Concilio Vaticano II e i giovani
Carlo Molari
(NPG 2013-08-60)
La Costituzione Pastorale Gaudium et spes (GS) anche se non ha proposto una dottrina organica ha offerto tuttavia indicazioni molto significative per una teologia dei segni dei tempi.[1] Una certa ambiguità delle formule conciliari ha reso difficile la ricezione effettiva dell’insegnamento conciliare al punto che alcuni hanno suggerito di abbandonare la terminologia dei segni dei tempi.
La formula «segni dei tempi» viene abitualmente utilizzata in due significati diversi: uno sociologico o antropologico e l’altro teologico. I due significati si sostengono l’un l’altro e si completano reciprocamente come le facciate di una stessa pagina, ma non sempre vengono precisati.
Nell’uso sociologico o antropologico la formula «segni dei tempi» indica quelle caratteristiche di un periodo storico che lo contraddistinguono dagli altri, per cui diventano elemento di identificazione di una fase storica. In questo senso la globalizzazione, l’idolatria del mercato, la costruzione di un impero mondiale sono stati più volte citati come un segni del nostro tempo. Anche Giovanni XXIII ha fatto riferimenti analoghi nella Pacem in terris (1963) e nel discorso inaugurale del Concilio.[2]
Nell’uso teologico la formula «segni dei tempi» si riferisce maggiormente all’azione di Dio o alla venuta del Regno nella storia. Per cui non sono gli eventi come tali o le condizioni sociali a costituire i segni dei tempi, bensì il rapporto che essi hanno in ordine al Regno di Dio e quindi le indicazioni dell’azione di Dio nella storia umana che, riconosciuti, possono indicare l’orientamento del cammino della Chiesa.
Ora non tutti gli eventi della storia hanno la medesima incidenza in ordine alla venuta del Regno di Dio, e non tutti gli stimoli vengono accolti in modo adeguato dalle comunità credenti. Vi sono infatti alcuni eventi più stimolanti perché espressione di situazioni più negative. Come vi sono eventi che non suscitano reazioni perché non vengono vissuti in ordine alla salvezza. Se allo stimolo storico non corrisponde alcuna risposta salvifica, l’evento non diventa segno. È solo la risposta salvifica, infatti, a fare dell’evento un segno dell’azione di Dio o del Regno che viene.
Il fatto che le particolari caratteristiche di un periodo storico spesso costituiscano sollecitazioni per le comunità ecclesiali a dare risposte salvifiche, conferisce loro una funzione indicativa in quanto ambito di espressione dei segni veri e propri dell’azione o della presenza divina, che sono le risposte umane suscitate dalla grazia nella storia umana. Nel senso teologico proprio, quindi, la formula vorrebbe indicare quelle novità di vita che, nel turbine della storia, l’azione di Dio riesce a suscitare, là dove trova persone fedeli pronte ad accoglierla. Sono questi i segni del Regno che viene e quindi le uniche ragioni della speranza messianica.[3]
I due significati della formula «segni dei tempi» hanno punti di convergenza, ma hanno anche numerose e qualificanti differenze. L’uso antropologico infatti rileva i fenomeni estesi e visibili, spesso superficiali e non sempre positivi in ordine al Regno di Dio, anzi a volte opposti alle dinamiche del Regno. Ma proprio per questo anch’essi possono avere un significato per le comunità ecclesiali in quanto mostrano il negativo e suscitano la tensione al suo superamento. Nell’uso strettamente teologico, invece, i segni dei tempi sono spesso marginali, negli inizi scarsamente visibili, non apprezzati anzi spesso ridicolizzati perché non sintonizzati con le mode correnti. Essi si sviluppano in un presente nascosto che solo in piccoli bagliori emerge alla superficie della storia. Se la Chiesa si limitasse ad esaminare i segni sociologici arriverebbe sempre in ritardo e non potrebbe orientare il proprio cammino.
DOTTRINA DELLA COSTITUZIONE PASTORALE
La GS ha offerto indicazioni molto concrete in ordine ai segni dei tempi. Ne elenco in modo schematico gli elementi per poi indicare alcuni sviluppi.
L’ambito verso il quale il credente deve volgere lo sguardo od oggetto materiale della lettura sono «gli avvenimenti» della storia, in particolare, le «attese, le aspirazioni, l’indole spesso drammatiche» (GS 4,11), «i vari modi di parlare del nostro tempo» (GS 44). Lo sguardo deve essere rivolto verso la storia nella sua interezza, sia verso gli aspetti positivi che verso quelli negativi. Anche i luoghi cioè gli eventi entro i quali i segni dei tempi emergono, per analogia possono essere chiamati segni. Essi infatti possono indicare le reazioni che, per azione dello Spirito, fioriscono attorno a loro o, in ogni caso mostrano, nella loro stessa negatività, le esigenze insoddisfatte dell’umanità. Per questo motivo anche le ricerche sociologiche dei segni dei tempi possono avere indicazioni preziose per la ricerca teologica dei segni.[4]
Le condizioni del mondo in quanto sollecitano l’attenzione del credente in ordine al Regno di Dio sono detti segni dei tempi in senso analogico, per il rapporto che essi hanno con i segni dei tempi propriamente detti.
Tale rapporto è duplice: gli avvenimenti costituiscono l’ambito di scoperta dei segni dei tempi o per rifiuto dell’azione di (Dio e quindi per richiamo della sua esigenza) o per la manifestazione di alcuni piccoli segni del Regno.
Oggetto specifico dello sguardo ecclesiale sono i «segni della presenza o del disegno di Dio» (GS 11) da rintracciare nella storia umana. L’azione e la presenza di Dio sono l’oggetto specifico della lettura teologica dei segni dei tempi. Esse devono essere intese secondo la legge dell’incarnazione. L’opera di Dio nel mondo non si aggiunge all’attività umana, ma la rende possibile e la sostiene; non piove dall’alto, ma emerge dall’interno delle creature. L’azione di Dio, attraverso le persone, diventa storia umana là dove essa viene accolta e può fiorire continuamente in forme nuove di umanità. M.-D. Chenu notava: «Se la Parola di Dio è manifestata e testimoniata da ‘segni’, è oggi che la Parola di Dio parla di una storia continua. L’atto liberatore e rivelatore di Dio, in un solo movimento, si iscrive nella storia degli uomini e vi apporta la sua verità».[5] Attraverso la lettura dei segni dei tempi, in senso proprio, si tende a individuare l’emergenza della forza dello Spirito all’interno della storia umana, soprattutto là dove essa ha la possibilità di esprimersi con tutta la sua potenza creatrice, nell’ambito cioè dei poveri e dei credenti.
L’azione divina non è sempre accolta e può apparire allo sguardo di fede anche come esigenza non soddisfatta, attraverso cioè la sua negazione o la sua assenza.
Soggetto della lettura dei «segni dei tempi» è il popolo di Dio (GS 4, EV 1,1324; 44, EV 1,1461) o la chiesa intera (GS 11, EV 1,1352). Tutti i fedeli sono abilitati e sollecitati a riconoscerli in virtù della scienza che viene loro donata dallo Spirito. S. Giovanni nella prima lettera indica nell’Unzione la ragione di questa capacità: «Voi avete l’unzione ricevuta dal Santo e tutti avete la scienza. Non vi ho scritto perché non conoscete la verità, ma perché la conoscete e perché nessuna menzogna viene dalla verità… E quanto a voi, l’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; ma come la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce, così state saldi in lui, come essa vi insegna» (1 Gv 2, 20. 27). La Costituzione del Vaticano II sulla Chiesa si riferisce a questa affermazione di Giovanni per illustrare il senso di fede di tutti i credenti (LG 12, EV 1, 316). In questo ambito il Concilio richiama la particolare funzione di servizio dei pastori e dei teologi [6] (GS 44, EV 1,1461), ma anche quella dei laici, che hanno il compito di «promuovere con sollecitudine e trasformare in sincero e autentico affetto fraterno» «il crescente e inarrestabile senso di solidarietà di tutti i popoli», che «tra i segni del nostro tempo è degno di particolare menzione» (AA 14, EV 1, 967).
La luce o la prospettiva dello sguardo viene dalla fede. Per il cristiano concretamente la luce è l’evento Cristo o il processo dell’incarnazione che ha in Cristo il momento culminante e la chiave interpretativa.[7] La fede, in rapporto al futuro, non offre contenuti propri, ma fa scoprire ciò che si fa presente o è già nascosto nella realtà. La fede, perciò, non può sostituire l’analisi delle cose, ma ne rende possibile la lettura in una prospettiva diversa. I contenuti della dottrina di fede sono appunto l’emergenza delle esperienze compiute dalle generazioni cristiane, che lungo i secoli ne hanno interpretato il significato. Esse servono per leggere in continuità con il passato gli eventi che accadono, ma non possono sostituire l’analisi della realtà. Questa però è sempre filtrata dall’esperienza del credente che, immerso nella storia, riflette la luce che lo investe dal di dentro.
Gli strumenti attraverso i quali la comunità ecclesiale legge i segni dei tempi sono spirituali e scientifici. I primi riguardano le condizioni soggettive che consentono di percepire l’azione divina in opera nella storia attraverso una sintonia di vita. I secondi sono offerti dalla scienze in particolare dalla scienze umane. La chiesa infatti per leggere i segni dei tempi ha bisogno dell’apporto di tutte le scienze, in particolare delle scienze umane (GS 44, 62). Essa deve perciò rivolgersi agli «esperti del mondo, siano essi credenti o non credenti» (GS 44).
Per questo «la teologia concepita come lettura dei ‘segni dei tempi’ registra una mutazione epistemologica nei rapporti tra teoria e pratica».[8] Tale mutazione appare con evidenza nel confronto con il metodo deduttivo della teologia scolastica, ma, a giudizio di molti, essa non è giunta ancora a compimento nella teologia cattolica.[9]
Il fine della lettura dei segni dei tempi è indicato dal Concilio con formule diverse: la possibilità da parte della chiesa di «rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presenta e futura e sul loro reciproco rapporto» (GS 4, EV 1,1324); una maggiore conoscenza delle «intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell’uomo» per intravedere «soluzioni pienamente umane» ai problemi del mondo (GS 11, EV 1,1352); una più profonda penetrazione della rivelazione e una più efficace sua presentazione: «perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venire presentata in forma più adatta» (GS 44, EV 1, 1461). In una parola, il fine è il compimento della missione ecclesiale nel mondo.
ERMEMENUTICA DEI SEGNI
Il fondamento dell’esistenza e della possibile lettura dei segni dei tempi è la legge dell’incarnazione. Essa indica la modalità specifica dell’azione divina. La Parola di Dio non irrompe dal di fuori sulla storia degli uomini, ma la fermenta dal di dentro, là dove viene accolta. Per cui l’emergenza della Parola nella storia fa fiorire nell’umanità qualità inedite di vita. La storia non è la materia occasionale che serve alla vita spirituale, è l’ambito dove il dono è offerto e dove la vita fiorisce. L’incarnazione del Verbo in Cristo perciò non è solo un vertice della storia ma indica una legge costante della storia salvifica: «L’incarnazione di Dio, infatti, di cui essa costituisce ad un tempo il segno e il mistero, non si è attuata una volta per tutte in un angolo della Giudea; essa dura sempre, vale sempre, vale ovunque, e tutto ciò che dovesse sfuggire al suo potere nell’uomo e, tramite l’uomo, in questo mondo disteso e magnifico, ricadrebbe a sua miseria; la redenzione del mondo sarebbe pertanto mancata».[10] L’esercizio della fede in Cristo è l’ambito e la condizione della lettura dei segni da parte della chiesa, dato che «in definitiva il vero segno dei tempi è Cristo stesso».[11] Se, infatti, la legge dell’incarnazione è il fondamento di una possibile teologia dei segni dei tempi ne consegue che l’evento Gesù di Nazaret, in cui l’incarnazione ha il momento di compimento, debba essere il suo riferimento obbligato. In Lui in modo particolare, acquista senso l’intreccio tra il negativo e il positivo della storia dato che Cristo, «l’escluso è ormai l’indizio della presenza» [12] di Dio.
Il negativo della storia
Anche intesi in senso strettamente teologico i segni dei tempi non appaiono sempre positivi e perfetti, perché essi emergono sempre e solo attraverso le creature, e quindi in forma limitata e imperfetta. Spesso poi si tende a leggerli con sensibilità provvidenzialistica e antropomorfica, come se essi fossero l’indicazione esatta dell’orientamento che Dio stesso, con i suoi interventi, conferisce alla storia.[13]
Nella redazione del testo preparatorio Bernard Haering precisava: «il tempo è un segno e una voce, per la chiesa e per gli uomini, in quanto implica una presenza di Dio oppure, sfortunatamente, un’assenza di Dio, nonché un’invocazione più o meno consapevole dell’uomo a Dio e una voce più o meno manifesta di Dio all’uomo».[14]
Abitualmente oggi viene rilevato che la GS e la sua lettura negli anni immediatamente successivi risentivano fortemente dello slancio ottimistico di quegli anni e non sembravano tenere conto delle componenti negative della storia.[15]
Ciò avveniva in due direzioni: da una parte si interpretava la storia come un progressivo sviluppo della vita, del bene, della giustizia, della verità; dall’altra si attribuiva il negativo al peccato umano e quindi si contrapponevano i segni positivi di Dio ai segni negativi delle scelte umane. In realtà le cose sono molto più complesse. Sia perché l’azione divina non emerge mai in forma pura nella storia, dato che si esprime sempre e solo attraverso creature, sia perché gli eventi attraverso i quali l’azione divina si esplica sono segnati anche dall’idolatria e dai peccati degli uomini. Oggi, invece, «piuttosto di interpretare la storia in termini di compimento continuo, siamo molto più sensibili ai suoi contraccolpi, ai suoi fallimenti, alle sue contraddizioni, alla sua opacità. In una parola, alla fine del ventesimo secolo, facciamo un’esperienza più forte della violenza della storia».[16] Inoltre, mentre prima c’era una certa tendenza a considerare segni dei tempi gli eventi grandiosi ed estesi, oggi si è più consapevoli che l’azione divina suscita movimenti profondi che hanno sempre inizi appena avvertibili. Certamente l’azione di Dio dove è accolta, consente lo sviluppo del Regno, suscita cioè novità di vita, fa fiorire forme inedite di giustizia e di fraternità. Questi eventi, tuttavia, sintomi di Dio che viene, quasi mai sono al centro dell’interesse perché difficilmente visibili, e quando lo fossero, sarebbero disprezzati e contrastati, perché non sintonizzati con le mode correnti.
L’opposizione all’azione divina poi, può essere tanto radicale da caratterizzare un ambiente o una fase storica in modo completamente negativo. Nella storia umana, quindi, non esistono solo i segni della presenza di Dio o della sua azione, ma anche quelli della sua assenza, causata appunto dal rifiuto degli uomini e rilevabili all’occhio della fede come segni negativi. Alla luce dell’evento croce, dove un amore estremo redime un’ingiustizia somma e il reietto costituisce l’ambito dell’azione salvifica di Dio, è possibile capire in quale modo come la negatività della storia possa entrare nella storia salvifica, quale sfondo oscuro che rende possibile la lettura delle lievi ma efficaci tracce della presenza divina.
Gli eventi segnati dalla negatività, anche se non possono essere considerati segni dei tempi in senso proprio, perché non indicano l’azione dello Spirito o la venuta del Regno, tuttavia, per analogia e per contrapposizione, possono offrire anch’esse criteri per capire le esigenze del Regno e possono svolgere una funzione di rilievo nella lettura dei segni veri e propri, come uno sfondo nero consente di cogliere con maggiore evidenza piccoli barlumi di luce. Essi, inoltre, costituiscono per le comunità ecclesiali, sollecitazioni a ricercare risposte positive e adeguate ai bisogni del mondo, a cogliere le necessità dei poveri della terra. Una giustizia necessaria ma rifiutata, una pace possibile ma tradita, una fraternità richiesta dalle circostanze storiche ma impedita dal potere, diventano segni di una presenza negata, di un’offerta respinta, di una parola inascoltata. Vi è però una differenza notevole tra i segni della presenza e quelli dell’assenza. Questi ultimi infatti non possono suggerire indicazioni concrete di cammino, né rivelare il progetto divino. Mostrano però l’esigenza di guardare altrove e di cercare ancora. Solo dove l’azione di Dio è accolta ed espressa sorgono positivi «segni della presenza o del disegno di Dio» (GS 11).
In questo senso credo fondata un’osservazione di José Comblin, anche se espressa in modo dura. Egli ricorda che i segni dei tempi a cui il Concilio secondo le parole di Gesù (Mt. 16, 3) avrebbe dovuto riferirsi «erano i segni della lotta della liberazione degli oppressi in quell’epoca. Dovevano mostrare dove stava Cristo e dove stavano i suoi avversari e dove si situava la lotta. Dovevano mostrare dove stavano i poveri, gli esclusi, gli oppressi e dove stava il movimento di liberazione del Regno di Dio. Una piccola minoranza sapeva che doveva essere così. Ma l’immensa maggioranza non sapeva nemmeno di che si trattava. Avevano una visione esclusivamente religiosa del cristianesimo e non avevano compreso il vangelo. Per questo tra essi predominò una visione ottimistica, ideologica del mondo, la visione della borghesia dell’Europa occidentale».[17]
NOTE
[1] Il Vaticano II usa la formula segni dei tempi in GS 4, PO 9, AA 14, UR 4, ma il concetto è ripreso anche con altre parole anche in GS 11, 44, 62 e altrove.
[2] Giovanni XXIII nella Pacem in terris indicava la condizione dei lavoratori e della donna, il processo di decolonizzazione e il dramma della potenza atomica come segni ai quali prestare attenzione. Erano in sostanza le grida, urlate o silenziose, dei poveri e in genere dei non-potenti sia a livello locale che universale. Oggi tali segni sono molto più complessi, e il grido dell’umanità debole è ben più ampio e profondo.
[3] «L’evento cristologico apre allora la possibilità che ogni evento umano brilli di luce messianica. La storia dello Spirito che il Cristo ha inviato ai suoi discepoli, ma che percorre in maniera misterioso la storia tutta, deve essere interpretata come storia della conversione, per cui le vicende umane vengono ‘introdotte alla verità’ e diventano segni dei tempi»: Ruggieri G., La teologia dei segni dei tempi: acquisizione e compiti in ATI, Teologia e storia: l’eredità del novecento, S. Paolo, Cinisello Balsamo 2002 p. 67; «una teologia dei segni dei tempi si traduce in un’ermeneutica della storia sotto il segno della speranza messianica, che sa cioè della venuta del Messia e della connotazione messianica della storia» (p. 3). Cf anche Ruggieri G., Ritrovare il Concilio, Einaudi Torino 2012 pp. 61-67.
[4] Roberto Mancini per illustrare i segni dei tempi in prospettiva antropologica presenta un sintetico quadro del mondo, ma distingue con chiarezza le tendenze sociali dai segni dei tempi: «A uno sguardo d’insieme, la fase attuale del cammino dell’umanità appare stretta tra il vortice della globalizzazione e l’incubo dell’Impero. Da un lato, infatti, l’avvento del capitalismo globale ha acuito le iniquità nella distribuzione dei beni della terra, ha reso strutturalmente proficue le disparità geopolitiche nella tutela dei diritti umani, ha eretto il conflitto a finalità essenziale della società, ha diffuso l’illusione di un’unificazione dell’umanità per merito degli automatismi del mercato, ha aggravato la crisi ecologica», I segni dei tempi: prospettiva antropologica in SAE Leggere i segni dei tempi. Europa, culture, religioni, Ancora, Milano 2004 p. 90. A proposito dell’Europa egli scrive: «l’Europa, come sappiamo, sembra perennemente incapace di sciogliere l’ambiguità per cui, per un verso, esalta la democrazia e i diritti umani, differenziandosi dalla forma imperialista dell’Occidente, quella rappresentata dagli Stati Uniti; per altro verso, l’Europa resta un continente insediato nel privilegio, nell’indifferenza alla vita dei poveri, nell’ostilità alle persone immigrate, nel perdurante sessismo, nella violazione degli equilibri del mondo naturale. Tutto questo è noto e l’ipocrisia dell’Europa è stata denunciata molte volte. Nella mia relazione non insisterò direttamente su questo punto, che resta peraltro quello decisivo, ma, per così dire, sulle patologie spirituali e però anche sul flusso delle energie culturali positive che possono portare a una vera svolta» ib p. 91. Egli però precisa che «Leggere i segni dei tempi non è prevedere l’avvenire, ma entrare ora nel presente di Dio e nel presente dell’umano che matura come discendenza di Dio stesso» (ib. p. 92). Cf anche nello stesso volume Ruggieri G., I segni dei tempi: una prospettiva teologica, pp. 40-55 in particolare p. 43.
[5] Chenu M-D, Les signes des temps, in Peuple de Dieu dans le monde, Foi vivante, Paris 1966 p. 52. Post scriptum aggiunto nel 1966 all’articolo pubblicato l’anno precedente in NRT.
[6] Claude Geffré scrive: «se all’interno del popolo di Dio i teologi hanno un carisma proprio, ciò dipende dal fatto che hanno la vocazione privilegiata di procedere alla lettura dei segni dei tempi», Teologia dell’incarnazione e teologia dei segni dei tempi nell’opera del P. M.-D. Chenu, in AA.VV., Cammino e visione. Universalità e regionalità della teologia nel XX secolo. Scritti in onore di Rosino Gibellini, Queriniana Brescia 1996 p. 49. Egli tra l’altro rileva «una notevole continuità tra la teologia dell’incarnazione di Chenu e la teologia dei segni dei tempi del Vaticano II» ib., p. 50.
[7] Potremmo dire con Ruggieri che è una luce messianica: «Un segno dei tempi non innalza muri tra un fatto e gli altri, ma, a partire dal fatto assurto a segno dei tempi, permette di leggere anche gli altri fatti, pone tutta la storia sotto la luce messianica» Ruggieri G., Segni dei tempi: una prospettiva teologica in SAE, Leggere i segni dei tempi o. c., p. 45.
[8] Geffré Cl., Teologia dell’incarnazione e teologia dei segni dei tempi, in o. c., p. 50.
[9] Questo punto costituisce, secondo Erick Borgman, «il vero ‘futuro mancato’ di Gaudium et spes», Concilim 4/2005 a. c., p. 74. Egli scrive: «È la questione di una epistemologia teologica contemporanea: in quale modo noi leggiamo i segni dei tempi «alla luce del vangelo » (GS 4)? E quale è il ruolo di questi segni, e quale quello del Vangelo?» ib.
[10] Chenu M. D., Nuova dimensione della cristianità in La Parole de Dieu 2, Cerf, Paris 1964 p. 89.
[11] Geffrè Cl., in o. c., p. 55. Anche G. Ruggieri a proposito di un fondamento adeguato per un'ermeneutica dei segni dei tempi osserva: «A me sembra chiaro che... fondamento non possa che essere l'evento cristologico. Ricordiamo che l'espressione 'segni dei tempi', nell'unico brano neotestamentario in cui ricorre, Mt 16,3, sta a indicare i segni del tempo messianico, cioè le parole e i gesti di Gesù di Nazaret… In qualche modo l'unico segno dei tempi è Cristo stesso… In lui av/viene il regno, egli è quindi il segno dei tempi tanto atteso, perché in lui Dio raggiunge a accoglie già ogni uomo, in primo luogo ciò che era perduto, il peccatore», La teologia dei segni dei tempi: acquisizione e compiti in ATI, Teologia e storia: l’eredità del novecento, S. Paolo, Cinisello Balsamo 2002, pp. 56s. e 61.
[12] Duquoc Ch., La dislocazione della questione dell’identità di Dio e il problema della sua localizzazione, in Concilium 4/1992, p. 22.
[13] Il rischio di antropomorfismo e di provvidenzialismo era già stato rilevato da Paul Valadier negli anni ‘70 sulla rivista dei gesuiti francesi Études (Signes des tempes, signes de Dieu, agosto settembre 1971 pp. 261-279) e poco dopo Claude Geffré ha denunciato un ottimismo rozzo nei confronti della storia e una visione antropomorfica dell’azione divina «come se egli fosse più impegnato in certi avvenimenti», Le cristianisme au risque de l’interprétation, Cerf, Paris 1983 p. 197; altrove si è chiesto «se in funzione della coscienza storica attuale, non siamo invitati a gettare uno sguardo molto più critico su questa famosa teologia dei segni dei tempi» Teologia dell’incarnazione e teologia dei segni dei tempi, in o. c. p. 50. Anche Ruggieri considera la concezione provvidenzialistica della storia «inaccettabile all’uomo secolarizzato» e ricorda che «immaginare che sia Dio stesso a muovere direttamente la storia, attore fra gli altri attori, è un’illazione ingenua» Segni dei tempi: una prospettiva teologica in SAE, Leggere i segni dei tempi o. c., p. 46.
[14] Sottocommissione ‘segni dei tempi’ citata da Ruggieri G., Ritrovare il Concilio, Einaudi, Torino 2012 p. 64.
[15] Cf Ratzinger J., Rapporto sulla fede. Un dialogo con Vittorio Messori, S. Paolo, Cinisello Balsamo 1984. Qui Ratzinger prosegue la linea del suo saggio (in AA. VV., Zen Jahre Vaticanum II) nel quale critica la Costituzione pastorale «per il suo ottimismo nel progresso… e riconduce tutti i mali dell’epoca postconciliare alla ricezione selettiva e arbitraria della costituzione pastorale (e della riforma liturgica)» (Pech Otto H., Il Concilio Vaticano II. Preistoria, svolgimento, risultati, storia post-conciliare, (BTC 131), Queriniana, Brescia 2005 p. 371) «Il denominatore comune consiste nella tesi che alla chiesa non abbia fatto bene lasciar entrare al suo interno quei ‘tempi moderni’ che già di per sé erano entrati in crisi» (ib. p. 413).
[16] Geffré Cl., Teologia dell’incarnazione e teologia dei segni dei tempi nell’opera del P. M.-D. Chenu, in o. c. pp. 51-52.
[17] Comblin J., I segni dei tempi, in Concilium 4/2005 Vaticano II. Un futuro dimenticato?, pp. 96-111 qui p. 111.