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    Il narcisismo



    I temi negati dell’educazione /13

    Mario Pollo

    (NPG 2013-07-70)


    Nella modernità, a partire simbolicamente dall’introduzione da parte di John Locke del concetto di identità personale, il luogo dell’unicità e della particolarità personale non è più stato l’anima bensì l’Io aut identità personale.
    Questo ha fatto si che il fondamento dell’individualità umana passasse dalla dimensione dell’atemporale, dell’eterno a quella del contingente e del transitorio, e fosse in questo modo sottoposto alle trasformazioni della cultura sociale e delle grandi narrazioni che si susseguono nella storia. Ad esempio si è sviluppata una linea di pensiero che partendo da Schopenhauer e passando da Le Bon e Gentile ha condotto sino ai totalitarismi del Novecento. Infatti, questa concezione negava il valore dell’individuo e sosteneva la sua sacrificabilità alle potenze anonime di stampo collettivo. Accanto a questa linea di pensiero, fortunatamente, ne era presente un’altra che nascendo da Locke conduceva a Nietzsche, a Proust, a Simmel, a Pirandello e alla sociologia anglosassone contemporanea e che al contrario della precedente affermava il valore dell’individuo e, quindi, della sua libertà e autonomia intellettuale e morale.
    Occorre però rilevare che dopo l’assorbimento degli individui nella dimensione collettiva dei regimi totalitari, avvenuto nella prima metà del Novecento, vi è stata negli ultimi decenni la loro emancipazione nelle più recenti forme di individualismo. Forme che nell’ultima parte del Novecento, seppur da un versante diverso, hanno offerto anch’esse un contributo all’affermazione del valore del soggetto.
    L’emergere della centralità del soggetto è stato indubbiamente una delle più importanti conquiste che può essere ascritta al Novecento. Tuttavia, come spesso accade, questa conquista si è trasformata in questi ultimi anni in una regressione perché il soggetto sembra essere stato sedotto dallo specchio di Narciso.
    La presenza nella cultura sociale contemporanea di questa regressione è testimoniata in modo autorevole dal Manuale diagnostico psichiatrico più diffuso, il Dsm, che in una prima stesura della quinta edizione appena edita aveva fortemente ridimensionato la sindrome narcisistica, tanto che i giornali avevano titolato che essa era stata cancellata dal manuale. Da questo fatto molti avevano dedotto che il narcisismo è oramai talmente diffuso da non poter essere più considerato patologico. Di là della correttezza o scorrettezza di questa interpretazione, rimane che oggi molti psicoterapeuti e psichiatri tendono a fondare la spiegazione di molte forme di disagio, di devianza e di sofferenze psichiche sulla presenza nelle persone che le vivono di una qualche sindrome narcisistica.

    La crisi della dialettica Noi-Io

    All’origine del percorso che nella modernità ha condotto dalla scoperta del valore del soggetto al narcisismo vi è, oltre che la morte dell’anima, la scissione della concezione dell’identità personale nelle due linee di pensiero in cui si sono contrapposte le esigenze del collettivo e quelle dell’individuo. Scissione che ha prodotto un concreto e assurdo conflitto tra le esigenze dell’Io e quelle del Noi.
    Per comprendere l’assurdità di questo conflitto è necessario ricordare che nella vita umana l’esperienza del Noi precede e rende possibile quella dell’Io. Il bambino quando apre gli occhi sul mondo non avverte la separazione del suo corpo dal tutto costituito dai corpi delle persone che si prendono cura di lui e degli oggetti che formano l’ambiente in cui vive. Egli si separa progressivamente da questo «tutto» in un processo che lo porta ogni giorno a conquistare una parte più grande della sua individualità e che terminerà solo con la sua morte. Tuttavia, il processo di separazione dal noi terminerà assai prima, normalmente con l’adolescenza. Età dopo la quale dovrebbe iniziare una nuova e diversa riconquista dell’unione dell’Io con il Noi.
    Questo processo rende visibile le caratteristiche peculiari dell’essere umano: l’essere dotato di un’individualità unica e irripetibile, di una forte autonomia e libertà personale che però può attuare solo nella relazione con l’altro, all’interno di quella rete relazionale e culturale definibile come Noi. Con una battuta si potrebbe dire che nell’essere umano la cura di sé richiede la cura dell’altro, che il miglior modo di essere egoisti, è quello di essere altruisti.
    Alla base di questa paradossale caratteristica dell’uomo vi è il suo essere incompiuto alla nascita e il poter costruire la sua umanità particolare solo attraverso ciò che gli offre la cultura sociale che lo ospita. Egli, infatti, possiede un ricco insieme di potenzialità, comuni e/o particolari, che possono attuarsi solo nell’incontro con altri esseri umani portatori di una cultura sociale.
    Questo fa sì che il soggetto possa esistere solo in una società e in una cultura e che la qualità della sua individualità sia strettamente interconnessa a quella della stessa società e della stessa cultura. In altre parole, la vita umana trova la sua pienezza solo nell’equilibrio tra l’Io e il Noi. Quando prevale uno dei due, non importa se il Noi o l’Io, la vita umana non può fiorire nella sua pienezza e le persone costruire pienamente la propria umanità particolare.
    In questa fase storica nelle società occidentali economicamente più sviluppate vi è chiaramente un disequilibrio tra il Noi e l’Io a favore di quest’ultimo, essendo caratterizzate da un forte individualismo e, quindi, dalla dissoluzione da quel legame di solidarietà sociale definito da Bauman «legame comunitario». Legame che consente alle persone di intrecciare i propri progetti personali in una rete che garantisce a ognuno di essi il sostegno, diretto o indiretto, della comunità di cui fa parte.
    La conseguenza è che in questa situazione sociale ogni persona è sola con il proprio progetto di vita ed è ritenuta l’unica responsabile del suo successo o insuccesso. Al massimo la persona può avere, con alcuni degli altri membri della comunità, dei momenti d’intimità in cui confida i propri vissuti, le proprie preoccupazioni o le gioie, i propri successi o gli insuccessi, ma senza che le persone cui fa queste confidenze possano essere fattivamente coinvolte nel perseguimento del suo personale progetto. E questo è qualcosa che mina alla radice la possibilità di una matura e piena realizzazione dell’Io della persona e il suo cammino verso la conquista del Sé, di quella condizione cioè in cui l’individuo pur rimanendo autenticamente se stesso vive una profonda unione, si potrebbe dire mistica, con gli altri e il mondo. Jung definiva questo cammino «processo d’individuazione».
    Queste caratteristiche della cultura sociale contemporanea costituiscono il terreno di coltura favorevole alla crescita del narcisismo come condizione standard dell’esistenza umana.

    Il narcisismo

    Il narcisismo è la tendenza e l’atteggiamento psicologico che fa sì che il centro esclusivo e preminente della persona sia lei stessa e, quindi, le sue qualità fisiche e intellettuali, che diventano anche l’oggetto di una compiaciuta ammirazione. Nello stesso tempo questa persona appare indifferente verso gli altri, di cui ignora o addirittura disprezza il valore e le loro opere.
    La psichiatria annovera il narcisismo tra i disturbi di personalità di cui sono affette le persone che tendono a esagerare le proprie capacità e i propri talenti, che sono costantemente assorbite da fantasie di successo e che manifestano un bisogno quasi esibizionistico di attenzione e di ammirazione. Queste persone sono anche incapaci di riconoscere e percepire i sentimenti degli altri, che tendono a sfruttare e a manipolare per raggiungere i propri scopi e, quindi, ingigantire la propria immagine.
    È indubbio che non tutte le forme in cui si manifesta il narcisismo sono da considerare patologiche, anzi una dose modica di narcisismo, inteso come sano e benefico amore per la propria persona, è indispensabile a garantire alle persone l’autostima e a condurle verso ideali e scelte mature, verso il desiderio di realizzare le proprie aspirazioni e di migliorare se stesse e, infine, verso il rispetto di se stesse e degli altri.
    Questo narcisismo è solitamente definito «normale» e nell’infanzia è nutrito dai genitori attraverso l’espressione del loro amore e della piena accettazione dei figli. Al di fuori della famiglia la benevolenza degli altri, i successi e i riconoscimenti sono, di fatto, delle gratificazioni narcisistiche che costituiscono un importante rinforzo dell’autostima. Al contrario, la mancanza di amore e di considerazione, gli insuccessi e gli abbandoni che una persona in crescita può sperimentare producono in lei delle profonde ferite narcisistiche, in altre parole costituiscono delle offese all’autostima e provocano sentimenti dolorosi d’insicurezza, che in alcuni casi sono difficilmente superabili.
    Tra questo narcisismo normale e quelle patologico nella cultura sociale attuale esiste una zona grigia, intermedia, che spesso assume il nome e il volto del soggettivismo.

    Il soggettivismo come maschera del narcisismo

    Il soggettivismo è il frutto, oltre che dei fattori prima indicati, anche dell’intreccio di quei fenomeni culturali, sociali e psicologico-esistenziali che sono all’origine dell’attuale particolare fase della modernità, che qualcuno individua come dissoluzione, liquefazione o polverizzazione o eccesso della stessa modernità.
    Il primo di questi fenomeni è costituito dalla cosiddetta complessità sociale che, com’è noto, è nient’altro che una caratteristica costitutiva della cultura delle società economicamente sviluppate, che hanno vissuto al loro interno i processi di secolarizzazione e di modernizzazione e nelle quali la grande maggioranza degli abitanti vive condizioni di libertà dai bisogni fondamentali e gode in misura sufficiente dei diritti sanciti dal moderno concetto di democrazia.
    La complessità nasce dal fatto che la società non è più organizzata attorno ad un unico centro ma attorno ad una pluralità di centri che forniscono ai valori sociali una legittimità parziale e precaria. Il non avere un centro unico che conferisca legittimità ai valori rende impossibile qualsiasi scelta o semplice gerarchizzazione, oltre che degli stessi valori, dei bisogni e delle opportunità presenti nella società. Questo significa che nelle società complesse non esistono visioni della realtà o sistemi di valore che possano essere considerati egemoni.
    Ogni concezione del mondo e della vita, ogni posizione etica, magari aberrante, ha diritto di esistenza e rivendica pari dignità con quelle più diffuse e ricche di validazioni storiche, culturali e sociali. In conseguenza di ciò lo spazio di espressione del desiderio soggettivo diventa molto più ampio che nel passato, così come il rifiuto di codici normativi eteronomi entro cui definire il proprio spazio esistenziale.
    Il secondo fenomeno è costituito dalla crisi delle grandi narrazioni, cioè dei grandi sistemi ideologici e di pensiero attraverso cui le persone interpretavano se stesse, la loro vita e il mondo facendo riferimento ad un punto di vista esterno ai loro bisogni e disideri.
    Il terzo fenomeno è costituito dalla perdita della capacità delle persone di interpretare il fluire del tempo lungo l’asse lineare della storia e, quindi, di dare alla propria vita la coerenza e l’unitarietà di un progetto dotato di un senso non contingente inscritto in una storia che trascende i confini della loro vita. Questo perché il rapporto tempo vita umana nella cultura attuale è stato banalizzato, ridotto a un puro evento meccanico mentre la vita dell’individuo, e forse anche quella della società, è stata privata della dimensione progettuale che si nutre di memoria e di sogni di futuro.
    In questa concezione del tempo le persone sperimentano la solitudine di ogni istante della loro vita. Solitudine che nasce dall’impossibilità del tempo di proporsi come un disegno dotato di un senso globale e in cui ogni istante assume la funzione di un particolare che ha un senso sia in sé sia nel disegno di cui fa parte. Ogni istante, infatti, propone il suo significato, irrimediabilmente relativo e soggettivo, senza avere la pretesa di essere un passo di quel cammino che prende il nome di storia.
    Questa concezione del tempo ossessivamente fissato sul proprio presente, fissato cioè sull’istante in cui esso appare alla coscienza, porta con sé necessariamente anche la concezione dell’inconsistenza e dell’illusorietà del tempo, per cui alla persona non restano che la disperazione o il vivere assecondando i bisogni e i desideri personali che emergono nell’istante.
    Le persone immerse in questo tempo, che Bergson definiva spazializzato, perdono la coscienza della propria appartenenza alla storia e, quindi, la propria capacità di produrre storia per divenire delle comparse sulla scena del mondo, delle comparse prive di memoria e di sogni di futuro.
    Solo ciò che è immediato e simultaneo è vissuto come reale. Le dimensioni del passato e del futuro sono espulse dalla coscienza, la memoria e il sogno sono esiliati. L’istante diviene un punto nello spazio in cui non vi è durata ma solo l’appartenenza atemporale a un insieme definito spazialmente.
    L’intreccio di questi tre fenomeni culturali nella vita delle persone, e quindi anche dei giovani, ha prodotto in gran parte la deriva del soggettivismo e la loro conseguente chiusura in quell’orizzonte di senso costituito principalmente dai bisogni personali, dalle argomentazioni del desiderio, dai sentimenti, espressi o non, e dai sistemi simbolici interiorizzati.
    Questa chiusura si attenua solitamente nelle micro aperture disegnate dalla relazionalità primaria con le persone con cui si condivide, in un clima di solidarietà affettiva, il piccolo mondo vitale quotidiano. Anche se spesso, in questi casi, più che di vere aperture si tratta di una reciproca accettazione della propria soggettività.

    L’antidoto al soggettivismo, volto rassicurante del narcisismo

    L’antidoto all’emersione del narcisismo, nella sua variante del soggettivismo, nella cultura contemporanea è da ricercare in un modello educativo, quale quello dell’animazione culturale, che mira sia allo sviluppo nella persona del suo nome, dell’unicità cioè che fonda la sua identità personale e che dà un senso non banale al suo essere nel mondo, sia all’apertura all’alterità nei suoi due versanti: quello immanente e quello trascendente.
    In altre parole, l’antidoto al narcisismo non va ricercato in una sorta di terapia, bensì nel sostegno educativo di un percorso in cui le nuove generazioni possano mettere al centro della propria vita la coscienza e la creatività che da essa si genera all’interno dell’equilibrio tra l’Io e il Noi.
    Un percorso che non può riguardare solo una parte della persona ma la sua totalità, che non riguarda perciò solo la parte razionale della coscienza ma anche la capacità di integrare creativamente in essa le energie profonde che provengono dalle emozioni, dai sentimenti e che sono nutrite dalle energie dell’inconscio.
    Solo in questo modo la coscienza potrà sostenere la persona nell’esercizio di un’autentica libertà di scelta nel governo della traiettoria della sua vita. Però questa coscienza, oltre che nutrirsi della parte a-razionale, inconscia, deve anche essersi liberata dalle dipendenze che possono imprigionarla.
    A questo punto è necessario ricordare che l’animazione culturale ha come obiettivo lo sviluppo nei giovani di quella creatività prodotta dalla conquista di una coscienza emancipata dalla dipendenza da quelle «forze istintuali della vita, mostri del profondo, che incessantemente si divorano, si generano e si combattono» [1] dietro la sua rispettabile facciata, il suo disciplinato ordine morale, le sue buone intenzioni.
    Con un’immagine si può dire che questa liberazione avviene quando la persona combatte vittoriosamente contro il drago e libera la prigioniera, o scopre il tesoro, che il drago custodiva nel suo antro. Occorre ricordare che il drago è il simbolo «delle forze impersonali presenti nel profondo della psiche umana, che nutrono e sorreggono, oppure inghiottono e distruggono, la debole e indifesa coscienza dell’uomo». [2]
    La lotta contro il drago avviene nella persona umana, oltre che nell’infanzia e nella pubertà, tutte le volte che è necessario un riorientamento della coscienza per affrontare situazioni esistenziali nuove e diverse. La prigioniera, oltre che essere un’immagine dell’anima, è anche la rappresentazione simbolica del nuovo, la cui liberazione rende possibile il progresso e lo sviluppo della condizione umana. La persona, se vuole avere un approccio creativo con la vita e se vuole continuamente costruire se stessa, deve periodicamente lottare contro il drago. La battaglia contro il drago non è vinta una volta per tutte nell’adolescenza, ma prosegue per tutta la vita. Le persone che smettono di combattere il drago, perché credono di aver raggiunto irreversibilmente la maturità cosciente, rischiano di regredire, oppure, più comunemente, di avere un atteggiamento passivo, acritico e conservatore nei confronti della vita.
    La lotta contro il drago, la liberazione della coscienza e la nascita della creatività o della poesia è ben esemplificata dal mito di Perseo e del combattimento contro la Gorgone. Quando Perseo uccide la Gorgone, una personificazione del drago, dalla costola di questa nasce Pegaso, il cavallo alato, simbolo del mondo delle forze istintuali, che abbandona innalzandosi per entrare a servizio delle tendenze spirituali umane.
    Il mito narra che Pegaso, appena uscito dal collo della Medusa, mentre sale verso Zeus tra tuoni e fulmini, fa sgorgare dal suolo la sorgente Ippocrene, che è la fonte delle Muse.
    Ciò significa che la conquista della coscienza da parte della persona libera anche la poesia e l’arte nella cultura umana. Di là del mito, resta il legame inscindibile che c’è tra la lotta della persona contro le forze che tendono a mantenerla all’interno di un’appartenenza dipendente e inconscia al mondo e la liberazione della creatività.
    Non solo. La lotta contro il drago è il segno della necessità che la persona ha di nutrire il proprio agire cosciente con l’energia di vita che ha sede nelle sue regioni psichiche più profonde che, se non sono trasformate creativamente, rischiano di divenire forze della distruttività.
    L’animazione vuole porsi a servizio di questa lotta della persona per aiutarla a costruire la propria libertà e autonomia di essere autocosciente. Quest’obiettivo generale dell’animazione, che si manifesta nella capacità di vivere il quotidiano con ricchezza di senso, si realizza attraverso tre strategie specifiche.
    La prima di queste strategie consiste nel sostegno del giovane nel cammino verso la scoperta e la conquista della propria individualità all’interno dello sviluppo di una appartenenza alla cultura sociale profonda e critica.
    Un’appartenenza, cioè, che gli permetta di avere con la cultura un rapporto attivo, partecipe e vitale. La cultura è lo strumento fondamentale per l’acquisizione dell’identità e quindi della coscienza che l’essere umano civilizzato ha a disposizione.
    La seconda strategia particolare riguarda la costruzione di una socialità che, senza abolire l’autonomia e libertà individuale, faccia vivere sino in fondo il rapporto di solidarietà che unisce in un legame indissolubile gli uomini. Solidarietà che va di là dei limiti spaziali e temporali che circoscrivono la vita di una persona e della società alla quale appartiene. Infatti, la solidarietà umana attraversa lo spazio e il tempo perché lega tra loro persone che vivono in aree geografiche e in epoche storiche diverse.
    La coscienza umana, radicata nella cultura e nella solidarietà sociale, per essere veramente evoluta deve offrirsi alla trascendenza. Questa terza strategia nasce dalla consapevolezza che, senza trascendenza, la coscienza umana rischia di condurre la persona a un rapporto arido con la realtà, a un’ipertrofia della volontà di potenza e, come accade oggi, al narcisismo.
    L’uomo, dopo aver mangiato il frutto dell’albero della conoscenza, deve ritrovare l’unità con il tutto su basi nuove. Deve riconoscersi come parte di una creazione d’amore cui, volente o nolente, appartiene.
    Queste tre strategie, che a loro volta si articolano in altre ancora più specifiche, sono nella loro interrelazione al servizio del progetto di una persona in grado di vivere con ricchezza, libertà, autonomia e, perché no, con poesia il suo essere nel mondo.
    Una persona aperta, disponibile a verificarsi continuamente, a ridefinire se stessa per essere fedele a una vita il cui senso è oltre la sua stessa vita.
    Una persona che non si lascia trasportare dagli eventi ma che vuole, per quanto è nelle sue forze e riconoscendo la sua radicale dipendenza dal Dio Creatore, governare la propria vita e intervenire a modificare il corso stesso della storia a cui partecipa.
    Una persona, cioè, che sappia essere un eroe nel quotidiano, nella vita normale, perché ha scoperto che non c’è avventura più grande di quella di essere; pur tuttavia senza rinunciare, se la sorte glielo propone, a vivere con coraggio l’insolito e l’eccezionale.
    Come detto, per raggiungere quest’obiettivo generale l’animazione persegue tre grandi strategie tra loro integrate.

    Accostarsi alla cultura come modo di individuarsi e riconoscere un senso al quotidiano

    Per arrivare a dare un senso al quotidiano, il giovane ha a disposizione il suo vissuto personale e la cultura entro cui vive.
    Come può avvenire questo? La cultura attraverso il linguaggio disegna un mondo; il vissuto, frangendosi con le profondità sconosciute dell’uomo, offre il polo della soggettività individuale.
    Vissuto e cultura costituiscono i due poli entro cui si svolge la ricerca della propria «individualità», all’interno di una identità personale che affonda le radici nella cultura.
    È all’interno di queste polarità che il quotidiano può scalare i suoi abissi di significato e mostrarsi, al di là del velo della opacità, come luogo del senso.
    Tuttavia, occorre dire subito che non qualsiasi cultura, né qualsiasi vissuto possono interrogare la banalità quotidiana e illuminarla.
    Ci vuole una cultura che, abbandonata l’illusione alienante dell’utilitarismo e il mito della ragione e della scienza come salvezza, accetti di reintrodurre al proprio interno tutte le lingue e i testi che riguardano l’essere sin dai tempi più remoti.
    Una cultura in grado di dialogare con le altre culture, pur non rinunciando alla propria identità, perché è presente in essa la convinzione che, da sola, essa non può offrire una descrizione attendibile della realtà del mondo.
    Una cultura capace di ridare spessore ai simboli e ai racconti che la precedono, che non sono scienza ma sicuramente sapienza.
    Occorre poi che la persona riapprenda, anche per il tramite di una cultura restituita all’essere, a dialogare con se stessa fino alle più antiche profondità. Occorre, cioè, che incorpori armonicamente nel suo Sé l’inconscio. Solo così il suo vissuto potrà essere alimentato in modo realmente salvifico dai racconti della salvezza.
    L’animazione vuole contribuire a fare sì che la vita quotidiana diventi luogo di domande e di risposte, attraverso la riscoperta di una cultura più vicina all’essere e di un vissuto personale in cui si rispecchi il senso profondo della vita che l’inconscio tiene prigioniero.

    Scoprire il sociale come luogo della solidarietà in cui riproporre se stessi responsabilmente senza mistificazioni

    A differenza di quanto l’opinione comune suggerirebbe, non è la ragione, la razionalità che fonda la socialità della persona, il suo aprirsi a quell’avventura rischiosa ma necessaria, che è l’incontro degli altri esseri umani, bensì il mondo dell’emotività, delle oscure pulsioni e desideri che sovente viene con facilità denominato «irrazionale».
    La razionalità, infatti, è all’origine di quel miracolo chiamato soggettività, che «separa» con estrema efficacia, anche troppa, l’uomo dagli altri e dalla natura.
    L’arazionale o regno del pensiero simbolico, dell’emozione nella relazione uomo/altri/natura, del desiderio come energia della vita, della paura e dell’angoscia come molla del contratto sociale della istituzione, è invece all’origine di quel processo, non sempre felice ma possibile alla felicità, che è la «relazione» sociale e naturale.
    Educare a pensare con le proprie emozioni, le proprie paure, le proprie euforie, integrandole con i dati e con il flusso del pensiero razionale, ecco un’altra esemplificazione dell’obiettivo generale dell’animazione, un’altra tappa del cammino che viene proposta. E questa è una educazione che si può definire sociale nel senso più nobile della parola, in quanto si basa sulla capacità di accogliere se stessi e gli altri senza mistificazioni riduttive o maggiorative, accettando di ognuno, anche di sé, la reale, effettiva umanità.
    Su questa accoglienza, prima emotiva e poi razionale, può concretamente fondarsi l’amore vero per la libertà, la giustizia e la democrazia, al di là di ogni orizzonte di pensiero e di ogni ideologia. Una razionalità, un pensiero, un’analisi del reale che sappia nutrirsi di questa consapevolezza relazionale ed emotiva, non può che generare una socialità nobile, un darsi realmente partecipe alla vita sociale, il sogno di un’utopia che si realizza ogni giorno nell’amore vissuto.
    Accettare se stessi e gli altri significa pensare le proprie emozioni, amare e plasmare creativamente le proprie paure, dare un vessillo al desiderio, sentirsi solidali allo spazio-tempo, ascoltare l’incrociarsi del battito dell’orologio del proprio corpo con quello della natura e, infine, sentire che tutto questo fornisce alla coscienza una energia e una felicità che consentono alla ragione di scoprire, giorno dopo giorno, nonostante gli insuccessi e le sconfitte, la verità nelle sue dimensioni di descrizione e di spiegazione della realtà.
    L’amore alla vita, se nutrito di questa interiorità, se sposato con la capacità di azione nella realtà, può veramente divenire il risultato di quella formazione, centrata sulla qualità e l’amore della vita, che è definita animazione.

    Riconoscere l’invocazione che la realtà rilancia come invocazione aperta ad una speranza totale

    Nel complesso percorso che conduce a questo obiettivo dell’animazione, manca un’ultima tappa: quella della trascendenza.
    Infatti persona, cultura, mondo sono concetti che hanno una relatività paralizzante, alle porte dell’angoscia o del nichilismo, se non sono illuminati da ciò che è nella loro stessa natura, l’appartenenza a una dimensione trascendente il loro stesso limite.
    La persona non può giudicare se stessa, il proprio mondo e, quindi, la propria cultura se non possiede un punto di vista che sia collocato oltre il limite del suo mondo e della sua cultura.
    Solo se la persona comprende, attraverso le vie di una fede o di un pensiero trascendente, se stessa e il mondo, può formulare un giudizio sulla verità e sulla coerenza della propria vita e della propria cultura.
    Senza trascendenza, la persona rimane chiusa in un mondo in cui tutto può essere vero e tutto può essere falso, tutto può essere espresso e tutto può restare inespresso, in cui nulla ha valore in sé e un significato tale da porsi come riferimento per una scelta esistenziale orientata verso un obiettivo che sia collocato oltre le frontiere dell’utilità.
    La persona, senza il grido, l’invocazione alla trascendenza rischia di perdere se stessa nel rumore delle cose che sono e non sono, delle mode, delle illusioni o financo della violenza di una ragione o scienza che, in nome del potere, distrugge la vita.
    Attraverso l’apertura alla Trascendenza l’animazione comunica al giovane che la speranza non è un’illusione, ma l’unica vera realtà che si svela nella sua pienezza solo dopo che nella fatica del quotidiano si è stati redenti cooperando alla redenzione del mondo.


    NOTE

    1 Harding E., L’energia psichica. La sua fonte e le sue trasformazioni, Astrolabio, Roma 1977.
    2 Ivi.


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