Dopo la GMG /6
Luis A. Gallo
(NPG 2011-07-26)
All’interno del pacato discorso che Benedetto XVI porta avanti nel suo Messaggio ai giovani, la frase «la Chiesa conta su di voi» risuona quasi come un grido. Un grido che si prolunga nelle parole che seguono, e che ne sono una giustificazione: «Ha bisogno della vostra fede viva, della vostra carità creativa e del dinamismo della vostra speranza. La vostra presenza rinnova la Chiesa, la ringiovanisce e le dona nuovo slancio».
Chiesa e giovani nel corso della storia
Una pur veloce rivisitazione della storia della Chiesa dal punto di vista del suo rapporto con i giovani permette di cogliere un dato significativo: da una parte l’attenzione e l’interesse della Chiesa verso i giovani sono andati crescendo lentamente attraverso i secoli, e dall’altra i giovani sono andati a poco a poco acquistando protagonismo in essa.
Nei primi secoli, infatti, come attestano gli studiosi, essi non sono stati fatti oggetto di un’attenzione particolare né di un’azione pastorale specifica da parte della Chiesa, ma poi vi sono andati emergendo fino ad arrivare, nell’attualità, ad occupare un posto realmente rilevante in essa. L’intensa e persino appassionata dedicazione ai giovani dimostrata da papa Giovanni Paolo II nei lunghi anni del suo pontificato ne è una chiara conferma. Nel suo conosciuto volume-intervista Varcare la soglia della speranza aveva dichiarato, precedendo quanto dice ora il suo Successore nel Messaggio: «Abbiamo bisogno dell’entusiasmo dei giovani».
D’altra parte i giovani, che per molti secoli sono stati prevalentemente oggetto della cura della Chiesa, ultimamente sono andati acquistando un reale protagonismo in essa. Oggi, infatti, sono numerosi i giovani che, personalmente ma soprattutto nei gruppi e nei movimenti ecclesiali, hanno la consapevolezza di essere dei veri soggetti di ecclesialità.
Un protagonismo acquistato e confermato
Era logico che in passato, in una Chiesa accentuatamente piramidale e clericale, come era quella che si andò affermando a partire dal famoso decreto di Costantino nel secolo IV, e che si protrasse praticamente fino alle porte del concilio Vaticano II a metà del secolo scorso, la cosiddetta gerarchia fosse ritenuta - e si ritenesse - il soggetto principale, e a volte esclusivo, della vita e dell’attività ecclesiali.
Essa esercitava infatti questo suo protagonismo nell’ambito della fede mediante la funzione del magistero, con cui esprimeva la sua autorità nei confronti della interpretazione della Parola di Dio. Era una Chiesa docente, di fronte alla quale si poneva, in modo obbediente e rispettoso, la Chiesa che imparava. Esercitava anche il suo protagonismo nell’ambito del culto mediante l’amministrazione dei sacramenti, conferendo attraverso di essi la grazia della santificazione che i semplici fedeli ricevevano, spesso in maniera passiva, particolarmente nell’Eucaristia. Ma lo esercitava soprattutto e in maniera più visibile nell’ambito del potere di decisione, mediante l’esercizio della «sacra potestà» che dispiegava nella conduzione e nel governo della comunità.
I laici o secolari, che non formavano parte della gerarchia perché non erano segnati dalla sacra ordinazione, venivano considerati - e in genere consideravano se stessi - quale oggetto della cura dei ministri sacri, ossia di coloro che erano costituiti nei gradi della gerarchia, e quindi spesso non si ritenevano veramente Chiesa, ma dei «clienti» dei chierici nei tre ambiti sopra accennati. Ciò si verificava ovviamente in maniera ancora più accentuata per quel che riguarda i giovani.
La decisione del Vaticano II di abbandonare la concezione della Chiesa prioritariamente come società o istituzione e di assumerne un’altra ispirata all’idea di comunione, provocò un profondo rinnovamento nella Chiesa stessa. Lo si vede particolarmente nella sua costituzione dogmatica «Lumen gentium». In essa non vengono più considerati soggetti nella Chiesa soltanto i membri della gerarchia, ma tutti i membri dell’unico Popolo di Dio, dotati della stessa dignità e corresponsabili, anche se in modi e misura diversi, della stessa e unica missione (LG 32).
La Parola di Dio non è più affidata solo a coloro che esercitano il ruolo del magistero, che pur mantengono un ruolo di presidenza a suo riguardo, ma in qualche misura a tutti e ognuno dei battezzati, «dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici» (LG 12); la gestione della vita sacramentale non è più solo prerogativa di coloro che esercitano il sacerdozio ministeriale, ma a suo modo di tutti i membri della comunità, che è tutta intera una comunità sacerdotale, poiché «per la rigenerazione e l’unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le attività del cristiano, spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di Colui, che dalle tenebre li chiamò all’ammirabile sua luce» (LG 10); il potere di decisione non è più monopolio di coloro che hanno la cosiddetta «sacra potestà» ma, in forza dei carismi ricevuti (LG 12), appartiene in qualche misura e in maniera armonica a tutti coloro che fanno parte della Chiesa.
Di conseguenza, i cristiani laici non sono più caratterizzati in modo negativo, come si fece per secoli definendoli come coloro che non hanno ricevuto l’ordine sacro o non appartengono alla vita religiosa, ma viceversa in modo altamente positivo. Sono cioè riconosciuti come «i fedeli, che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e, nella loro misura, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano» (LG 31). Non più quindi solo oggetto delle cure dei pastori, ma reali soggetti del sacerdozio, della profezia e della regalità ecclesiali. Naturalmente, ciò vale anche per quei cristiani laici che sono i giovani e le giovani appartenenti alla Chiesa.
Ma, come si desume da un analisi dei documenti conciliari, nel suo lavoro mirato a «ringiovanire il proprio volto, per meglio corrispondere al disegno del proprio Fondatore» (Messaggio ai giovani), nel Vaticano II la Chiesa fece ancora un passo ulteriore: verso la fine delle sue sessioni, soprattutto nella costituzione Gaudium et Spes, si identificò solennemente come «serva dell’umanità» (Paolo VI). Aprì infatti la sua comunione al mondo, mettendosi totalmente al servizio della sua piena umanizzazione. E ciò la portò a ripensare tutte le sue componenti, anche quella laicale. Con una audacia che provocò la sorpresa e perfino la resistenza di non pochi, riconobbe nei cristiani laici l’avanguardia della comunità dei discepoli di Cristo, fondando tale concezione nel fatto che essi sono in prima linea nelle frontiere sociali, economiche, politiche e culturali del mondo (GS 43).
Fu alla luce di quest’ultima impostazione che nel periodo postconciliare in alcuni paesi del mondo povero la Chiesa ripensò la sua identità ecclesiale ridefinendosi come «serva della non-umanità», e cioè come interamente consacrata al servizio salvifico e umanizzante di quella massa ingente di poveri, spogliati della loro più elementare dignità umana, che la situazione socio-storica aveva generato e continuava a generare. Concretamente, la Conferenza Episcopale dell’America Latina a Puebla de los Ángeles, nel 1979, fece una «opzione preferenziale per i poveri». E, al sui interno, fece anche una «opzione preferenziale per i giovani», dichiarando di vedere in essi «una enorme forza rinnovatrice, simbolo della Chiesa stessa», e ribadendo che «la Chiesa confida in essi», e vede in essi «un vero potenziale per il presente e il futuro della sua evangelizzazione».
Cosa possono dare i giovani all’intera Chiesa?
Il concilio Vaticano II, concludendo il suo lavoro, lanciò un toccante messaggio ai giovani del mondo: «È per voi giovani, per voi soprattutto, che la Chiesa con il suo Concilio ha acceso una luce, quella che rischiara l’avvenire, il vostro avvenire», dichiarando apertamente: «La Chiesa vi guarda con fiducia e con amore».
Nel suo Messaggio Benedetto XVI si riallaccia idealmente a quelle parole del Concilio, e alle posteriori della Conferenza di Puebla, con la sopra citata dichiarazione loro rivolta: «La Chiesa conta su di voi». È come se dicesse loro: ora, a differenza di altri tempi, la Chiesa vi riconosce come veri protagonisti della vita e dell’azione ecclesiale, e si aspetta da voi ciò che, nella prospettiva di S. Paolo (1Cor 13,13), costituisce come la quintessenza della vita di chi ha deciso di seguire Cristo: la vostra fede viva, la vostra carità creativa e il dinamismo della vostra speranza.
È interessante rilevare che, in realtà, le tre realtà menzionate sono strettamente collegate tra di loro fino al punto di quasi non distinguersi l’una dall’altra.
Come dice tassativamente l’apostolo Giacomo, «la fede senza le opere è morta» (Gc 2,26). È nelle opere, quelle che riproducono ciò che fece Gesù (Mt 25,31-40), che la fede vive. È, secondo S. Paolo, «la fede che opera per mezzo della carità» (Gal 5,6). Con questa fede, resa operosa e creativa nei mille modi in cui la vita concreta lo richiede, i giovani sono chiamati ad arricchire se stessi, la comunità ecclesiale e il mondo in cui vivono. Non si tratta tanto di una adesione a delle dottrine, siano pure esse rivelate da Dio, né in primo luogo di una partecipazione sia pure assidua a degli atti di culto, quanto piuttosto di un agire che esprima l’accoglienza della proposta fatta da Gesù, secondo quello che lui stesso disse concludendo il discorso della montagna: «Non chi mi dice: «Signore, Signore», entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21). Questo fare non è altro, come si vede, che la «carità operativa» a cui accenna il papa.
La «carità operativa» ha poi a che fare con «il dinamismo della speranza». La speranza è uno sguardo aperto al futuro, al futuro migliore promesso da Dio sin dall’inizio del mondo e poeticamente immaginato nelle prime pagine della Bibbia (Gen 1-31). Ma è uno sguardo «dinamico», «creativo». Il futuro che si attende va fatto, e lo si fa attraverso «la carità operativa», un amore che, come quello di Gesù, punta fattivamente alla pienezza di vita di tutti e di ognuno (Gv 10,10). Perciò la speranza è tenace, non molla. Anche se i fatti sembrano andare in una direzione opposta. Sperare è dire, con le opere più che con le parole, a se stessi e ad ogni altro: «Io voglio ad ogni costo che tu viva, che viva pienamente». E i giovani, proprio perché sono anche biologicamente più sensibili alla vita, sono chiamati in modo particolare a vivere nella speranza. Essi, come viene ricordato dal papa nel Messaggio, sono «nell’età in cui si è alla ricerca della vita più grande».
Con Benedetto XVI si può augurare che la Giornata mondiale della gioventù 2011 sia un’occasione in cui (e da cui) i giovani possano esprimere al massimo questo dono che tutta la Chiesa si attende da loro.