, che la nascita e la morte sono i due confini attraverso cui compare e scompare la vita umana e che innestano la vita dell’individuo all’interno dei confini più grandi della storia del mondo e in quelli molto più piccoli della storia dell’umanità.
    La storia della civilizzazione umana, così breve rispetto agli abissi temporali in cui s’inscrive, è però la storia dell’emersione dell’uomo alla coscienza e al tentativo di governare il fluire della sua vita individuale sociale nel tempo. Infatti, è su questa emersione che si fonda la possibilità dell’uomo di esercitare una forma, efficace anche se limitata, di signoria della sua vita. Il controllo del tempo, la possibilità cioè di scandire la propria vita secondo un ritmo che si fa progetto di vita, è la manifestazione del dono di libertà fatto da Dio all’uomo attraverso la coscienza.
    L’uomo prigioniero della sopravvivenza giorno per giorno, governata dalla necessità e dalle forze istintuali, è un uomo che non percepisce il ritmo del tempo che scandisce la vita dell’universo che abita. In effetti l’uomo non emerso alla coscienza è un uomo prigioniero della sua vita fisiologica, oltre che delle sue paure e angosce più profonde. Allo stesso modo, l’uomo che non conosce il tempo è un uomo che non ricordando il proprio passato, o meglio non sapendolo organizzare in una narrazione dotata di senso, non sa prevedere il proprio futuro e, quindi, che non sa vivere secondo un progetto.
    Tuttavia, nonostante tutti gli sforzi compiuti e le conquiste della scienza, l’esperienza del tempo rimane per molti versi irriducibile ad ogni spiegazione completamente razionale, e risulta perciò gravata dal segno del mistero.
    Anche perché l’uomo intuisce la presenza nella sua esperienza del tempo di ciò che può svelargli il senso della sua vita.
    Per questo l’animazione colloca tra i suoi fondamenti la concezione di un uomo saldamente inserito nella nootemporalità, anche se sa vivere con il giusto equilibrio la sociotemporalità, che sa cogliere nel mistero del tempo l’impulso che Dio ha posto nelle sue creature per farle arrivare al loro destino soprannaturale, perché sa che il tempo è solo la storia degli interventi di Dio e dei passi della creazione verso il suo fine.

    La progettualità

    Ora è bene ricordare che la via più diretta che l’uomo ha a disposizione per accedere al senso del tempo è costituita dal progetto che egli fa di sé e della propria vita.
    E a questo proposito occorre ricordare che la progettualità dell’uomo si traduce concretamente nella sua vita per mezzo del lavoro. Il lavoro, infatti, è ciò che permette all’uomo di costruire le condizioni ambientali necessarie, oltre che alla sua sopravvivenza, al suo farsi secondo il suo particolare progetto.
    Il lavoro, scandendosi nel tempo, ritma il divenire dell’uomo in quell’evento dotato di senso che è la storia.
    Il lavoro è però ambivalente, perché può essere sia il contributo, povero ed efficace allo stesso tempo, dell’uomo alla redenzione del mondo dalla distruttività del peccato, sia la manifestazione della sua subordinazione ad esso.
    La storia può essere, di conseguenza, concepita sia come il procedere dell’uomo verso l’evento finale della piena realizzazione di se stesso in una terra non più maledetta ma divenuta luogo della manifestazione del Regno, sia come il permanere ostinato dell’uomo nella prigione della maledizione del peccato originale.
    Il sacrificio di Gesù il Cristo ha però aperto, irreversibilmente, la storia all’evento finale della salvezza, e chiede agli uomini di impegnarsi concretamente per la sua realizzazione attraverso la sostituzione delle logiche del potere con quelle dell’amore.
    In questo contesto il progetto dell’individuo che vuole corrispondere al piano della salvezza di Dio deve superare le frontiere del soggettivo per divenire l’incontro solidale, nel segno dell’amore, con i progetti degli altri individui nel sociale.
    A questo punto è bene ricordare che l’elemento fondante la temporalità noetica è la consapevolezza della morte, in quanto l’uomo ha conquistato questo modo di abitare il tempo quando ha preso coscienza della propria mortalità.
    Il rapporto con la morte è, quindi, un elemento ineliminabile nel percorso di costruzione di una persona capace di vivere in modo progettuale e cosciente la propria esistenza.
    Non è un caso che alla crisi della nootemporalità e della concezione progettuale della vita umana corrisponda simmetricamente una radicale rimozione della morte dalla consapevolezza della cultura sociale e dai pensieri degli individui che la abitano.
    Occorre ricordare anche che per la persona la rimozione del pensiero della propria mortalità costituisce un passo importante nel processo di fuga o di estraniazione da se stessi e dalla propria umanità profonda. La sete umana di vita, infatti, quando non fa i conti con la morte e il suo senso, rischia di divenire essa stessa produttrice di morte.

    L’uomo, una totalità

    Nell’uomo emerso alla coscienza la morte segna il suo orizzonte esistenziale e la sua vita trova la pienezza solo quando incontra il suo senso di fronte alla morte.
    L’antropologia dell’animazione si declina poi nel considerare l’uomo una totalità rifiutando la concezione che vede nell’uomo una sorta di macchina, chiusa in se stessa, costituita da un insieme di parti separate e indipendenti: una macchina – per intenderci – fatta di psiche e di corpo, di razionalità e istintualità, di coscienza e inconscio, di materia e spirito.
    L’uomo è un soggetto indivisibile in cui tutte le parti sono in connessione tra di loro, e quindi s’influenzano reciprocamente, un soggetto in cui tutto e parte non possono essere compresi in modo separato. È un sistema aperto che scambia informazione, materia-energia, con l’ambiente esterno: la natura, la società, la cultura e ogni altro uomo singolo; in questo scambio permanente si fonda la sua possibilità di sopravvivenza.
    Parlare di uomo come sistema vivente aperto è, tra l’altro, un modo per reagire criticamente e costruttivamente a due opposte ipotesi antropologiche correnti gravide di conseguenze educative: alle concezioni individualistiche di chi vede l’uomo come pura interiorità o organismo individuale, e che costruisce quindi la propria identità personale indipendentemente da qualsiasi influenza dell’ambiente naturale e sociale; e alle concezioni deterministiche o ambientalistiche di chi vede l’uomo come una sorta di risultato dei condizionamenti dell’ambiente economico, sociale, dell’educazione, del clima, ecc. E significa riconoscere sia gli influssi che l’ambiente esercita su di lui, sia il fatto che egli ha una individualità tutta propria, irripetibile, alquanto indipendente dai condizionamenti esterni, nessuno dei quali è in grado di eliminare completamente la libertà e, quindi, la responsabilità circa il suo proprio destino.
    L’identità dell’uomo è quindi il risultato di questo processo complesso, le cui interrelazioni – giova ripeterlo – sono tutte intessute dalla trama del linguaggio e della cultura: è questo in effetti l’unico elemento che alla fine è in grado di unificare individualità e condizionamento sociale.
    Il considerare l’uomo un sistema aperto consente di sfuggire al determinismo del pensiero causale che, nonostante il superamento del positivismo, gioca ancora un ruolo rilevante nelle scienze umane, e permette di sostituirvi una concezione più rispettosa del carattere aperto del sistema umano: quella del principio di equifinalità.[6] Questo vuol dire che ogni persona ha una propria libertà e una propria autonomia: è un «unicum» irripetibile che reagisce in modo personale ai condizionamenti dell’ambiente sociale.[7]
    Tale principio inoltre consente di affermare che nessun nessun uomo è irredimibile: ogni caso, anche il più disperato, può trovare una sua via di uscita personale, anche nelle situazioni peggiori rimane per ogni uomo una fessura aperta alla speranza.
    Per l’animazione culturale l’uomo è come un essere «anfibio» che abita l’al di qua e l’al di là, e quindi che è un essere finito, limitato, aperto però al trascendente.
    Per comprendere questo evidente paradosso, è necessario considerare che la vita umana si esprime e trova la sua energia creatrice nell’incontro/scontro tra la potenza del desiderio, che può essere considerato il motore dell’esistenza umana (l’energia che spinge l’uomo verso la vita intesa come ampliamento di sé e degli spazi esperienziali) e la costrizione del limite, ovvero dell’insieme di norme, di codici e, quindi, di forme che fissano l’insieme delle possibilità legittime in cui l’azione umana può manifestarsi.
    Se il desiderio è lasciato libero di esprimersi e non incontra delle costrizioni che lo incanalano all’interno di particolari forme di vita, esso rivelerà la sua ombra, ovvero la sua devastante potenza distruttrice [8]. In altre parole, solo quando la sete di infinito e di totalità che è presente nell’uomo trova la fonte a cui abbeverarsi nel limite costituito da valori, norme, leggi e progetti, produce la civilizzazione che è l’unico luogo possibile di una vita umana.
    Questa concezione – tipica dell’uomo della Grecia classica – non è certamente scomparsa con il declino della civiltà greca, ma ha intessuto di sé tutte le culture dell’occidente che si sono radicate in essa. Un romanzo classico della cultura mitteleuropea, L’uomo senza qualità di Musil, offre un preciso riscontro a tale affermazione, laddove un personaggio afferma che «la felicità è nel limite» e poco più oltre «ma guai se il limite è vecchio di un’ora».
    Il limite in effetti serve la vita solo se è in grado di rinnovarsi e ridefinirsi continuamente: è per questo motivo che le culture sociali prevedono sempre la presenza di «trasgressori», di «esploratori» o, più semplicemente, di «innovatori», la cui funzione è l’esplorazione dell’oltre il limite o l’invenzione di nuovi limiti. Spesso tale funzione è stata giocato dalle generazioni giovanili: lo scarto generazionale, ad esempio, può essere letto anche come il risultato del diverso rapporto desiderio/limite sviluppato dalle nuove generazioni.

    LE CONSEGUENZE SUL PIANO EDUCATIVO

    D. Il quadro offerto è ricco di spunti e di possibili approfondimenti. Ma quali conseguenze ha tutta questa riflessione antropologica sull’impianto teorico e pratico dell’educazione? O meglio, in quale modo di questi «bei» principi si giunge alla faticosa e compromessa pratica?

    R. Le conseguenze rilevanti per l’educazione vengono anzitutto dalla scelta del concetto di sistema come uno dei concetti base dell’antropologia dell’animazione.
    Se l’uomo è un’unità altamente complessa, un tutto indivisibile di cui ogni singola parte (in cui a volte per comodità di analisi viene concettualmente scomposto) viene sempre vista e considerata in relazione alle altre e all’intero, è allora necessario considerare l’uomo utilizzando un modello conoscitivo in cui il tutto è spiegato dalla parte e questa dal tutto; non solo, ma un tutto in cui tutte queste parti dinamicamente esistono e interagiscono, influenzandosi reciprocamente.
    Nessun comportamento umano è mai pienamente solo razionale o solo affettivo o solo sociale o solo istintivo o solo morale, ma è sempre la sintesi di tutto ciò che costituisce l’individuo umano. E, come dicevamo, l’unità, la sintesi che si sviluppa nella mente e nella coscienza umana, è resa possibile dal linguaggio dei segni e dei simboli che disegnano la cultura in cui vivono gli individui e i gruppi umani.
    Questo ha profonde conseguenze nell’impostazione teorico-pratica della visione pedagogica espressa dall’animazione culturale: presuppone infatti che il modello formativo dell’animazione sia di natura globale, e cioè tale da tenere conto che non è possibile formare la razionalità di un individuo senza considerare gli effetti che tale azione ha sull’affettività, la socialità, ecc.
    Se queste affermazioni a prima vista paiono banali e scontate, basta guardare le concezioni delle scienze umane e biologiche che hanno ispirato le principali correnti pedagogiche in questi anni recenti: esse sono, in gran parte, basate sul meccanicismo, cioè sulla scomposizione della psiche e del corpo umano in tante parti che venivano studiate, una per una, separatamente, senza curarsi dei loro rapporti reciproci o con il tutto in cui erano inserite.[9]
    Approccio globale significa realizzare processi di animazione culturale che mirino a investire simultaneamente tutta la complessità umana, e quindi tutte quelle parti che le concettualizzazioni scientifiche e filosofiche ritengono costitutive dell’essere umano.
    4) Questa concezione è presente nella cultura di quella porzione di mondo chiamata «occidente» sin dalle sue origini. Infatti, nel mondo greco antico, dai filosofi presocratici, in avanti, si riteneva che la vita e la sua felicità potessero dirsi solo nelle forme finite, limitate e che l’illimitato (apeiron) fosse il luogo angosciante della distruzione e della morte.

    3. L’ACCOGLIENZA, I PERCORSI VIRTUOSI, LE APPLICAZIONE DELL'ANIMAZIONE CULTURALE

    D. L’animazione culturale si presenta dunque come un solido e fondato sistema pedagogico. Ma come si colloca di fronte agli impianti teorici di altri sistemi pedagogici? E, in particolare, come è stata accolta, e quali le differenze sostanziali rispetto alle altre teorie pedagogiche diciamo più «riconosciute»?

    R. L’accoglienza da parte delle altre pedagogie, soprattutto in ambito accademico, negli anni scorsi è stata molto fredda se non nulla. Solo in questi ultimi anni si assiste da parte di alcuni pedagogisti a dei tentativi di lettura pedagogica dell’animazione, anche per il fatto che comunque l’animazione culturale – seppur a macchia di leopardo – è stata accolta in alcuni ambiti del lavoro sociale come le comunità terapeutiche, i centri di aggregazione per adolescenti e giovani, gli istituti di pena minorile, le scuole primarie, l’educativa di strada, lo sport educativo.
    Questo disinteresse nasceva anzitutto dal fatto che l’animazione è nata e si è sviluppata in ambito extra accademico, poi dal suo porsi in modo alternativo rispetto ad alcune prassi educative allora imperanti, e infine per colpa di molti «animatori» che hanno ridotto l’animazione all’applicazione di un mero insieme di tecniche e, purtroppo, hanno contribuito a far sì che questa loro mediocre prassi divenisse l’immagine dominante dell’animazione.

    Un confronto con le «pedagogie»

    Ma per cosa l’animazione si differenzia dalle «pedagogie»?
    È necessario anzitutto premettere che l’animazione culturale non si è mai dichiarata neutrale, come invece fa abitualmente l’educazione, rispetto alle concezioni dell’uomo, della società e del senso della vita che formano il pluralismo delle attuali società. L’animazione si è sempre dichiarata – pur riconoscendo la libertà dei soggetti cui si rivolge – come un’azione «militante» da parte di persone che credono nel valore liberante dell’educazione e che sono motivate nella loro azione da un particolare credo religioso, politico o sociale. Questo anche dopo l’abbandono postsessantottesco della funzione politica dell’animazione.
    Il modello del buon educatore, specie di quello che opera all’interno delle istituzioni educative, propone invece un modo di essere il più aperto possibile nei confronti del pluralismo culturale, politico, sociale e religioso della società in cui opera. Questa posizione è perciò assai diversa da quella dell’animatore che, pur rifiutando energicamente la manipolazione e l’indottrinamento e pur facendo del metodo critico un fondamento del suo agire, è un «educatore di parte» che non educa solo «per mestiere» ma principalmente perché è motivato da una qualche fede. Chiariamo subito però che nell’animazione non possono confluire tutte le fedi, ma solo quelle che mettono al centro il discorso della dignità, della libertà e dell’autonomia della persona umana: esse hanno titolo per sostenere e motivare l’azione dell’animazione.
    Una seconda osservazione si può ricavare dalla constatazione che l’animazione, nonostante in molti casi sia entrata nelle istituzioni, educative e non, non ha bisogno – per realizzarsi – del contesto istituzionale, al contrario dell’educazione che si fonda sempre su un’istituzione: scuola, famiglia, chiesa, ecc.
    Una terza osservazione conseguente è che i soggetti dell’animazione sono quasi sempre volontari, in quanto essi – almeno parzialmente – scelgono volontariamente di vivere questa particolare esperienza educativa.
    E infine l’animazione, a differenza dell’educazione come in genere la si intende, non deve (almeno come obiettivo formativo prioritario) trasmettere un sapere sociale e dei modelli di comportamento riconosciuti come validi dalla cultura sociale dominante, ma invece aiutare la persona a realizzarsi e a divenire protagonista della propria costruzione come individuo e come soggetto sociale. Basti pensare a quelle situazioni in cui l’animazione si fa strumento dell’espressione della solidarietà e della fiducia nei confronti di chi soffre la distruttività del disagio, della devianza e dell’emarginazione. In questi casi l’animazione si mostra chiaramente come espressione – a livello educativo – dell’amore alla vita e della fede nella capacità dell’uomo di evolvere al di là del suo stato attuale, anche laddove tutto sembra negarla. Questa scommessa – che anche le istituzioni educative possono fare e, a onor del vero, in qualche caso fanno – è tipica dell’animazione e ne costituisce il fondamento.

    Ambiti di accoglienza e azione

    D. Invece nella Chiesa italiana ha avuto una notevole (sorprendente?) accoglienza… e così pure nell’azione sociale di prevenzione e di ricupero. C’è comunque qualche particolare ragione per cui, mentre sono entrate nel campo professionale figure come l’operatore socioculturale o il mediatore (inter)culturale, quella dell’animatore culturale, fatta qualche rara eccezione, non ha trovato cittadinanza?

    R. Il motivo dell’accoglienza favorevole in ambito ecclesiale deriva dal suo essersi sviluppata all’interno di quell’irripetibile laboratorio progettuale che è stato la redazione della rivista NPG dalla fine degli anni Sessanta agli anni Ottanta. In quel laboratorio sono stati elaborati insieme i fondamenti della pastorale giovanile, che hanno avuto vasta eco e accoglienza nella chiesa italiana, e dell’animazione culturale. Si può dire che l’accoglienza della proposta di pastorale giovanile di NPG, elaborata da Riccardo Tonelli, ha posto le premesse per l’accoglienza in ambito ecclesiale dell’animazione culturale che appariva come il suo necessario complemento a livello educativo.
    Grazie al suo precoce inserimento tra gli insegnamenti nel Dipartimento di pastorale giovanile e catechetica dell’Università Pontificia Salesiana, l’animazione culturale ha superato i confini nazionali e si è diffusa in Europa, soprattutto in Spagna e nei paesi dell’Est, in Africa, in Asia, nell’America del Sud.
    L’accoglienza, invece, da parte da parte degli operatori nell’ambito della prevenzione e del recupero sociale è una conseguenza diretta del fatto che le più importanti iniziative in questo ambito del lavoro sociale sono state promosse da religiosi e da gruppi e associazioni religiose che hanno portato nella loro azione pionieristica la cassetta degli attrezzi che possedevano: che, tra gli altri, conteneva lo strumento dell’animazione. Infatti, se si analizzano le esperienze in questo ambito, si vede che alla base dei metodi di lavoro che erano utilizzati dagli operatori non vi erano i tradizionali saperi tecnico-scientifici accademici, ma quelli sviluppati nelle prassi del lavoro educativo e nella accoglienza della tradizione ecclesiale. Solo più tardi in queste realtà del lavoro sociale sono comparsi i saperi accademici senza che riuscissero, per fortuna, a scalzare completamente quelli originari. ma divenendo semplicemente complementari a essi.

    Gli ambienti universitari

    Vorrei tornare sul fatto (per me comunque atteso) della modesta accoglienza da parte degli ambienti universitari dell’animazione. Dicevo che essa è dovuta in parte al fatto che essa è nata in ambito extra accademico e in parte alla sua natura ibrida. Infatti, essa non è figlia legittima né della pedagogia, né della psicologia, né delle scienze del servizio sociale ma, come i muli della tradizione alpina, ha ricevuto un po’ di geni da tutti questi ambiti disciplinari e dagli altri indicati in precedenza. Non bisogna poi dimenticare che sino a non molti anni fa anche la formazione degli educatori e degli assistenti sociali avveniva nella quasi totalità dei casi al di fuori dell’università.
    L’animazione non vi è ancora entrata, perché a differenza di questi due ambiti professionali – educatori e assistenti sociali – non ha potuto contare su un’identica rete di scuole esistenti e sul riconoscimento sociale e istituzionale della figura professionale dell’animatore. Questo per il permanere di questa figura, da un lato, nell’ambito del lavoro volontario e, dall’altro lato, per il rifiuto da parte di molti animatori di uscire dall’ambito di una sorta di spontaneità creativa e espressiva che secondo loro connota il loro agire professionale.
    Tuttavia in alcune regioni, come ad esempio il Veneto, in un passato non lontano erano state create delle scuole parauniversitarie di formazione degli animatori ed era stata riconosciuta ufficialmente la figura dell’educatore-animatore.
    Oggi in molti corsi di laurea di Scienze dell’Educazione e della Formazione Primaria esiste la disciplina chiamata «metodologia del gioco e dell’animazione», che è stata però confinata nell’ambito disciplinare della didattica e non della pedagogia.
    Vorrei a questo riguardo aggiungere che, purtroppo o per fortuna, esiste una sorta di Babele delle lingue prodotta dalla coesistenza di molti modelli e scuole di pensiero intorno all’animazione reciprocamente irriducibili, per cui appare difficile identificare un metodo e un’epistemologia che possano essere detti costitutivi dell’animazione. E forse questo è un altro dei motivi del ritardo e della parzialità con cui l’animazione è stata accolta nell’ambito dei saperi universitari.

    In ambito sociale

    D. Ha già accennato di passaggio ai campi in cui tale teoria-prassi si è maggiormente proposta e ha prodotto i suoi migliori frutti…, diciamo come «animazione sociale o territoriale»…

    R. In effetti l’animazione è stata proposta con maggiore efficacia nell’ambito del lavoro educativo extrascolastico promosso dall’associazionismo, dalle realtà ecclesiali locali, dal volontariato, dagli assessorati comunali alle politiche giovanili di molte città e, quindi, dalle cooperative a cui la realizzazione di tali politiche erano state delegate. A queste realtà occorre aggiungere quelle formate da alcune comunità terapeutiche e da alcune forme d’intervento all’interno delle istituzioni totali. Per non dimenticare le attività integrative scolastiche promosse nella scuola primaria e nella secondaria di primo grado, all’interno del cosiddetto tempo prolungato, e quelle molto più diffuse e rilevanti promosse dalle amministrazioni comunali di molte città sotto il titolo «estate ragazzi».
    In alcune di queste attività l’animazione si è declinata quasi esclusivamente attraverso le tecniche di animazione di gruppo, in altre per mezzo di tecniche espressive che coprivano un arco che va dal teatro alla pittura, alla musica e alla fotografia, passando per l’apprendimento dell’uso dei nuovi media elettronici. In altre realtà l’animazione si è svolta unicamente all’interno della dimensione ludica con allargamenti al recupero di forme di gioco e di festa provenienti dalle tradizioni popolari.
    In parallelo a queste aree d’intervento vi è stato il dispiegarsi dell’animazione sociale all’interno di quartieri urbani degradati o deprivati lungo due direttrici. La prima ha riguardato l’azione per lo sviluppo di vere e proprie vertenze territoriali, luogo di prova della partecipazione e del protagonismo da parte di cittadini che solitamente vivevano al margine dei processi sociopolitici della città. La seconda direttrice è stata quella connessa alla prevenzione del disagio e della devianza minorile in contesti urbani e sociali cosiddetti a rischio, grazie anche ai finanziamenti offerti agli enti locali da leggi nazionali.
    Le attività che hanno potuto contare su finanziamenti hanno consentito il nascere di una realtà ricca e variegata di associazioni, gruppi e, soprattutto cooperative, che hanno consentito a molte persone di svolgere il proprio ruolo di animatore a livello professionale retribuito.
    Purtroppo la crisi finanziaria che investe lo stato e le sue articolazioni, soprattutto nell’ambito dei servizi sociali e educativi, sta mettendo fortemente in crisi questo settore professionale ancora fragile e non consolidato.
    E purtroppo ancora, come ho già detto, queste realtà «professionali» non sempre hanno offerto il meglio del sapere tecnico pratico dell’animazione, perché formati da persone che pur appassionate e in possesso di una laurea umanistica o psicologica o sociale o pedagogica, non hanno potuto godere di alcuna preparazione specifica come animatori sia a livello teorico che pratico.
    Per fortuna alcuni di loro hanno sentito il bisogno di una formazione e hanno seguito corsi, seminari, letture che li hanno aiutati a entrare nel dominio dell’animazione. Anche se ciò è stato più raro, alcune cooperative o consorzi di cooperative hanno promosso attività di formazione intorno all’animazione dei loro soci.
    Questo è stato favorito anche dal nascere di strutture associative professionali come, ad esempio, l’Assoanimazione, che hanno consentito una riflessione volta alla rielaborazione e all’evoluzione delle esperienze e delle prassi animative svolte dalle realtà loro associate.
    Come accennato, queste realtà purtroppo poi oggi soffrono le conseguenze della crisi della spesa pubblica e molte rischiano di scomparire.

    La formazione dell’animatore

    D. Nella formazione pratica degli animatori, è invalsa una categorizzazione di obiettivi formativi attorno a: essere, sapere, saper fare (con varianti). Tale suddivisione è accettabile o come pensa si possa articolare un tracciato di formazione dell’animatore secondo la teoria dell’animazione?

    R. L’antropologia dell’animazione culturale – abbiamo detto con insistenza – ha una visione olistica dell’uomo; e allora la tripartizione «essere, sapere e saper fare» – pur se può essere utile a scopi didattici – rischia di nascondere la continuità che esiste tra queste tre dimensioni dell’umano. Soprattutto se si tiene conto che nell’animazione – perché possa saper fare – è necessario che l’essere e il sapere dell’animatore siano tra loro congruenti: è necessario infatti anzitutto che l’educatore abbia vissuto ciò che esse debbono produrre. Un educatore che non abbia mai usato il suo potenziale, non potrà mai insegnare a un altro a sviluppare il proprio. In altre parole, deve aver prima percorso lui stesso il cammino intellettuale che propone al discepolo.
    Tutto ciò mette in evidenza un principio relazionale che i moderni studi sulla pragmatica della comunicazione hanno dimostrato essere costitutivo di ogni relazione autentica: la coerenza tra la comunicazione e la metacomunicazione. Infatti, nessuna comunicazione, tantomeno quella educativa, potrà rivelarsi efficace se essa non è autenticamente vissuta da chi comunica. Solo nella coerenza tra metacomunicazione e comunicazione quest’ultima diventa vera e suscitatrice delle potenzialità interiori dell’altro.
    Questo fa sì che la comunicazione efficace, cuore misterioso di tutta l’attività educativa, sia resa tale dal valore morale, dalla capacità di essere fedeli, trasferendo nella vita quotidiana le proprie convinzioni e i propri ideali:
    «perché la verità è questa; non facciamo mai del bene intorno a noi, non siamo mai educatori se non per merito del nostro valore morale; per la forza delle nostre convinzioni, per la realtà cioè di attuazione, che il nostro ideale morale ha raggiunto in noi. Perciò se vogliamo farci educatori è più necessario che ci preoccupiamo di fare vivere in noi, piuttosto che far vivere negli altri quello che vagheggiamo come ideale».[9]
    Il che significa che il percorso di formazione dell’animatore deve operare contemporaneamente a due livelli complementari: del cambiamento personale, della crescita umana e spirituale dell’animatore, e dell’acquisizione dei saperi, degli strumenti metodologici e delle tecniche (saper fare) non solo a livello cognitivo ma esperienziale. In altre parole, la formazione degli animatori non può essere solo cognitiva, ma anche comportamentale, affettiva e spirituale, quindi umana. Ciò implica che chi desidera formarsi come animatore sia disponibile a mettersi in gioco, a affrontare un cammino iniziatico di cambiamento personale. Si potrebbe fare un parallelo con la formazione di uno psicoterapeuta che dovrebbe prima aver vissuto sulla propria pelle il cambiamento che la psicoterapia propone ai suoi pazienti. Il cammino iniziatico dell’animatore non è altro che lo studio, la pratica e l’essere soggetto come utente di un percorso di animazione.

    D. È invalso anche parlare di uno stile di animazione… ad esempio nel governo, nella modalità di espressione dell’autorità, ecc. In quale senso ciò è possibile e significativo? O non c’è un abuso?

    R. In questi casi l’espressione «stile di animazione» indica semplicemente un modo di esercitare l’autorità, di governare una comunità in un modo partecipativo e democratico cercando di rendere le persone protagoniste attive della vita comunitaria.
    È questo uno dei molti modi in cui si declina l’odierna polisemanticità della parola «animazione» che, pur essendo legittimo, rischia di banalizzare – riducendone sostrato teorico, metodologico e tecnico – l’animazione culturale. Infatti, per molti per fare animazione è sufficiente utilizzare in modo partecipativo e democratico i tradizionali modelli e metodi educativi. E alla fine questo rende ancora più confuso e alla fine banale il significato della parola «animazione».
    È questo uno dei motivi per cui da qualche anno ho cominciato ad affiancare all’espressione «animazione culturale» quella di «pedagogia culturale dell’anima» con l’obiettivo, se non cambia il significato comune, di abbandonare a malincuore la parola «animazione». Spero sempre che ciò non accada.

    Animazione e gruppo

    D. Per lungo tempo (almeno agli inizi) l’animazione era avvertita proprio come la metodologia adeguata dei piccoli gruppi… Oggi come li può ripensare e riproporre?

    R. Oggi in un’epoca di liquefazione dei legami comunitari, di esasperato individualismo, ha ancora senso fare del piccolo gruppo il cuore del metodo dell’animazione? La mia risposta è sì. Perché esso è un antidoto, prezioso quanto raro, a questa implosione del soggetto. Occorre ricordare che una società che mette in crisi i legami comunitari, che rinuncia a un rapporto più profondo, autentico con l’altro, è una società che si avvia verso una regressione mortifera e condanna le persone a diventare dei soggetti deboli, manipolabili, fragili: probabilmente più funzionali alla vita dei grandi sistemi sociali, però incapaci di sviluppare pienamente la propria umanità. Paradossalmente, proprio il tipo di rapporti che si hanno nei legami duali o nei gruppi di lavoro tende a favorire non l’autonomia della persona, ma la sua dipendenza, tende a darle un’illusione di autonomia, mentre in realtà finisce per renderla debole, incapace di fronteggiare i problemi della realtà.
    Il piccolo gruppo che l’animazione propone è un antidoto almeno su due dimensioni. La prima è la dimensione personale, esistenziale: il gruppo fa scoprire che si cresce con l’altro, che solo se si accompagna l’altro e ci si fa accompagnare dall’altro si riesce a maturare un Io solido, un Io ben strutturato. Attraverso il gruppo si scopre se stessi in compagnia dell’altro, ci si accorge di come la compagnia dell’altro aiuti a diventare se stessi e come la propria compagnia aiuti l’altro a scoprire se stesso. L’altra dimensione è culturale: la cultura viene sempre prodotta attraverso scambi comunicativi; si manifesta e si esprime nella comunicazione. Allora il gruppo può essere il luogo in cui lo scambio non è solo relazionale, cioè legato alla dimensione emotiva, affettiva, ma è anche scambio di significati.
    Spesso nel passato abbiamo ridotto i gruppi di animazione a luoghi di giochi di interazione, a luoghi di affettività, di emotività, e abbiamo dimenticato il problema dei contenuti, dei significati. Invece un gruppo è anche un luogo in cui circolano significati, in cui le persone costruiscono i loro orientamenti nei confronti della realtà, in cui interiorizzano le premesse alla base dei loro modi di dare valore al mondo. Lo scambio nella sfera del significato è lo scambio che produce gli orientamenti delle persone nei confronti dei mondo, quindi tesse cultura, cultura comune. All’inizio magari è una sottocultura di gruppo, che però poi il gruppo può far diventare cultura sociale con la propria azione sociale e politica. Questo significa che nei gruppi di animazione non c’è bisogno solo di giochi di interazione, di rapporti interpersonali, ma c’è bisogno che le persone si confrontino intorno a dei significati, a dei contenuti. I gruppi devono perciò essere luogo di confronto e scambio di idee, di visioni dei mondo, di interrogativi intorno alla vita, al senso, alla realtà. Il gruppo di animazione come luogo di produzione di significati e quindi di ricerca di senso: credo che questo sia uno degli elementi che è importante riprendere senza abbandonare come è chiaro la dimensione emozionale affettiva, ma saldandole insieme; perché tutti sappiamo che un valore circola se c’è un’emozione positiva che lo sostiene, mentre non viene acquisito se è accompagnato da un’emozione disturbante, in ogni caso negativa. Da questo punto di vista il gruppo diventa un laboratorio culturale: anzitutto di critica della cultura esistente e poi eventualmente di produzione di nuove forme culturali. Diventa un laboratorio che se anche non produce forme culturali – perché non si può pensare che tutti i gruppi siano in grado di produrre forme culturali innovative – perlomeno è in grado di far digerire ai propri membri criticamente la cultura dei mondi che abitano, mettendoli in un rapporto critico con la loro realtà sociale, rendendoli dei consapevoli protagonisti.

    E ancora...

    D. Al di là di questi, quali pensa siano i campi ancora inespressi, dove potrebbe trovare un suo pieno e salutare sviluppo? Pensiamo ad esempio a quanto sta ora facendo circa i «temi negati» dell’educazione…

    R. Anche se può sembrare una battuta, dico che i principali campi inespressi dell’animazione sono quelli che appartengono al dominio dell’educazione tradizionale o classica. Perché, a mio avviso, il futuro dell’animazione non è nel suo ritagliarsi nuovi ambiti specializzati d’intervento, bensì nell’invadere il campo dell’educazione tout court proponendosi come il modello educativo più fecondo alla rinascita dell’umano in questa temperie di crisi socioculturale, dovuta alla transizione in atto dalla modernità verso un’epoca storica che non ha ancora un nome. Voglio ricordare che il fatto che stiamo vivendo una «transizione» epocale è testimoniato anche dalle aggettivazioni che importanti sociologi e antropologi hanno aggiunto al termine «modernità» in questa fase storica: liquida, sur-, seconda, in polvere… Questi aggettivi, infatti, non fanno altro che sottolineare che la modernità si sta dissolvendo, e che però non si intravedono ancora le caratteristiche e quindi il nome della nuova epoca storico-culturale verso cui siamo in viaggio.
    L’animazione culturale in questa fase storica ha l’opportunità di accreditarsi come il modello educativo più efficace nel fronteggiare la liquefazione o polverizzazione di quelle forme dell’umano che l’uscita dalla modernità sta incrementando, a volte in modo quasi parossistico, e di cui il disagio giovanile è sovente uno specchio, ahimè, fedele.
    I temi negati dell’educazione (che sto al momento affrontando in una rubrica di NPG) possono perciò essere – più che l’apertura di nuovi campi all’azione dell’animazione – la porta stretta attraverso cui l’animazione culturale può finalmente entrare a pieno titolo nel club alquanto esclusivo dell’educativo.

    4. A CONFRONTO CON L'EMERGENZA EDUCATIVA

    D. Entriamo nel cuore dell’attualità, a cui abbiamo accennato nelle domande precedenti. In effetti è a confronto con la situazioni, i problemi, le urgenze storico-sociali e personali che si misura la validità di una teoria e di una prassi che dovrebbero aiutare non solo a comprendere (e apprendere a vivere) ma a trasformare, o almeno ad offrire gli strumenti per farlo.
    Affrontiamo per così dire un «esercizio» concreto, mettiamo alla prova l’animazione culturale.
    Come vede la situazione (chiamiamola crisi, emergenza, urgenza…) odierna (sociale, educativa, personale) e come la affronta l’animazione culturale o la pedagogia dell’anima?

    R. La domanda è legittima e per fortuna la risposta non è troppo difficile. Le radici della risposta sono insite nell’analisi del fondamento antropologico e degli obiettivi dell’animazione visti come risposta ad alcuni tratti della crisi che annichiliscono con il loro sguardo l’umano odierno.

    I VOLTI DELLA CRISI

    Ma prima intenderei fare una lettura della situazione socioculturale dell’oggi, secondo lo sguardo dell’animazione che vede la mancanza di «umanità» e le possibilità della sua realizzazione.
    Ad ogni tratto descritto della crisi odierna apparirà anche la pista che l’animazione propone (con la sua visione prospettiva delle cose e con la sua metodologia dell’azione).

    Il primo volto della crisi è il senso di smarrimento e di depressione che propone quella forma di delirio di onnipotenza – che gli antichi greci avrebbero definito hybris – di un uomo che si sente creatore di se stesso e totalmente padrone della sua vita ma che, paradossalmente, si sente anche di non poterla dominare (come affermano le neuroscienze, la psicologia del profondo, la sociologia, ecc.): un uomo che sente di vivere una condizione di «Prometeo incatenato».
    A questo paradosso l’animazione risponde proponendo un modello d’uomo che relaziona i due dati. Essa infatti ha come suo nucleo il riconoscimento e l’accettazione che l’uomo è mistero a se stesso: perché se lo sviluppo delle scienze umane e di quelle biologiche che caratterizza la nostra epoca da un lato ha indubbiamente incrementato la conoscenza dei processi emozionali, cognitivi, relazionali e sociali dell’uomo e delle loro basi fisiologiche, dall’altro lato non ha prodotto alcun significativo sviluppo della conoscenza della natura umana.
    Ora il fatto che l’uomo non sia in grado di comprendere, a livello dell’indagine razionale, la sua natura, non deve essere visto come uno scacco bensì come un miglioramento della sua autoconsapevolezza. Infatti, l’impossibilità dell’uomo di conoscere la sua natura deriva dal suo (come rileva Hannah Arendt) non poter «scavalcare la propria ombra».[10]
    D’altra parte basta rileggere Gen 1,26-27 in cui si dice che l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio: è dunque dotato di una comprensione necessariamente limitata della sua natura, essendo questa fatta a immagine di un Essere che trascende la sua dimensione esistenziale. È bene anche sottolineare che l’uomo è libero – nell’obbedienza alla volontà divina che esprime nella giustizia e nell’amore il suo centro motore – di accettare o di rifiutare questa somiglianza, e scegliere di costruire diversamente la sua natura, mettendo in gioco una sua libera decisione. Pico della Mirandola ha intuito ed espresso nella sua celebre orazione questo apparente paradosso della libertà umana.
    La constatazione di un uomo mistero a se stesso dotato di libero arbitrio conduce al riconoscimento che l’uomo è un essere progettuale perché la libertà data da Dio all’uomo fa sì che egli, a differenza degli altri esseri viventi, non sia definito alla nascita: né da un codice genetico né da costrizioni ambientali assolutamente vincolanti: ragion per cui al momento della nascita ha di fronte a sé una molteplicità di possibilità di essere. Questo significa che ogni individuo diviene ciò che è in seguito all’intersezione di più fattori: il suo progetto personale, la cultura sociale, le condizioni dell’ambiente sociale e naturale in cui vive, i processi educativi di cui è protagonista e, naturalmente, il suo patrimonio genetico.
    Tra tutti questi fattori, la progettualità gioca un ruolo importante – a patto naturalmente che la persona abbia sviluppato un adeguato livello di coscienza – e nella persona matura essa è l’asse attorno a cui si strutturano le influenze di tutti gli altri fattori.
    Il riconoscimento della progettualità all’interno di quello del mistero della propria natura e del libero arbitrio come dono del Creatore, consente di togliere l’aspetto di delirio di onnipotenza prometeico e ricondurlo nell’ambito della creaturalità. E solo attraverso questa via che l’uomo può raggiungere il riconoscimento della propria autentica grandezza.

    Il secondo volto della crisi è quello dell’individualismo, della dissoluzione dei legami comunitari e del conseguente narcisismo che affligge la vita delle persone.
    A questa crisi l’animazione risponde perché fonda lo sviluppo dell’individualità all’interno della relazione dell’esperienza di alterità. Infatti, come si è visto, la concezione della persona come essere progettuale e culturale comporta il riconoscimento della relazionalità come il processo su cui si fonda la sua «autocostruzione». È attraverso le relazioni con le persone, con le istituzioni, con la cultura e la natura che ogni individuo umano disegna i suoi confini individuali e sociali, si autocomprende e comprende, dandogli una forma intelligibile, il mondo che abita.[11]
    Il sistema relazionale in cui sono immerse le persone può essere considerato come una serie di anelli concentrici che vanno da quelli interni di una comunicazione segnata fortemente dalla dimensione dell’esperire esistenziale soggettivo a quelli più esterni segnati maggiormente dalla dimensione razionale e dialettica. Ogni persona nella sua vita quotidiana gioca la sua relazionalità contemporaneamente a più livelli.
    Questa trama complessa di relazioni di qualità simboliche ed esistenziali differenti è, di fatto, l’ordito sul quale il telaio della mente delle persone costruisce il mondo. Questo mondo è sempre e comunque in bilico tra oggettività e soggettività, tra solitudine e compagnia.
    L’elemento che è in grado di spostare questo mondo dalla soggettività solitaria all’oggettività della compagnia è l’esperienza dell’alterità: in altre parole, l’esperienza dell’ascolto e della condivisione dell’Altro.
    L’alterità, quindi, come movimento attraverso il quale la persona può sfuggire all’implosione verso quella forma di soggettività distruttiva che è il narcisismo o semplicemente l’egocentrismo e aprirsi a quella soggettività, specchiata dalle altre soggettività, che è alla base sia della costruzione di un sé maturo che della capacità di un’efficace partecipazione solidale alla vita sociale.
    Tuttavia la relazionalità non si esaurisce nel rapporto della persona con l’Altro, perché essa richiede – per essere produttiva ai fini della crescita dell’individuo – anche la dimensione della comunicazione intrapersonale. In altre parole, richiede alla persona la capacità di accettare, anzi di coltivare, l’esistenza in lei di un nucleo personale che non può essere in alcun modo condiviso, salvo la perdita di se stessi.

    Il terzo volto della crisi è quello del paradosso del corpo che è allo stesso tempo esaltato e negato. È esaltato per l’attenzione parossistica che si riserva alla sua immagine e all’essere il luogo del benessere e della speranza della propria a-mortalità; è negato perché se ne rifiuta, da un lato, il suo essere il limite più radicale della condizione umana e, dall’altro lato, l’essere la condizione necessaria dell’anima.
    L’animazione propone il riconoscimento del corpo come l’esperienza più radicale del limite in cui sperimenta la sua condizione duplice. Infatti è solo quando l’uomo acquisisce la consapevolezza che esiste nel limite del proprio corpo che percepisce che la sua vita non gli appartiene totalmente. Si potrebbe dire, paradossalmente, che l’uomo è il suo corpo, ma che questo non è mai completamente l’uomo.
    La presenza di questo paradosso accompagna l’uomo sin dal giorno in cui è emerso alla luce della coscienza ed è all’origine di quel pensiero dualista che sin dalle origini segna il rapporto della civiltà dell’occidente con il corpo (ben esemplificato dall’immagine del corpo come luogo dell’esilio dell’anima, dualismo che ha attraversato le barriere del tempo ed è giunto in pieno e rigoglioso vigore sino alle soglie dei nostri giorni, e questo nonostante la teologia cristiana abbia da tempi remoti sottolineato che anche il corpo è stato creato da Dio e che è chiamato alla trasformazione finale nella resurrezione).
    L’animazione ha fatto propria l’antropologia cristiana secondo cui l’uomo è anima e corpo, che egli è un sistema in cui anima e corpo sono inscindibilmente interrelati e si influenzano reciprocamente. Un sistema che vive in una dimensione di confine, che da un lato rende l’uomo un abitatore dello spazio e del tempo sottomesso al limite della mortalità e dall’altro lato aperto alla trascendenza e alla chiamata all’immortalità.
    L’acquisizione di questa concezione cristiana non ha tuttavia posto fine al rapporto paradossale che l’uomo dell’occidente vive con il proprio corpo e soprattutto abbia sempre alimentato il suo senso di incompletezza e la sua inquietudine di ricercatore di senso che lo porta a formulare le domande, molto comuni ma, nonostante questo, profonde sul «Chi sono? Dove vado? Che scopo ha la mia vita?».
    Anche chi non arriva a formulare queste domande vive il suo senso di incompletezza e, qualche volta, di angoscia quando nella vita incontra la sofferenza o la radicale risposta della morte.
    Le risposte, oltre a quelle umanissime ma regressive, della disperazione, che a questo senso d’incompletezza sono date dall’uomo sono molteplici: vanno, ad esempio, dalla vita come pura ricerca di piacere, e di felicità terrena, a quelle del rifiuto della vita stessa per costruire in una ferrea ascesi la propria fedeltà all’essere.
    Una delle vie che l’uomo ha a disposizione per cercare di dare una risposta all’inquietudine prodotta dalla sua incompletezza è quella del linguaggio del simbolo… ma l’analisi di questa via ci porterebbe troppo lontano. Diciamo solo che il simbolo è il veicolo privilegiato attraverso cui si esprime la dimensione spirituale e religiosa della vita e attraverso cui si orienta la ricerca umana dell’assoluto, della pienezza e della completezza della vita.
    Il simbolo, nella sua misteriosa assenza/presenza, nel suo rinviare alle radici di senso più profondo, inquietanti e – secondo Jung – arcaiche, evoca il miracolo di come un essere, imprigionato e formato nella finitudine fisiologica, possa narrare la propria appartenenza all’infinito e la propria capacità di evocarlo.

    Il quarto volto della crisi, quello più oscuro, è dato dalla presenza nella cultura sociale dell’ospite inquietante, il nichilismo.
    Esso, occultando o negando il fine, il senso dell’agire umano, l’unità e la sistematicità del mondo in cui questo si svolge e, infine, affermando la negazione dell’essere, con la conseguente espulsione del divino dall’orizzonte della vita dell’uomo, ha fatto sì che il mondo appaia senza valore e che le nuove generazioni che vi si affacciano siano condannate a sperimentare una sorta di spaesamento.
    Se si osservano con attenzione molte forme di disagio o, più semplicemente, di spaesamento presenti nel mondo giovanile, non si può non riconoscere tale inquietante presenza.
    A fronte ad esse non resta al mondo adulto, in particolare a coloro che hanno responsabilità educative, che raccogliere la sfida del nichilismo, non ignorandolo ma guardandolo in faccia. Un progetto educativo come quello dell’animazione è in grado di aiutare il giovane a scoprire la propria irripetibile unicità che, potendo essere svelata solo nello sguardo dell’altro, lo conduce all’agire sociale e alla scoperta che il suo impegno e il suo lavoro nel mondo hanno un senso nella costruzione del Regno. E, infine, che l’assoluta Trascendenza e Alterità Divina si è rivelata all’uomo nella vicinanza fraterna di Gesù. È così possibile – per il giovane – accettare la propria finitudine e quindi il mistero che grava sulla sua vita e sul mondo, con però la speranza consapevole che essa è la porta stretta che consente alla Grazia di condurlo alla pienezza del suo essere.

    Infine il quinto volto della crisi cui l’animazione offre una risposta efficace è quella della crisi della «nootemporalità», della capacità cioè di percepire il tempo come una storia in cui ogni istante si lega in una struttura unitaria di senso a quelli che lo precedono e lo seguono. Essa si manifesta, tra l’altro, nella profonda crisi della dimensione progettuale dell’esistenza umana, crisi profonda perché tocca un fondamento dell’umano e nella stessa banalizzazione del tempo, ridotto quasi esclusivamente al coordinamento della vita sociale, e al pensarlo come un contenitore che assume senso e qualità solo dalle cose che lo riempiono: prezioso o dozzinale, pieno o vuoto, costruttivo o distruttivo.
    In conseguenza di ciò, la vita dell’individuo, e necessariamente anche quella della società, è stata privata della fonte del senso della vita e della più autentica dimensione progettuale perché ha prodotto l’offuscamento della concezione del tempo inteso come memoria e come apertura verso il futuro, dell’emergere del nuovo, dell’inaspettato e dell’imprevisto. In altre parole si è prodotto quella che i sociologi chiama la spazializzazione del tempo e la concentrazione sul presente, con la conseguenza della rottura dell’equilibrio tra «sociotemporalità» e «nootemporalità» e il conseguente predominio della prima.[12]
    Questa trasformazione della temporalità ha degli effetti profondi sull’identità delle persone, sulla loro coscienza e sulla possibilità di dare un senso alla propria esistenza.
    Ora, la via più diretta che l’uomo ha a disposizione per accedere al senso del tempo è costituita dal progetto che egli fa di sé e della propria vita. Progetto fondato sulla ricerca della propria vocazione, del destino della propria unicità e, quindi sull’assunzione della responsabilità circa il ruolo assegnato alla propria unicità nella tessitura della storia umana.

    5. ASPETTI DI CRITICITÀ

    D. Lasciamo alla parte successiva il riferimento (per certi versi ritenuto problematico) alla PG, e passiamo ora in rassegna alcuni nodi critici, come evidenziati da alcuni studiosi. Cominciamo da uno più generale.
    L’animazione culturale si presenta dunque sia come lettura della realtà che come progetto di trasformazione avendo alla base una precisa antropologia e lavorando con un metodo conseguente, di cui si sono fatti alcuni cenni… Ma così non cerca di dire «troppo» o di proporsi in maniera «invasiva» rispetto ad altre discipline specifiche?

    R. L’animazione culturale, come del resto fa la moderna pedagogia, fonda il proprio sapere sulle varie scienze, umane e non, non limitandosi però ad assimilarle ma orientandole secondo un senso educativo formativo, coordinandole avendo come riferimento una concezione propria dell’uomo e del significato del suo essere nel mondo.
    Questo significa che l’animazione non invade i territori della psicologia, della sociologia, dell’antropologia, della linguistica, delle scienze della comunicazione, ecc., ma assume da queste discipline quei contributi che intercettano i processi educativi non però in modo meccanico e acritico ma risignificandoli all’interno del proprio orizzonte di senso.
    Faccio un esempio. C’è un importante principio della teoria dell’informazione che afferma che se si vuole ampliare la quantità d’informazione elaborata da un sistema di comunicazione non bisogna incrementare l’ingresso bensì l’uscita dell’informazione. Infatti, se si aumenta l’ingresso, si rischia solo la paralisi del sistema di comunicazione.
    Questo principio è stato assunto dall’animazione in senso educativo all’interno della concezione e che indica come centrale nell’attività educativa il favorire l’espressione e il ruolo attivo dei giovani. Offrire ai giovani la possibilità di svolgere delle attività in cui devono esprimersi, li spinge a ricercare e sviluppare quelle informazioni che sono necessarie a consentire e a migliorare il loro prodotto espressivo.
    L’animazione dota, quindi, questo principio cibernetico di un senso educativo che affonda le proprie radici nell’antropologia che la fonda. Questo significa che l’animazione non è una sorta di patchwork che mette insieme elementi eterogenei ricavati da discipline diverse, ma un modo di interpretare in un senso educativo i contributi alla conoscenza della realtà umana, naturale e sociale, forniti dalle diverse scienze. Per fare questo è però necessario che l’animazione possieda una teoria e una visione antropologica capace di proporre questa sintesi a un livello logico diverso da quello cui operano le scienze: ma di questo abbiamo già detto a sufficienza.

    Un’antropologia «immanente»?

    D. Passiamo ora in rassegna alcuni punti salienti, e iniziamo dall’antropologia che è come il cuore dell’animazione culturale, cioè l’immagine di uomo che ha in mente e verso cui vuole condurre. Nessun dubbio che sia un’antropologia complessa e ricca… ma non è datata, legata a un concetto di uomo che punta essenzialmente sull’autorealizzazione e liberazione, elementi tipici di una passata stagione culturale?

    R. Nella risposta ad alcune domande precedenti ho già descritto, seppur solo a grandi linee, il fondamento antropologico dell’animazione. Credo di non aver mai usato, se non ricordo male, né la parola «autorealizzazione» né la parola «liberazione». Due parole che, comunque, a mio avviso, pur essendo state usate forse troppo in una recente epoca storica, devono essere sempre presenti in ogni proposta educativa. Infatti, come si può pensare che l’uomo non abbia come obiettivo centrale della propria esistenza quello di realizzare il proprio potenziale umano e la liberazione da tutte quelle condizioni che impediscono all’umano di manifestarsi? A mio avviso sarebbe un tradimento dell’educazione.
    A ogni buon conto, concordo che l’antropologia dell’animazione possa apparire datata rispetto agli stili di vita oggi prevalenti. Tuttavia, credo che questo sia un valore e non un disvalore, perché è una difesa dell’autenticità dell’umano in un momento storico di crisi che – come ho detto poc’anzi – tende a proporre un uomo privato dell’unicità della sua anima, soggetto perciò alla follia della polidentità, privato del libero arbitrio e con una coscienza ridotta a epifenomeno dei processi neuronali, con un corpo ridotto a immagine, e che ha come senso ultimo della sua vita ciò che di piacevole e utile può ricavare nella sua navigazione esistenziale quotidiana.
    Questo con la convinzione che un’antropologia aperta al nuovo della cultura sociale che sta apparendo all’orizzonte possa nascere solo dalla fedeltà alla memoria e alla tradizione dell’umano inteso nel suo significato più alto che ci ha consegnato una storia millenaria del pensiero.

    D. Nel corso dell’intervista tante volte si è detto del mistero e del destino dell’uomo radicato nella sua trascendenza. Ma il rischio di ogni riflessione delle scienze umane non è proprio quella di non poter dare piena ragione del mistero e della trascendenza se ha come orizzonte l’uomo stesso? Proprio perché i loro presupposti sono e non possono che essere «immanenti», nei limiti della sola ragione e non con una «rivelazione» che – nella visione cristiana – apre l’uomo alla autentica dimensione del suo mistero e di un Dio personale trascendente. Per dirla allora in termini confessionali, quali punti di contatto e di divergenza con la visione cristiana di uomo?

    R. La scelta di un’antropologia aperta al mistero e alla trascendenza a partire però dalla sola ragione umana e non dalla rivelazione nasce da una scelta consapevole: quella di collocare l’animazione pienamente all’interno delle scienze umane o dell’educazione. Questo perché altrimenti l’animazione non sarebbe stata altro che una declinazione di una teologia pastorale. Credo che uno dei frutti maturi della modernità sia la conquista dell’autonomia da parte della scienza e della filosofia e, quindi, il loro sottrarsi al dominio della teologia, intesa come vertice della conoscenza umana in grado di influenzarne tutte le vie e le forme.
    Questa affermazione non deve indurre a confondere l’autonomia della ricerca razionale con una sorta di ateismo pratico. Penso che i riferimenti molto espliciti che nei miei testi si trovano a Dio e a Gesù lo testimonino. Posso dire che non ho dedotto l’animazione dalla mia fede cristiana, ma che questa ha orientato la mia ricerca antropologica e mi ha fatto scoprire un’intima e profonda congruenza tra alcune concezioni dell’uomo elaborate dalle scienze umane e la rivelazione cristiana. La rivelazione cristiana e l’antropologia – pur appartenendo a due livelli logici diversi – sono entrate in dialogo e si sono reciprocamente arricchite. Ad esempio, alcune concezioni dell’uomo come mistero a se stesso mi hanno aiutato a comprendere meglio la rivelazione che Dio in Genesi fa della natura umana, così come l’amore di Gesù per l’uomo mi ha consentito di esplorare con più sicurezza il significato dell’alterità nella formazione dell’Io.
    Credo di poter affermare che l’antropologia che l’animazione culturale propone sia pienamente congruente con la visone cristiana dell’uomo. Posso addirittura dire che se non ci fosse stato l’evento dell’incarnazione di Gesù, questa visione antropologica non sarebbe potuta nascere e svilupparsi. Ma su questo lascio il giudizio ai teologi, consapevoli del loro compito critico e del rispetto delle diversità epistemologiche e modi di conoscenza su cui si basano le varie discipline… pena il cadere in una inaccettabile prospettiva di dominio. D’altra parte anche il mistero cristiano può essere contemplato e per così dire «illuminato» dalla comprensione razionale dell’uomo, essendo la ragione l’altra ala che regge la nostra conoscenza.

    Coscienza e relazioni

    D. In termini di riflessione filosofica, i concetti di cultura e di sistema simbolico che formano la piattaforma della coscienza dell’uomo non sono troppo astratti e non tengono conto (né rendono conto) dell’effettiva modalità attraverso cui si forma la coscienza, cioè le relazioni familiari, parentali, generazionali, e della pluralità delle dimensioni non puramente «razionali» dell’uomo, e cioè l’ordine affettivo e quello etico dell’azione?

    R. Questa domanda sconta una trasformazione di significato (a livello filosofico e scientifico) avvenuta negli ultimi due secoli della coscienza, che si può riassumere nella sua trasformazione (nella modernità) da voce interiore comune a tutti gli uomini alla consapevolezza di se stessi e della realtà, esterna e interna.[13] Il significato di coscienza che viene proposto dalla domanda è quello nato da queste trasformazioni culturali.
    L’antropologia dell’animazione sostiene che il fatto che la modernità abbia tentato di «liberare» l’uomo dall’anima e dalla coscienza fondata su di essa, non significa che questa azione abbia avuto un successo pieno. Infatti, ci sono ancora dentro la cultura sociale dei luoghi di resistenza che, seppur oggi presenti prevalentemente all’interno del pensiero e dell’esperienza religiosa, hanno però alle spalle una consolidata e lunga tradizione che risale all’origine stessa del pensiero filosofico occidentale. Questo fa sì che anche persone non cristiane partecipino in questa temperie storica al percorso di riscoperta dell’anima e della coscienza.
    È chiaro però che il luogo in cui la difesa della coscienza fondata sull’anima si è maggiormente dispiegata è quello dell’esperienza religiosa cristiana. Non è perciò casuale che il documento conciliare Gaudium et Spes (n. 16) affermi:
    «Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce, che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente parla alle orecchie del cuore [...]. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al suo cuore [...]. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria».
    Come si vede, il Concilio Vaticano II ha ribadito che la coscienza deve essere considerata il nucleo più profondo e segreto dell’uomo in cui questi può ascoltare la voce di Dio e, quindi, entrare in contatto con la verità.
    Chiaramente questa concezione di coscienza rispetto alla cultura oggi dominante appare residuale, forse anche anacronistica, perché sarebbe seguita solo da persone non illuminate dal pensiero scientifico.
    Non è perciò un caso che le scienze umane si collochino all’interno della concezione riduttiva della coscienza che è nata nella modernità ed è giunta alla piena maturità in questo tempo anche grazie alle neuroscienze.[14]
    L’animazione propone una concezione della coscienza da cui non è esclusa la dimensione emotiva, affettiva e addirittura inconscia, ma nega che essa possa essere solo il frutto delle dinamiche interpersonali e sociali, perché ha il suo fondamento nell’anima e, quindi, è il luogo in cui risuona la voce di Dio.

    Educazione e generazione

    D. Circa la visione di educazione, una delle ricomprensioni che oggi acquista sempre più credito (sia a livello ecclesiale che di riflessione pedagogica), riporta l’educazione stessa al suo alveo per così dire «nativo», attraverso la modalità concreta da cui essa origina, e che è la generazione, cioè la generazione del figlio e la paternità/maternità, con la promessa implicita (la vita è buona) nell’accoglienza del dono della vita e dell’essere figlio: un ambito familiare. Come interpreta questo orizzonte, e come l’animazione culturale si confronta con esso?

    R. È curioso osservare come la parola «pedagogia» sia derivata dal nome «pedagogo», Paid-agogoj, che nell’antica Grecia era dato allo schiavo che aveva il compito di accompagnare a scuola i fanciulli. Il suo significato etimologico è, infatti, io conduco il fanciullo.
    Ora il pedagogo non era né padre né madre del fanciullo che conduceva. Questo indica che il condurre, l’accompagnare i fanciulli nel loro cammino di crescita umana, non era un compito esclusivo dei genitori. Ciò non significa affatto affermare che i genitori non siano il centro del processo educativo, ma semplicemente ricordare che essi non lo esauriscono. soprattutto in una società complessa come l’attuale in cui la persona vive un’esistenza dispersa e frammentata in differenti spazi sociali, ognuno con i suoi differenti valori, modelli e stili di vita e in cui nessuna agenzia educativa è in grado di educare da sola. Ma ognuna educa un frammento della vita del ragazzo.
    Temo che il voler ricondurre, quasi in modo esclusivo, l’educazione alla famiglia come elemento costitutivo della maternità/paternità, significhi attribuire alla famiglia un compito impossibile, caricarla di una responsabilità che non è in grado di reggere. La famiglia è il centro e come tale deve essere in dialogo con tutte le altre agenzie educative, deve svolgere un coordinamento, una regia ma questo non impedisce ai figli di percorrere strade diverse da quelle proposte dalla stessa famiglia.
    L’animazione rappresenta un luogo educativo che, se da un lato cerca l’alleanza educativa con la famiglia, dall’altro lato offre un luogo educativo «altro» rispetto a quello della famiglia. Si pensi al caso di una famiglia che educhi i figli in un modo che impedisce, di fatto, a questi di conquistare la propria unicità umana o, addirittura, che favorisca il loro avviarsi verso comportamenti sociali devianti. In questo caso l’animazione non può che offrire percorsi di crescita umana alternativi a quelli sperimentati in famiglia.
    Il rapporto dell’educazione con la famiglia è, quindi, complesso, soprattutto nel caso di famiglie carenti sul piano educativo o disfunzionali.
    Io dico sempre agli animatori che essi non devono essere né padri né madri ma terzi, e la loro generatività segue vie diverse da quelle proposte dal materno e dal paterno. Non per nulla nel mio manuale di animazione propongo l’accoglienza di terzo educativo.
    La concezione espressa nella domanda ha senso solo per le buone famiglie, per quelle in cui veramente i bambini fanno l’esperienza dell’essere generati da un atto d’amore. Purtroppo ci sono anche le famiglie che non offrono questa esperienza.

    Una progettualità «autocentrata»?

    D. Richiamo e articolo una osservazione rivolta all’animazione culturale, ancora dal punto di vista sia antropologico che nello stesso processo educativo.
    Il rapporto soggetto-l’altro, soggetto-trascendenza richiama fondamentalmente il tema della progettualità, costruita dal soggetto e per lo sviluppo del soggetto, dove l’altro e la trascendenza avvengono come componenti e conquiste successive. Ma non ribalterebbe comunque lo schema soggettivistico di fondo dell’autorealizzazione del soggetto (l’altro è pensato successivamente al formarsi della coscienza), e dove la trascendenza è più in termini naturalistici che nei confronti di un Dio cristiano (che ha un progetto per l’uomo a cui egli deve fondamentalmente «obbedienza», così che la sua realizzazione sta nell’accogliere un progetto scritto da fuori di lui).
    L’antropologia dell’animazione si presenterebbe dunque fondamentalmente non confessionale e laica, «neutrale» o generica rispetto alla fede, costruita su una ragione autosufficiente e distinta-staccata dalla fede.
    Per cui alcuni temi specificamente cristiani (la persona determinante di Gesù «l’universale storico», la grazia, il peccato, la croce, la Chiesa…) risulterebbero praticamente estranei o ricompresi in termini «umani, troppo umani», così che (passando al piano dell’educazione alla fede) verrebbero solo successivamente, e problematicamente e genericamente aggiunti, da parte di chi volesse utilizzare l’animazione culturale come supporto (schema, modello) all’educazione alla fede.

    R. Cercherò di rispondere a questa domanda molto complessa e anche intelligentemente provocatoria in modo spero semplice e sereno partendo da una prima considerazione: quella che indica che il percorso della vita umana si sviluppa dal noi all’io, per ritornare, anche se non per tutti, al noi.
    Questo significa che l’essere umano ha come compito evolutivo della prima parte della sua vita (che si conclude nell’adolescenza) quello di individuarsi, di costruirsi come soggetto unico e irripetibile nell’orizzonte del mondo, scoprendo attraverso il dialogo con la sua anima ciò che lo differenzia da tutti gli altri esseri umani e, quindi, realizzando liberamente il suo destino inteso come il compito che la sua unicità gli affida nell’orizzonte della porzione di spazio-tempo in cui si inscrive la sua vita. È proprio – per chi crede – il fatto che l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio che rivela perché l’uomo è libero. La libertà nasce, infatti, dall’essere l’uomo fatto sì a immagine di Dio ma di non essere Dio e, quindi, dal trovarsi nella condizione di poter essere come Dio ma senza mai poter essere Dio: ciò mette in gioco una sua libera decisione e l’azione ad essa conseguente.
    Questo significa che l’uomo può anche rifiutare di divenire come Dio e, quindi, scegliere di costruire diversamente la sua natura: senza l’esercizio della libertà l’uomo non può imitare Dio. Solo se sceglie liberamente di obbedire a Dio può divenire simile a Dio e liberare, di conseguenza le potenzialità insite nella sua natura. Si potrebbe dire che, nell’uomo, la libertà è la qualità senza la quale l’obbedienza a Dio non può manifestarsi come tale.
    Il cammino evolutivo dell’uomo, la sua emancipazione dai limiti della sua appartenenza al mondo naturale ha inizio dunque con l’espressione della sua libera obbedienza a Dio.
    Come si vede, la dimensione progettuale, che è uno dei pilastri dell’antropologia dell’animazione, affonda le sue radici nel testo biblico anche se essa usa il linguaggio delle scienze umane e, quindi, declina le sue argomentazioni in modo differente dalla teologia.
    Un altro motivo presente nella domanda a sostegno della tesi che l’antropologia dell’animazione «precluderebbe» – perché «troppo umana» – la sua applicabilità al campo dell’educazione alla fede, nasce dal fatto che essa penserebbe l’altro successivamente al formarsi della coscienza e la trascendenza più in termini naturalistici che nei confronti di un Dio cristiano (che ha un progetto per l’uomo a cui egli deve fondamentalmente «obbedienza», così che la sua realizzazione sta nell’accogliere un progetto scritto da fuori di lui).
    Questa però è una cattiva lettura del fondamento antropologico, perché gli obiettivi dell’animazione sono ripartiti in tre aree e tutti devono essere conseguiti, in modo integrato, contemporaneamente.
    Ad esempio, la relazione con l’altro è costitutiva della formazione della coscienza e dell’identità personale, così come la costruzione di un santuario nel tempo, che è uno degli obiettivi dell’apertura alla trascendenza è costitutiva della formazione della capacità umana di pensare la propria vita in modo progettuale.
    In ogni caso ribadisco che non faccio un discorso teologico/religioso, mi limito molto semplicemente a rilevare che l’apertura alla trascendenza è una dimensione costitutiva dell’essere umano che trova risposte diverse in culture e esperienze personali differenti. E che senza quest’apertura l’uomo non compie pienamente se stesso. Quest’approccio ribadisce semplicemente che il tema della trascendenza non può essere escluso dall’educazione umana anche di quella ispirata a principi laici o laicisti.
    Chiaramente l’animazione culturale è una proposta che riguarda l’educativo e che si rivolge a tutti, credenti e non credenti, e non è da questo punto di vista un’educazione religiosa se non implicitamente. Implicitamente nel senso che l’uomo è letto utilizzando (come credo di aver più volte dimostrato nelle risposte precedenti) – integrata con i contributi delle scienze umane – la visione dell’uomo e del mondo che proviene dalle Scritture e dalle interpretazioni che di esse hanno dato e danno la tradizione cristiana, senza disdegnare quella ebraica.
    Nego inoltre decisamente che l’antropologia dell’animazione sia distaccata dalla fede, perché la fede – come ho già detto più volte – è il punto di vista attraverso cui vengono interpretati i dati e le osservazioni che le scienze umane elaborano. Ho l’impressione che chi fa queste affermazioni neghi l’autonomia delle scienze umane e rimpianga il tempo, infausto per la conoscenza umana, in cui tutte le scienze derivavano dalla teologia.
    L’obiettivo dell’animazione non è realizzare un’educazione religiosa, confessionale, ma quello di educare un uomo che senta la dimensione religiosa come essenziale e costitutiva del suo essere.
    Sta a chi si occupa di educazione alla fede utilizzare il terreno arato e concimato predisposto dall’animazione culturale per offrire ai giovani una proposta religiosa esplicita.
    L’animazione non è – e non vuole esserlo – una forma di educazione alla fede, ma solo un modello di educazione dell’umano complementare a quello dell’educazione alla fede. Tuttavia l’esperienza concreta mi dice che chi segue il cammino dello studio e della pratica dell’animazione molte volte scopre anche il volto di Gesù e si apre alla fede cristiana. Decine di anni di riflessione e di insegnamento dell’animazione mi fanno affermare che essa non è così estranea alla visione cristiana del mondo e della vita. Ma mi aspetto ovviamente qualche domanda specifica sul rapporto con la pastorale giovanile… e rimando dunque altre riflessioni in proposito.

    Pedagogia e scienze dell’educazione

    D. Dal punto di vista metodologico sono decisivi nella proposta dell’animazione la lettura della situazione, la definizione degli obiettivi e dei processi educativi… Alcuni osservano che sarebbero costruiti in astratto e mettendo insieme dati troppo eterogenei o estrinseci…

    R. La costruzione della proposta dell’animazione culturale è frutto di una riflessione squisitamente teorica, e questo a mio avviso non è una debolezza del modello ma la sua forza.
    Nella modernità la pedagogia si propone come la disciplina che ha per oggetto di studio le teorie, i metodi e i problemi relativi all’educazione, e ciò conduce ad affermare che esiste un’educazione senza pedagogia, così come una pedagogia senza educazione. Esistono, infatti, educatori che non fanno alcun riferimento alla pedagogia e pedagogisti che non si preoccupano delle applicazioni concrete della loro teorizzazione. In questa fase storica la natura e le caratteristiche della pedagogia sono oggetto di dibattiti e controversie perché ci si interroga se essa debba essere considerata una disciplina a sé stante, con fini specifici, o rappresenti invece un sistema concettuale formato da varie discipline. E ancora, se essa deve determinare i fini dell’educazione o limitarsi a descriverne le procedure.
    Questo dibattito è tipico della seconda metà del XX sec., quando la pedagogia si propone o come filosofia dell’educazione o come scienza. In questo stesso periodo storico alcune correnti di pensiero tendono a ridurla alla didattica sperimentale. Anche se nei secoli precedenti la pedagogia appariva come un complesso di prescrizioni e riflessioni sull’educazione, bisogna ricordare che comunque alla sua base vi erano tanto l’esperienza e il senso comune, quanto dottrine religiose, morali, politiche e filosofiche.
    La pedagogia, infatti, si trova sempre di fronte sia il piano della prassi educativa che della teoria. Questo perché l’educazione può essere considerata un’arte che non necessita del sostegno di una teoria che ne tematizzi le pratiche, gli obiettivi, i fini e i fondamenti epistemologici. Nello stesso tempo la riflessione teorica può svilupparsi senza alcun riferimento al piano dell’esperienza, come filosofia o ideologia pura.
    Infatti, il pensiero pedagogico sottolinea in molte sue declinazioni come la pedagogia non debba essere considerata né una teoria sull’educazione (ovvero una riflessione teorica sulle pratiche di educazione che sono realmente praticate e sviluppate nella vita sociale), né una teoria per l’educazione (ovvero come un discorso che riguarda direttamente l’azione educativa). La pedagogia viene proposta come una teoria che studia l’educazione in quanto tale, che cerca di individuare la struttura fondante dell’educazione andando al di là di qualsivoglia pratica reale di educazione, indipendentemente da ogni forma di educazione storicamente realizzata. In altre parole la pedagogia non ricaverebbe, come le scienze empiriche, i propri costrutti teorici induttivamente dai dati sperimentali o empirici prodotti dall’educazione o dalle ricerche sull’educazione.
    Questo non comporterebbe necessariamente un disinteresse della pedagogia verso le realtà concrete in cui si declina l’educazione, perché mentre essa ricerca le leggi costitutive dell’educazione, formula anche i criteri che consentono di discernere ciò che è realmente educativo da ciò che lo è solo apparentemente o nominalmente, come ad esempio certe pratiche di allevamento dei bambini o di addestramento professionale.
    Il contributo comunque più rilevante, seppur indiretto, della pedagogia all’educazione è dato dalla constatazione che non può esservi educazione senza il riferimento a dei fini che sono intessuti dai valori e dagli ideali che vengono proposti da una visione dell’uomo e del mondo e, quindi, da un’antropologia pedagogica.
    Questa riflessione sulla pedagogia come sapere teorico giustifica che l’animazione culturale sia il prodotto di una riflessione teorica aperta ai contributi delle altre scienze dell’educazione e volta alla costruzione di un progetto di educazione per l’oggi.[15]

    6. ANIMAZIONE E PASTORALE GIOVANILE

    D. Raccogliamo qui una serie di domande che vertono sul rapporto tra pastorale giovanile e animazione culturale, su cui molti oggi hanno delle perplessità, almeno dal punto di vista teologico. È infatti cosa nota che l’impianto generale dell’animazione è stato assunto in vari ambiti della PG italiana come supporto antropologico-pedagogico anche nel campo dell’educazione alla fede, almeno per il versante giovanile. L’analisi delle implicanze e delle conseguenze spetta di diritto alla verifica teologica.
    Evidentemente non è né colpa né merito dell’Autore se questo è avvenuto… ma gli possiamo chiedere se è rimasto sorpreso da tale connubio e quali le sue osservazioni al riguardo.
    E soprattutto come vede il rapporto tra educazione ed educazione alla fede, tra antropologia filosofica e quella «teologica» e come (se) è possibile cercare non una sintesi ma un virtuoso collegamento.
    La teologia costruisce la propria immagine di uomo direttamente dai dati della rivelazione e prassi evangelica e analizza i processi di educazione alla fede all’interno della sua competenza. Come può relazionarsi con l’animazione culturale che elabora la sua antropologia «razionale» e la sua pedagogia come scienza umana? I punti di contatto non sono solo analogici o equivoci? Come poi contemperare l’obiettivo dell’animazione che è «l’uomo realizzato e felice» con quello della esperienza cristiana che è l’uomo salvato da Gesù?

    R. Per prima cosa devo dire che il connubio tra PG e animazione non è frutto del caso, per il semplice fatto che la proposta dell’animazione culturale è nata tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta all’interno di quella fucina creativa di idee che è stata la redazione di NPG. In quegli anni il redattore della rivista e, soprattutto, animatore dei consigli di redazione che normalmente duravano un intero weekend circa una volta al mese, era don Riccardo Tonelli.
    Questo significa che le prime idee, che in seguito sarebbero servite come base all’elaborazione del modello dell’animazione culturale, sono state sviluppate in stretta interazione con quelle che hanno prodotto la proposta di PG che Tonelli ha proposto. Ho detto interazione e non fusione, perché la ricerca di Tonelli e la mia seguivano ognuna le linee disciplinari e culturali proprie. Alcune idee nascevano in comune, poi seguivano una linea di sviluppo nella PG e un’altra nell’animazione culturale. Questa ricerca contestuale non rende però Tonelli responsabile degli errori teologici da me eventualmente commessi.

    Un comune crogiolo di elaborazione

    Si potrebbe dire che la proposta di PG di Tonelli e la mia dell’animazione sono nate entrambe nello stesso crogiolo e hanno condiviso lo stesso statu nascenti, vivendo entrambe come una feconda contaminazione reciproca.
    Circa il rapporto tra educazione e educazione alla fede, tra antropologia filosofica e teologica, come ho già avuto modo di anticipare, è chiaro che queste discipline hanno statuti e metodi diversi ma possono, anzi devono, dialogare. Ricordo che il dialogo è quella comunicazione che rispetta la diversità dei comunicanti e che, quindi, non vuole abolirla.
    Il dialogo consente a ognuno dei dialoganti non solo di comprendere meglio l’altro ma anche se stesso. Non solo. Ciò che si conosce dell’altro serve spesso per riformulare, nell’autonomia e nella coerenza della propria disciplina, alcuni aspetti del proprio modello arricchendoli. Il dialogo aiuta ogni disciplina in dialogo a sviluppare se stessa e a individuare i punti di convergenza con l’altra.

    Pedagogia e teologia in possibile dialogo

    Perché questo avvenga, è necessario che ognuno dei dialoganti eviti le invasioni nel campo dell’altro. Se ciascuno rispetta i propri ambiti e le proprie competenze, sboccia la complementarietà che aiuta ad affrontare in modo integrato, olistico, la formazione cristiana delle nuove generazioni. Vorrei riprendere a questo proposito quanto scrive Tonelli [16] a proposito del dialogo tra le scienze dell’educazione e le discipline teologiche laddove indica che il principio regolatore di questo dialogo deve essere «l’attenzione all’uomo, come evento integrale e indivisibile, in vista della compenetrazione nella sua struttura di personalità della maturità umana e cristiana: l’uomo, cioè, che ricerca ragioni per vivere e sperare e cui la comunità ecclesiale vuole testimoniare il progetto definitivo di salvezza in Gesù Cristo». Ciò comporta che:
    «La teologia e le scienze dell’uomo, pur nella diversità degli approcci, possono riconoscere la maturazione dell’uomo verso la sua pienezza di vita, come un punto comune di convergenza, teorica e pratica. In esso, i problemi relativi all’educabilità e alla riferibilità a Dio, provenienti da direzioni diverse e tendenti verso direzioni diverse, si attraversano e si coinvolgono. Su questo principio unificatore, ogni disciplina può suggerire il suo specifico contributo, verso la soluzione del problema. In parte è problema comune perché centrato sull’uomo e sulla sua promozione in umanità. In parte è specifico della riflessione e progettazione pastorale perché attento esplicitamente alla sua salvezza nel Dio di Gesù Cristo».
    La scelta del modello educativo dell’animazione è avvenuta e avviene perché la pastorale giovanile rileva in essa il rispetto e la riaffermazione di quei principi «che, nella fede, riconosce irrinunciabili per la qualità della vita e per il consolidamento della speranza. Di qui nasce la scelta dell’animazione come modello globale di educazione, da integrare nei processi di educazione alla fede».

    Gli ambiti di dialogo fecondo

    Altri ambiti in cui dialogo tra animazione e pastorale giovanile si è rivelato fecondo sono almeno quattro. Il primo è la scoperta che – affinché i processi educativi si sviluppino adeguatamente – è necessario che si tenga conto della realtà sociale, culturale e personale delle persone che sono coinvolte in essi. Il secondo riguarda la necessità di una verifica del processo educativo e dei suoi esiti, sottoponendo continuamente al vaglio critico il metodo utilizzato. Il terzo è costituito dalla valorizzazione della vita quotidiana come luogo educativo (questo obiettivo dell’animazione è stato condiviso sin dall’inizio dal modello di pastorale giovanile proposto da Tonelli). Infine, il quarto, è lo sviluppo negli educandi di un sé, in grado di unificare la vita della persona e di radicarla nella coscienza, che l’animazione propone, in controtendenza rispetto alla frammentazione dell’identità e della vita delle persone che appare normale nella attuale temperie culturale. Anche rispetto a questo obiettivo dell’animazione si è realizzata una felice convergenza con la pastorale giovanile. A questo proposito Tonelli scrive:
    «Provocata da queste questioni, nel confronto con l’animazione, l’educazione alla fede ha maturato una ipotesi interessante: porre le risorse di cui dispone al servizio della definizione dell’identità personale nella prospettiva di una intensa capacità di spalancare la propria attesa di senso e di speranza nell’affidamento al mistero della vita (nel nome e per la potenza del Dio di Gesù).
    La situazione culturale diffusa mette in crisi proprio la possibilità di costruire identità stabili. Una identità priva di stabilità è però una contraddizione in termini, premessa pericolosa di una immaturità aperta a tutte le proposte. L’attenzione all’educazione mette sotto giudizio però anche i modelli eccessivamente rigidi; li riconosce poco realistici e poco responsabilizzanti. Consapevole che non sono gli unici possibili e, con tutta probabilità, neppure i migliori, ne cerca e ne sperimenta di alternativi.
    L’educazione alla fede, che nel confronto con l’animazione ha ritrovato l’urgenza del problema, recupera, dal ricco repertorio dell’esperienza cristiana, la capacità di immaginare prospettive interessanti. In esse, la stabilità non è cercata né nella reattività verso l’esistente né nella sicurezza che proviene dai principi solidi e stabili su cui si vuole costruire la propria esistenza. Non è però neppure rifiutata come alienante e impossibile, in una situazione di complessità e di eccesso incontrollato di proposte. Sta invece nel coraggio di consegnarsi ad un fondamento, che è soprattutto sperato, che sta oltre quello che posso costruire e sperimentare. Colui che vive, si comprende e si definisce quotidianamente in una reale esperienza di affidamento, accetta la debolezza della propria esistenza come limite invalicabile della propria umanità».

    Un conflitto antropologico?

    Apparentemente più problematico è invece il rapporto tra la pretesa della teologia di costruire la propria immagine di uomo direttamente dalla rivelazione e quella dell’animazione fondata sulle scienze umane. L’eventuale conflitto tra le due posizioni è solo apparente perché – nel momento in cui l’antropologia dell’animazione, sostenuta dal pensiero di Max Scheler e di Hanna Arendt, entrambi debitori di S. Agostino, afferma che l’uomo è mistero a se stesso (di grazia e peccato) e che solo Dio può rivelare all’uomo la sua natura (e redimerla) – di fatto riconosce la necessità della rivelazione per comprendere la natura umana. Questo però non è sufficiente per la definizione dell’uomo, perché una volta scoperta la sua natura è necessario il contributo delle scienze umane per scoprire come egli pensa, agisce, vive nelle concretezza storico-esistenziale della sua vita e delle sue relazioni, ecc.
    Anche in questo caso può essere feconda la complementarietà tra i due approcci disciplinari a condizione che nessuno dei due pretenda l’esclusiva e che ognuno di essi riconosca i propri limiti. Nell’ambito dell’educazione «cristiana» il discorso sull’uomo ha bisogno di entrambi i contributi.
    Non vedo poi la contrapposizione tra l’uomo «realizzato e felice» dell’animazione e quello «cristiano», perché la sottomissione del cristiano all’Alterità non significa una rinuncia alla ricerca della realizzazione personale e della felicità, tutt’altro. È proprio l’obbedienza al progetto di Dio che assicura al cristiano la propria realizzazione personale e il raggiungimento della felicità. Tra l’altro l’animazione, quando invita il giovane a riconoscere e accettare la propria finitudine (e anche riconoscere un bisogno radicale di salvezza) e aprirsi all’invocazione alla Trascendenza, di fatto non fa che dire con parole diverse ciò che è detto nel pensiero teologico cristiano.

    Uno sguardo in avanti e oltre

    D. Ogni riflessione o teoria è per sua natura aperta al suo sviluppo e magari anche superamento. In quali direzioni li vede possibili o auspicabili? C’è chi suggerirebbe di oltrepassare la prospettiva del soggetto per l’assunzione di un nuovo punto di vista, l’alterità...

    R. La modernità ha visto molti tentativi, anche attuali, di mettere in discussione il valore dell’individuo e della centralità della sua coscienza nello sviluppare il suo percorso esistenziale. Questi tentativi hanno condotto e conducono a esiti disastrosi per la condizione umana. Basti pensare alla linea di pensiero che da Schopenhauer conduce a Le Bon, a Gentile e ai totalitarismi del Novecento che tende a negare il valore dell’individuo e a sostenere la sua sacrificabilità a potenze anonime di stampo collettivo. Oppure alla linea di pensiero, proposta dai seguaci fanatici dei maestri del sospetto (Marx, Nietzsche e Freud) [17] che sostanzialmente conduce a negare il ruolo della coscienza nel governo della vita delle persone.
    Personalmente ritengo che la prospettiva del soggetto non sia da abbandonare, a condizione però che si ribadisca il ruolo dell’alterità nella definizione dell’identità delle persone e dell’inconscio nella connessione al Noi. Troppo spesso oggi la valorizzazione dell’individualità conduce al narcisismo che, sostanzialmente, produce l’annichilimento del soggetto.
    So bene che, sulla scorta anche della sapienza religiosa dell’oriente, si propone come via della liberazione umana il superamento dell’Io, dimenticando però che nell’occidente cristiano il problema non è l’annichilimento dell’Io ma lo sviluppo, attraverso l’alterità e l’inconscio, di un equilibrato rapporto Io-Noi.
    Gesù non ha mai chiesto agli uomini di non amare se stessi, ma di amare allo stesso modo gli altri.
    In tutta l’animazione culturale, a partire dall’antropologia sino al metodo, si afferma che l’io può svilupparsi solo nella relazione di alterità e nell’appartenenza armonica e solidale al noi.
    Ritengo dunque che il dialogo con la teologia – e anche la chiarezza della distinzione da essa, come orizzonte, linguaggio, metodo – sia davvero un elemento positivo e arricchente per l’animazione culturale (non oso ovviamente dire se lo è anche per la teologia). Ma penso che nel momento che la teologia o la teologia pastorale o la pastorale giovanile «si applicano» al mondo umano (in questo caso i giovani e i loro problemi), debbano fare i conti con le scienze dell’uomo e dialogare-confrontarsi con esse con lealtà.
    Se mi si consente un richiamo paolino: senza timore di contaminarsi «incarnandosi», trattando con le cose umane e la fatica dell’uomo di elaborare un suo pensiero e azione per la vita buona.
    Anche l’animazione culturale è un progetto per vivere la vita con pienezza, ed è felice di riconoscere i suoi limiti e aprirsi verso orizzonti più ampi, all’interno della sua prospettiva peculiare e i canoni che le sono propri, ma senza chiusure preconcette: appunto rispondendo alle istanze della sua stessa natura: l’amore alla vita.


    NOTE

    [1] La prima fu di educatore degli adulti in alcune comunità montane della provincia di Torino, la seconda di animazione di una comunità terapeutica aperta dell’Ospedale Psichiatrico di Collegno.
    Parallelamente, con l’allora segretario della Cisl di Torino (Cesare Delpiano), con Don Aldo Ellena, con un professore di Urbanistica del Politecnico di Torino (l’arch. Ognibene) e un politico locale (Fantini), creammo un Centro di Cultura Operaia che, tra l’altro, pubblicò un’edizione della «Lettera a una professoressa» dei ragazzi della scuola di Barbiana di Don Milani, oltre ad avviare dei corsi su temi come quelli dell’autogestione e della partecipazione attiva dei cittadini.
    Nel frattempo, per quei percorsi strani e imprevedibili della vita, ero stato assunto e formato da una grande azienda francese per lavorare nel suo servizio di psicologia del lavoro, dove poco dopo assunsi il ruolo di capo del laboratorio di psicologia applicata. Nello stesso periodo cominciai a collaborare con la professoressa Angiola Massucco Costa nell’Istituto di Psicologia Sperimentale e Sociale della Facoltà di Magistero dell’Università di Torino, conducendo seminari su argomenti di psicologia sociale. Agli inizi degli anni Settanta fui nominato professore incaricato di tecniche quantitative dell’indagine psicosociale e di psicologia della comunicazione e del linguaggio presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia dell’Università di Torino.
    [2] In questo statu nascenti c’era spazio per quelle ibridazioni che in un altro periodo storico sarebbero state rifiutate, come ad esempio quella da me proposta nel mio primo libro sull’animazione tra teoria generale dei sistemi di Bertalanffy, filosofia delle forme simboliche di Cassirer, la concezione dello spazio tempo della fisica relativistica di Einstein, la cibernetica di N. Wiener, la teoria dell’informazione di Shannon e Weaver, la teoria etnolinguistica di Whorf, la psicoanalisi di Fromm, l’epistemologia genetica di Piaget, la teoria dei media di Mc Luhan, la pragmatica della comunicazione umana di Watzlawick, la filosofia di Wittgenstein, la logica di Godel e di Whitehead e Russel, la pedagogia di Dewey e quella di Bruner, la filosofia della scienza di Kuhn, la dinamica di gruppo, la metodologia della ricerca e altro ancora. A questi filoni di studi occorre aggiungere la conoscenza di esperienze come la scuola di Barbiana di don Milani, il lavoro con gli adulti della Società Umanitaria, i movimenti di animazione francesi come Peuple e Culture e Centre de Culture Ouvrière.
    Questo ibrido originario si è arricchito nel tempo del contributo di altri studiosi e di altre discipline. Tra gli studiosi desidero segnalare in particolare C.G. Jung, M. Eliade, M. Buber, H. Arendt, P. Ricoeur, R. Girard, Z. Baumann, M. Augè, A. Appadurai, G. Bateson, W.R. Bion, P.L. Berger, T. Luckmann, J. T. Fraser; A. Gehlen, J. Hillman, J. M. Lotman, S. Quinzio, P. Watzalawick, M. L. Von Franz, L. Zoja.
    [3] M. Pollo, L’animazione culturale: teoria e metodo, Elledici, Torino-Leumann, 1980, pp. 33-34.
    [4] P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Mondadori, Milano 1971.
    [5] J. M. Lotman, Testo e contesto, Laterza, Bari 1980.
    [6] L’equifinalità, al di là del nome un po’ complesso, è il principio che afferma che due sistemi aperti che partono da situazioni iniziali differenti possono raggiungere lo stesso stato finale. Allo stesso modo, afferma che due sistemi che partono da situazioni iniziali uguali possono raggiungere stati finali differenti.
    [7] Basti pensare ai test psicologici che hanno parcellizzato l’intelligenza umana, la personalità, la psicomotricità in un numero enorme di tratti specifici, a ognuno dei quali corrisponde un test particolare. Ancora oggi in molti casi gli esami di orientamento scolastico professionale e, più in generale, la misurazione dell’intelligenza, avvengono utilizzando questi test nati dall’aver smontato la funzione dell’intelligenza in tante piccole parti, al pari di una macchina. Il pensiero meccanicista, infatti, ha teso a ridurre la comprensione «scientifica» dell’uomo, esaltando al massimo l’analisi e cioè la scomposizione dell’insieme in parti sempre più piccole, viste isolatamente. È come se la conoscenza particolare dei singoli pezzi che compongono una macchina bastasse a garantire le comprensione del funzionamento della macchina.
    [8] Questa concezione è presente nella cultura di quella porzione di mondo chiamata «occidente» sin dalle sue origini. Infatti, nel mondo greco antico, dai filosofi presocratici in avanti, si riteneva che la vita e la sua felicità potessero dirsi solo nelle forme finite, limitate e che l'illimitato (apeiron) fosse il luogo angosciante della distruzione e della morte.
    [9] L. Tincani, Note di pedagogia generale, Università Cattolica, Milano 1925.
    [10] H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1989, p. 10.
    [11] La relazione è intesa naturalmente come quella forma di comunicazione complessa in cui si intrecciano in modo inestricabile significati, sentimenti ed emozioni, e in cui in molti casi, simultaneamente, si dispiegano linguaggi differenti a volte convergenti e a volte divergenti. La relazione richiede l’esistenza di un oggetto esterno a chi la vive e la capacità di creare tra i mondi abitati dall’oggetto e dal soggetto un mondo almeno parzialmente comune. Senza l’esistenza di questo mondo comune non solo non esiste relazione ma, più radicalmente, per il soggetto l’oggetto non esiste.
    [12] Il tempo noetico, o nootemporalità, è la concezione del tempo tipica della condizione dell'uomo e nasce dal fatto che esseri umani «sono capaci di comprendere il mondo nei termini di un futuro e di un passato distanti, e non solo nei termini delle impressioni sensoriali del presente» e che le loro azioni nel presente sono influenzate dalla consapevolezza della morte, che appare come «un ingrediente essenziale del tempo dell'uomo maturo, i cui orizzonti si estendono senza limiti nel futuro e nel passato» . Il tempo che dal futuro attraverso il presente scorre verso il passato è il telaio che tesse l'ordito della vita umana nel mondo e che orienta tutte le domande e le risposte di senso degli uomini maturi emersi alla coscienza. Infatti, almeno nell'orizzonte dell'Occidente, la vita umana trova il suo senso nella storia, cioè nella memoria e nel progetto di futuro.
    Questo tempo si contrappone a quello dominante nella cultura sociale definito «tempo spazializzato» che è anche definibile come sociotemporalità, che è null'altro che la socializzazione del tempo che si esprime nella sincronizzazione e nella pianificazione delle azioni collettive senza cui nessuna società può esistere perché consente alle persone di agire di concerto mediante la comunicazione che interrela i membri di un determinato gruppo sociale.
    La sociotemporalità mantiene il suo valore umanizzate però solo se si armonizza con la nootemporalità, ovvero solo se le esigenze della sincronizzazione sociale non entrano in conflitto, o ostacolano, il progetto particolare di vita dell'individuo, non mettono cioè in pericolo la sua unicità, la sua differenza particolare, ovvero non minano la sua identità personale e storico culturale.
    Oggi si assiste, invece, ad una dilatazione della temporalità sociale prodotta dai bisogni delle economie e delle culture delle società complesse della seconda modernità.
    Il presente diventa l'unica dimensione esistenziale significativa per la vita delle persone. La storia, invece, diventa un impaccio perché è molto più semplice garantire «la collaborazione tra persone prive di senso storico, che non fra popolazioni con storie diverse e solitamente antagoniste».
    [13] Alle radici della cultura dell’occidente, in particolare nelle correnti di pensiero dello stoicismo e nel neoplatonismo, la coscienza era fatta coincidere con l’interiorità, intesa come colloquio dell’anima con se stessa. La coscienza, come voce interiore era considerata sia la fonte dei principi alla base del comportamento retto, sia il luogo in cui la persona, facendo tacere i rumori della realtà esterna poteva ricercare la verità. Questa concezione, assunta e diffusa da S. Agostino, è stata culturalmente dominante sino alla comparsa nel cuore della modernità delle varie forme di relativismo morale.
    Dopo l’emersione del relativismo morale, tuttavia, la concezione della coscienza come voce interiore non scompare ma sopravvive all’interno del pensiero cristiano-cattolico, oltre che in quello di alcuni filosofi (in particolare in quello di Kant che, nella Critica della ragion pratica, la colloca al centro della sua concezione etica: per lui la voce interiore della coscienza, in contrasto con le inclinazioni sensibili da cui è affetto, comunica a ogni uomo, indipendentemente dalle sue caratteristiche culturali e intellettuali, l’assoluto valore della legge morale).
    Oltre a relativizzarne i contenuti morali, la modernità ha riformulato lo stesso significato della parola «coscienza». Infatti la filosofia moderna, da Cartesio, attribuisce alla coscienza il significato di «consapevolezza soggettiva» di se stessi e dei propri contenuti mentali (nel ventesimo secolo in particolare con Husserl).
    Non solo. Alla concezione dell’interiorità come luogo di accesso alla verità è contrapposta quella proveniente dalle scienze empiriche, che vengono ritenute essere le sole in grado di offrire una conoscenza non illusoria.
    In seguito a questo ruolo assunto dalle scienze empiriche l’introspezione, come via di conoscenza della psiche umana, è contestata non solo dal comportamentismo, ma anche dalla psicoanalisi, che afferma che la conoscenza della genesi dei fenomeni psichici sfugge alla normale consapevolezza del soggetto.
    Negli ultimi due decenni del ventesimo secolo la coscienza, nel suo significato moderno di consapevolezza soggettiva di un oggetto, ha assunto un ruolo sempre più centrale sia nella filosofia della mente che nella ricerca scientifica di orientamento cognitivo e neuronale.
    [14] Un motivo per cui la coscienza descritta dalle moderne scienze umane non può offrire una consapevolezza piena della realtà è dovuto al fatto che l’io - la parte che rende «coscienti di» - non riguarda la totalità della psiche umana ma solo una parte. La psiche infatti è costituita da almeno altre due dimensioni, come svela un antico simbolo, il «centro sacro» del mondo, il luogo simbolico e sacro in cui le tre dimensioni cosmiche, il cielo, la terra e gli inferi, entrano in contatto tra di loro, rompendo i confini che proteggono la loro necessaria e costitutiva separatezza. La coscienza in questa concezione appare come il centro in cui tutte le dimensioni costitutive della psiche sono condotte ad unità, in cui la storia del singolo individuo e della collettività degli appartenenti al suo mondo culturale, che prima di lui sono vissuti e che con lui ora vivono o vivranno, è espressa in una sintesi che rispetta tanto il piano dei valori trascendenti quanto quello dell’utilità biologica. La conquista di questo centro, con altre parole, di una coscienza fondata sull’anima, è un processo complesso che richiede un cammino di crescita che può essere ricondotto, almeno in parte, a quello che Jung definiva processo di «individuazione».
    [15] Aggiungiamo in nota una risposta rispetto all’eterogeneità dei dati utilizzati dalla pedagogia. Occorre tenere conto che negli ultimi decenni la pedagogia in qualche modo ha dovuto lasciare il passo alle scienze dell’educazione, che affrontano l’esperienza dell’educazione da una molteplicità di punti di vista. La psicologia, ad esempio, vede l’educazione come sviluppo e apprendimento, la sociologia come socializzazione, l’antropologia come inculturazione. Non solo. Altre scienze umane, come la filosofia, la linguistica, le scienze politiche o la teologia, si occupano dell’educazione. Il fiorire nel corso del Novecento di questi saperi specifici, definiti extra-pedagogici, anche se non ha prodotto - come qualcuno postulava - la conversione totale e definitiva della pedagogia nelle scienze dell’educazione, ha tuttavia fatto sì che queste entrassero di diritto nella base cognitiva della pedagogia.
    Consideriamo due aspetti specifici: i dati offerti e ripresi dalla sociologia e quelli dalla psicologia.
    La sociologia indica a chi deve educare i valori, gli ideali, i fini, gli obiettivi che è possibile perseguire e, anzi, sono attesi in una particolare situazione storica e sociale. In altre parole la sociologia indica all’educazione il «possibile». Tuttavia l’educazione va oltre il possibile, in quanto poggia sia sul pilastro dell’essere che su quello del dover essere, cioè sia sul pilastro della concreta situazione in cui le persone vivono che su quello disegnato dal fine ideale.
    Infatti, se l’educazione si riduce al possibile essa diventa semplicemente un meccanismo di riproduzione della società e imprigiona le persone nel destino delle loro condizioni sociali di nascita e di vita. In altre parole, l’educazione deve rendere possibile alla persona la partecipazione attiva allo sviluppo ed alla umanizzazione della società che abita.
    Anche per quanto riguarda la psicologia si può fare un discorso simile. Infatti questa disciplina indica le potenzialità effettive, i limiti e i vincoli che le persone presentano in base alla loro età e alle loro situazioni personali. È chiaro che l’educazione non può non tenere conto di questo, tuttavia essa non può ridursi ad essere semplicemente lo sviluppo delle potenzialità e il rispetto dei limiti della persona, perché, di fatto, non ci sarebbe in questa alcuna crescita, alcun salto rispetto al suo stato attuale. Infatti, le potenzialità della persona sono scoperte e sviluppate a partire non solo dall’analisi dell’esistente ma dal movimento verso un fine, un progetto di sé e di vita.
    L’animazione si è mossa pienamente nel terreno delle scienze dell’educazione e ciò fa sì che essa utilizzi l’eterogeneità di diversi saperi disciplinari con la presunzione di unificarli a livello «meta» nella sua concezione dell’uomo e degli obiettivi educativi che propone.
    [16] Cf Riccardo Tonelli, Per una pastorale giovanile al servizio della vita e della speranza. Educazione alla fede e animazione, Elledici 2002, pp. 119-134.
    [17] R. Bodei, Destini personali. L’epoca della colonizzazione delle coscienze, Feltrinelli, Milano 2003, p. 37.


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