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    Etty Hillesum

    Come una cometa

    Maria Luisa Eguez


    NASCITA DI UNA STELLA

    Un triangolo nello spazio: Deventer, Amsterdam, Westerbork. Un triangolo nel tempo: 1941-1942-1943. Due triangoli intrecciati tra di loro formano un maghen Dawid, lo «scudo di Davide», la stella gialla simbolo dell'ebraismo, resa tristemente famosa dalla Shoah.
    Dietro il marchio Jude una giovane donna ebrea: Esther Hillesum, chiamata dagli amici Etty.
    Il nome Esther significa «stella» e, nel libro della Bibbia che porta il suo nome, Esther è la regina che condivide la sorte del suo popolo minacciato di strage nel V secolo a.C. in Persia. Anche Etty, ventiquattro secoli dopo, si lascerà portare da questa stella a condividere la sorte della sua gente all'ombra delle ciminiere di Auschwitz. Le sorti di Hitler, il «malvagio Aman» (Est 7,6) del momento, saranno rovesciate due anni più tardi; lo sterminio del XX secolo dell'era volgare non sarà scongiurato come quello persiano e la stella cometa di Etty sarà inghiottita dalla notte più buia della storia dell'umanità.
    Ma le comete non scompaiono per sempre e al momento opportuno tornano a brillare nel cielo come dita puntate a indicare un cammino e una meta. La storia di Etty, affidata agli undici quaderni fittamente vergati del suo diario personale, verrà pubblicata solo nel 1981 e fatta conoscere in tutto il mondo.
    Suo padre, Levi (detto Louis) Hillesum, era un professore olandese di lettere classiche. Sua madre, Rebecca (detta Riva) Bernstein, era una russa scappata ad Amsterdam, vestita da soldato, a seguito di un pogrom [1]
    Etty aveva due fratelli più piccoli: Jacob detto Jaap, talento scientifico che a soli diciassette anni scoprirà un nuovo tipo di vitamina, e Michael detto Mischa, precoce e altrettanto geniale pianista.
    La famiglia Hillesum è un classico esempio di ebrei appartenenti alla piccola-media borghesia europea, completamente assimilati alla cultura occidentale: non osservava lo shabbat né tanto meno la kasherut [2].
    Laureato in lettere classiche, il padre Louis è la tipica figura dello studioso chiuso nella propria torre d'avorio, fatta non di presunzione ma soprattutto di timidezza. Il professor Hillesum era diventato preside del ginnasio di Deventer nel 1928 e quando, nel 1940, i nazisti applicano le leggi razziali, che allontanano gli ebrei da qualsiasi pubblico incarico, proferisce un discorso di commiato, diventato celebre, in cui cita una frase di Geert Groote [3]: «Prima di ogni altra cosa mi sembra giusto che rimaniate nella gioia spirituale» [4]. Quanto il padre è mite, remissivo, introverso, tanto la madre Rebecca è autoritaria, ostinata, estroversa.
    Etty nasce a Middelburg il 15 gennaio 1914, sei mesi prima dello scoppio della Prima guerra mondiale; a dieci anni si trasferisce con la sua famiglia a Deventer, dove al padre era appena stata assegnata una cattedra nel ginnasio di cui diventò poi il dirigente scolastico.
    Dotata anche lei di un'intelligenza molto brillante e di un'innata tendenza alla speculazione filosofica, segue il corso di laurea in legge all'università di Amsterdam e poi sempre lì si iscrive alla facoltà di lingue slave, ma deve interrompere gli studi per lo scoppio del secondo conflitto mondiale. Avendo però nel frattempo completato il seminario di russo (la lingua materna) può già cominciare a insegnare all'università popolare.

    IN ESPLORAZIONE DEL MONDO

    La passione di Etty, come si vedrà dai suoi diari, è l'introspezione, che la conduce a interessarsi molto alla psicologia. È una giovane molto attiva che si pone la questione del ruolo femminile nella società, si sente sentimentalmente e sessualmente una donna libera, ma è anche pervasa nell'intimo dall'inquietudine che deriva dalla ricerca del senso più profondo della vita. Non si accontenta di sé e delle sue potenzialità: ha fame e sete di verità, bellezza, amore profondo.
    Ad Amsterdam va a vivere da ragazza alla pari nella casa di un anziano vedovo, Han Wegerif, di cui diventa ben presto l'amante. Poi conosce uno psicoterapeuta tedesco, Julius Spier, allievo di Jung e fondatore della psicochirologia [5]: anche con lui, che ha più di cinquant'anni, passa in breve dal ruolo di paziente a quello di segretaria-amante. Angosciata dagli eventi di persecuzione nazista e dal timore di trasmettere per via ereditaria a un figlio i problemi psichiatrici dei suoi fratelli («genio e follia», avrebbe decretato Cesare Lombroso [6]), arriverà anche a un'interruzione volontaria di gravidanza, ma non per questo la grazia si ritirerà da lei, né cesserà di condurla verso l'incontro totalizzante con il divino.
    I diari che riportano con grande lucidità lo scavo interiore di Etty in quel travagliato periodo si estendono da domenica 9 marzo 1941 a lunedì 12 ottobre 1942. L'invasione teutonica dei Paesi Bassi era cominciata venerdì 10 maggio 1940 e l'occupazione durò sino alla capitolazione di venerdì 4 maggio 1945. I nazisti consideravano i fiamminghi degli ariani e molti di essi condivisero in effetti la visione razziale del Terzo Reich collaborando attivamente con i tedeschi, tant'è vero che degli ebrei presenti sul territorio olandese ne furono sterminati circa tre quarti, una percentuale inferiore soltanto a quella dell'eccidio polacco [7].

    IN GINOCCHIO

    Nel profondo di se stessa Etty si sente come imprigionata in un gomitolo aggrovigliato e scrive: «Con tutta la mia chiarezza di pensiero a volte non sono altro che un povero diavolo impaurito» [8]. E poi, riflettendo su un verso del poeta olandese Albert Verwey, commenta: «Anch'io vorrei rotolare melodiosamente dalla mano di Dio» [9].
    Dio è presente dalla prima all'ultima pagina scritta da Etty: è una ricerca non convenzionale della sua presenza nella propria vita, nell'umanità, nel creato. E la domenica successiva scriverà: «Ho accettato con gioia la bellezza di questo mondo di Dio, malgrado tutto (...). Ora vivo e respiro con la mia anima» [10].
    Alla luce di Dio, Etty prende consapevolezza della propria vita e del fatto che, in definitiva, tutte le avventure e le relazioni che ha avuto l'hanno resa solo terribilmente infelice lacerandola nel profondo dell'anima. E questo la porta a cercare sempre di più il contatto con il divino, che la solleva e la riempie di serenità: «Stamattina mi sono proprio guadagnata questa gioia interiore, ho dovuto lottare contro l'irrequietezza del mio cuore che batteva all'impazzata» [11]. Ogni minuto per lei si è riempito di vita e di nuove esperienze interiori; non mancano le lotte e le cadute, pertanto scrive che le è indifferente se riuscirà o meno a produrre qualcosa di straordinario, ma la vita vale la pena di viverla istante per istante, nell'hic et nunc, nel «qui e ora».
    Per un po' Etty non annota niente sul suo diario, che poi riprende a scrivere l'8 maggio 1941:
    «Non ho avuto bisogno di questo quaderno per un paio di mesi, la vita dentro di me era così limpida e serena e intensa, ero in contatto col mondo esterno come con quello interno, la mia vita si arricchiva, la mia personalità si ampliava; a Leiden c'era il contatto con gli studenti: Wil, Aimé, Jan; c'era lo studio; c'era la Bibbia, Jung, e poi di nuovo S. e sempre ancora S.». [12]
    Con quella semplice «S.» Etty designa il dottor Julius Spier: è lui che con ogni probabilità le ha suggerito di tenere un diario, è lui che l'aiuta a guardare e scavare dentro se stessa, eppure questo «rapporto singolare e non esplicito con S.» le crea anche dei problemi interiori.
    Mentre in tutta Europa infuria la guerra e il cuore di Etty combatte le sue lotte, lei scrive che l'unica cosa possibile è di offrirsi umilmente come campo di battaglia: «A volte sono come un campo di battaglia insanguinato e poi lo pago con un gran sfinimento e con un forte mal di testa» [13]. E un combattimento che prosegue anche nei mesi successivi:
    È quasi una irrequietezza «sacra». Mio Dio, prendimi nella tua grande mano e fammi tuo strumento (...). Mi sono resa conto che non si può spiegare l'essere umano con nessuna formula psicologica: solo l'artista è in grado di rendere ciò che resta d'irrazionale nell'uomo [14].
    Etty pensa con nostalgia a Deventer, il luogo della sua infanzia e prima giovinezza, a cui fa spesso ritorno in visita ai genitori; alle giornate trascorse là, che paragona a «grandi pianure illuminate dal sole». «Ogni giornata era un tutto ininterrotto, mi sentivo in contatto con Dio e con tutti gli uomini», scrive. «Qui [ad Amsterdam], invece, (...) la grande pianura è sparita e così pure Dio, e se andrà avanti di questo passo io rimetterò tutto in questione» [15]. È la lotta spirituale, la notte di Giacobbe (cfr. Gen 32,25-32).
    Etty spesso si paragona a un bidone della spazzatura, si sente sudicia, vanitosa, insicura, schiacciata da un forte senso d'inferiorità. Eppure si riconosce anche corretta, desiderosa di trasparenza, amante dell'armonia. «A volte vorrei essere nella cella di un convento (...) con la vista che spazia su campi di grano (...). Lì vorrei sprofondarmi nei secoli, e in me stessa (...)» [16], ma capisce subito che quel sentimento nasce da un bisogno di evasione, di fuga, mentre la realtà la chiama a essere una presenza attiva e responsabile proprio lì dove si trova, lì dove deve cercare quella chiarezza, quell'armonia e quella stabilità che desidera trovare.
    Si paragona a «un vecchio ebreo che avanza avvolto in una nuvola» [17]. È la saggezza della sua cultura, delle sue radici che l'accompagna. La nuvola che avvolge l'ebreo errante nel suo forzato vagabondare è l'identità che si è appoggiata per millenni sulle promesse di un Dio invisibile, sulla sua Parola bisbigliata. È la nube a forma di colonna che ha coperto e scortato Israele nel deserto (cfr. Es 13,21-22).
    Racconta di sé come a un vecchio amico e conclude che, in fondo, le piacciono tutte quante le creature di Dio. Dice di percepire dentro di sé una sorgente molto profonda, in cui coglie la presenza di Dio: «A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta da pietre e sabbia: allora Dio è sepolto» [18]. E occorre dissotterrarlo. Etty visualizza due immagini di persone che cercano Dio: ci sono quelle che pregano con gli occhi rivolti al cielo, perché cercano Dio fuori di sé, e quelle che piegano il capo celandolo fra le mani, perché cercano Dio dentro di sé. Lei si sente di appartenere soprattutto a queste ultime.
    Passano ancora mesi in cui Etty si confronta con il suo diario intimo. Il 24 ottobre 1941 esce un'altra ordinanza contro gli ebrei e lei concede a se stessa soltanto una mezz'ora di ansia e depressione.
    Verso la fine di novembre, pedalando nel buio e nel freddo della notte inoltrata, Etty rivolge a Dio questa preghiera: «Prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza» [19]. Gli promette di accettare tutto, il meglio possibile. Gli chiede solo qualche tregua e s'impegna in un muto patto con lui: «Dovunque mi troverò, io cercherò d'irraggiare un po' di quell'amore, di quel vero amore per gli uomini che mi porto dentro». A volte sente di desiderare l'isolamento di un chiostro, ma sa che il suo dovere è quello di restare nella compagnia degli uomini – per usare un'espressione cara a fratel Enzo Bianchi –, nel mondo. Ed è un mondo, quello di un'ebrea in mezzo alla Shoah, che è impossibile pensare peggiore,
    La preghiera prende sempre più spazio nelle giornate di Etty e di volta in volta la plasma:
    «Di nuovo m'inginocchio sul ruvido tappeto di cocco, con le mani che coprono il viso, e prego: Signore, fammi vivere di un unico, grande sentimento. Fa' che io compia amorevolmente le mille piccole azioni di ogni giorno, e insieme riconduci tutte queste piccole azioni a un unico centro, a un profondo sentimento di disponibilità e di amore. Allora quel che farò, o il luogo in cui mi troverò, non avrà più molta importanza» [20].
    Più tardi si definirà come una ragazza che non riusciva a inginocchiarsi, poiché è un gesto, questo, che non le apparteneva per cultura e formazione, ma a cui giungerà alla fine con naturalezza, in quel processo di spoliazione e scavo interiore che ne connota la personalità.
    Il 1941 volge verso il termine, mentre Etty continua il suo dialogo interiore con Dio ringraziandolo incessantemente per quella vastità di cui si sente ricolmata. Sulle pagine del suo diario continua a fermare i dettagli della sua intimità con il divino e racconta, con innocente spontaneità, d'essersi all'improvviso ritrovata in ginocchio nel mezzo della sua stanza, in un gesto spontaneo, spinta a terra da qualcosa più forte di lei. Un gesto intimo, «di cui pure non si può parlare se non si è poeti», scrive.
    È inevitabile che Etty si ritrovi ormai sempre più lontana interiormente dal suo rapporto con Julius Spier: non desidera più perdersi per una persona ma solo per Dio, o per la poesia, che alla fine è suono divino, parola creatrice che in lui ha la propria fonte.
    Trascorre lento il freddo inverno 1941-1942: guerra, gelo, fame, paura attanagliano gli animi.
    Il 19 febbraio 1942 Etty percepisce, nell'aula dove dà lezione, un grande sconforto per tutti i drammatici risvolti della guerra, ma riesce a cogliere anche uno spiraglio di luce da un'inaspettata conversazione con l'amico Jan Bool, mentre stanno attraversando la stretta via Langebrugsteeg, nel centro storico di Amsterdam.
    Jan le aveva rivolto un'amara domanda: «Cosa spinge l'uomo a distruggere gli altri?». E lei gli aveva risposto: «Ricordati che sei un uomo anche tu». Lui le aveva dato ragione. «Il marciume che c'è negli altri c'è anche in noi», insisteva Etty. «Non vedo nessun'altra soluzione (...) che quella di raccoglierci in noi stessi e strappar via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi. È l'unica lezione di questa guerra: dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove». Il quadro era desolante: i loro professori arrestati, un altro amico di Jan ammazzato, ma loro dicevano l'un l'altro: «Sono così a buon prezzo, quei sentimenti di vendetta» [21].
    Quasi una settimana dopo, di mattina, Etty apre a caso la Bibbia senza però trovarvi per sé una risposta. È in procinto di presentarsi con Julius Spier alla Gestapo, ma s'accorge quasi con stupore di non provare paura e di trovare, nonostante tutto, tanto bella la vita. La sua non è una forma di temerarietà, ma la consapevolezza di avere comunque sempre a che fare con degli esseri umani, di cui tenterà di capire ogni manifestazione.
    Nell'ufficio della Gestapo un giovane poliziotto si mette a urlare contro di lei, ma Etty non riesce a sdegnarsi nei suoi confronti; anzi, ne prova una gran pena. Arriva quasi a giustificarlo, imputando il sistema che porta questo tipo di persone a diventare criminale. Ed è sempre più convinta che, quando si parla di sterminio, è solo il male nell'essere umano che deve essere sterminato, non l'uomo in quanto tale.
    Sono le parole dette da Dio per bocca del profeta Ezechiele: «Non godo della morte del malvagio, ma che il malvagio si converta dalla sua malvagità e viva» (Ez 33,11). È l'evangelico «amate i vostri nemici» (Mt 5,44) quello che Etty mette in pratica nei confronti di quel giovane nazista. Anche il rabbino tedesco Leo Baeck (1873-1956), dopo la sua liberazione dal campo di concentramento di Theresienstadt, scriverà una poesia intitolata Sia pace agli uomini di cattiva volontà, in cui invocherà la rinuncia a ogni sentimento di vendetta e il completo perdono dei nemici, nonostante l'evidente incommensurabilità delle atrocità da loro commesse.
    Etty è informata su cosa siano i lager, anche se quanto sta davvero accadendo nei campi di sterminio resta una realtà che oltrepassa qualsiasi immaginazione e il cui orrore verrà a galla nelle sue colossali proporzioni solo alla fine della guerra, ma è altrettanto convinta che, se si è vivi interiormente, non c'è poi così tanta differenza tra l'essere dentro o fuori un campo di concentramento.
    Dopo la guerra si saprà di insegnanti entrati con i loro alunni nelle camere a gas intonando il quarto versetto del Salmo 23, che per tradizione viene cantato durante lo shabbat: «Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vin-castro mi danno sicurezza».
    La primavera è ormai alle porte, Etty ne avverte tutta la dolcezza e scrive del suo grande e tenero trasporto amoroso verso questa stagione, proprio mentre la persecuzione nazionalsocialista si fa sempre più stringente ed Etty arriva a farci sopra dell'amara ironia: «Ogni misero gruppetto di due o tre alberi è dichiarato bosco e allora sulle piante è inchiodato un cartello con la scritta: vietato agli ebrei» [22]. Ma quello che i nazisti non possono impedire a nessuno, e quindi nemmeno a lei, è di pregare.
    Martedì 26 maggio 1942 racconterà del suo bisogno di ritirarsi in preghiera come nella cella di un convento, di raccogliersi in sé per trovare la forza necessaria e, rivolta a Dio, scriverà:
    «Certe volte non si riesce a capire e ad accettare ciò che i tuoi simili su questa terra si fanno l'un l'altro, in questi tempi scatenati. Ma non per questo io mi rinchiudo nella mia stanza, Dio: continuo a guardare le cose in faccia e non voglio fuggire dinanzi a nulla (...). Continuo a lodare la tua creazione, malgrado tutto!» [23]
    E sabato 30 maggio:
    «So quanto la gente è agitata, conosco il grande dolore umano che si accumula e si accumula, la persecuzione e l'oppressione, l'odio impotente e il sadismo: so che tutte queste cose esistono, e continuo a guardar bene in faccia ogni pezzetto di realtà nemica» [24].
    Eppure, quando si abbandona, sente di ritrovarsi «sul petto nudo della vita», circondata da un abbraccio amoroso e protettivo.
    A giugno arrivano altre restrizioni: gli ebrei non possono più possedere biciclette, prendere il tram, fare acquisti dai fruttivendoli, uscire di sera. Etty commenta che per umiliare qualcuno occorre essere in due: chi umilia e chi si lascia umiliare. Se non ci si lascia umiliare, allora l'umiliazione, semplicemente, non esiste. Esistono soltanto delle disposizioni fastidiose che interferiscono con la vita quotidiana, ma non c'è alcun senso d'angosciosa oppressione. Questo, secondo lei, è quello che devono imparare gli ebrei.
    Etty continua a trovare meravigliosa la vita e a sentirsi libera:
    «I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore (...). Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell'anno del Signore 1942, l'ennesimo anno di guerra» [25].
    Sa che la libertà interiore è possibile solo affrancandosi da ogni cosa materiale, da ogni condizionamento esterno, di modo che lo spirito possa continuare, in qualunque circostanza, il suo cammino verso l'Alto. Scagiona Dio, che non è responsabile verso gli uomini delle assurdità che sono loro stessi a commettere. Lei si sente già morta mille volte in mille campi di concentramento, eppure continua a trovare, a ogni istante, la vita così bella e carica di significato.
    Nella pagina del suo diario il 1° luglio Etty riporta una notizia tragicamente vera sulle reali proporzioni del genocidio in atto in Polonia, ma vi aggiunge anche una nota molto significativa: di sera riceverà una ragazza cattolica con problemi personali. Il fatto di poter aiutare, come ebrea, un'altra persona non ebrea le dona una singolare sensazione di forza. E conclude: «Si può benissimo credere nei miracoli in questo ventesimo secolo. E io credo in Dio, anche se tra breve i pidocchi mi avranno divorata in Polonia» [26].
    Etty sa che sono tempi in cui sono richiesti il coraggio di soffrire da soli e la capacità di non pesare sugli altri con le proprie paure. Afferma di aver chiuso i conti con la vita, ma la sua non è certo rassegnazione, al contrario si tratta di un vivere la vita mille volte più intensamente, istante per istante, facendo nello stesso tempo spazio al dolore, non certo piccolo, nella sconfinata catastrofe della Shoah.
    Il dolore fa da sempre parte dell'esistenza umana, ma per Etty quel che conta è il modo in cui lo si affronta, se si riesce a integrarlo nella propria vita e, allo stesso tempo, riuscire ad accettarla ugualmente, la vita, malgrado tutto. Malgrado la fatica, la stanchezza, le difficoltà materiali che aumentano ogni giorno, gli stati d'animo che inevitabilmente si alternano, ma anche questo fa parte del vivere.
    Il 3 luglio 1942 Etty arriva all'estrema conclusione che i nazisti perseguono la «soluzione finale», l'annientamento completo del popolo ebraico; gli ebrei non possono più farsi alcuna illusione a riguardo. Ma lei continua a trovare la vita ugualmente bella e ricca di significato, anche se non ha quasi più il coraggio di dirlo quando si trova in compagnia di altre persone. Ha la percezione di se stessa come di una terra incolta su cui non cresce proprio niente, ma su cui si distende un cielo alto e sereno.
    Etty continua, in questo modo lucido, a guardare in faccia l'orribile fine del suo popolo, già cominciata in tanti piccoli fatti quotidiani, con la consapevolezza che ormai la possibilità di morire si è perfettamente integrata nella sua vita. Non solo, ma arriva anche alla considerazione che non tutti i tedeschi sono nazisti. Alcuni sono semplicemente soldati rimasti intrappolati nel loro ruolo. E ce ne sono anche di kasher, «perbene»; Etty se ne accorge e commenta che non ci sono confini tra gli uomini sofferenti, si soffre sempre, da una parte come dall'altra, perciò si deve pregare per tutti.
    Al Getsemani Gesù aveva detto ai suoi discepoli: «Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mt 26,41). Anche Etty è ormai spiritualmente forte pur nella debolezza della sua fragile costituzione. Vorrebbe vivere abbastanza a lungo da far capire questa possibilità interiore anche agli altri; ammette a se stessa che il proprio corpo è un ricettacolo di numerosi mali fisici con cui però ha ormai imparato a convivere. Scriverà poco più oltre:
    «Dovevo pur constatare oggettivamente: cara mia, non ce la farai. Il tuo corpo è del tutto privo di difese, e se tu fossi in un campo di lavoro, dovresti arrenderti dopo tre giorni (...). Per me personalmente non è grave – io mi sdraio per terra e mi arrendo e poi è finita, e con ciò loderò ancora Dio e la vita (...). Riconoscere le proprie debolezze non significa lamentarsene: questa sì che sarebbe una miseria (...). Mi coricherei, morirei, eppure non troverei ingiusta la vita» [27].
    Etty contempla «un barlume di eternità» che s'infiltra sempre di più nel suo modo di percepire la realtà esterna, nella sua maniera di compiere le più ordinarie azioni quotidiane. Non si sente sola con la propria stanchezza, i problemi di salute, lo sconforto per le difficoltà d'ogni giorno o il timore per il futuro, ma ha la consapevolezza di far parte di milioni di persone, vissute lungo tanti secoli; percepisce l'esistenza come un'unica realtà indissolubile e, se da un lato la vita si è fatta sempre più difficile e precaria, dall'altro è diventata più ricca, perché le pretese si sono ridotte, perché ciò che si riesce a ottenere diventa un dono provvidenziale, che riempie di gratitudine.
    Eppure Etty non si ritiene un'eroina e non ci tiene a dimostrarsi eroica. Non prova alcuna attrazione a presentarsi agli occhi degli aguzzini del suo popolo come una persona coraggiosa. Le basta, per sé, la propria forza interiore. Tutto il resto lo ritiene irrilevante.
    Etty si nutre della recita di qualche Salmo, della lettura della Bibbia e confessa:
    «Ho nell'anima tanta calma e dolcezza, e un senso di appagamento che riposa in Dio. Che forza primordiale vien fuori dall'Antico Testamento (...). Magnifiche figure, forti e poetiche, vivono in quelle pagine. Un libro davvero avvincente, aspro e tenero, ingenuo e saggio» [28].
    E così questa giovane donna impara sempre di più a crescere nell'abbandono:
    «Qualcuno mi potrebbe capire se dicessi che mi sento così stranamente felice, non in modo artificioso o altro, ma in tutta semplicità, perché mi sento crescere dentro dolcezza e fiducia, di giorno in giorno? Perché tutta la confusione, le minacce e i pesi non mi portano neanche per un momento all'alienazione mentale?» [29]
    È perché Etty percepisce nitidamente la vita in tutti i suoi aspetti, perché riesce a sopportare e accettare la realtà, perché è consapevole della grazia che ha sempre operato nella sua vita. Sa che vita e morte sono indissolubilmente legate fra di loro, pertanto morire «sarà uno scivolare dall'una nell'altra – anche se la fine potrà essere triste o persino orribile, nella sua forma esteriore» [30].

    UNA VITA PIENA DI SIGNIFICATO

    I provvedimenti contro gli ebrei si susseguono rapidamente spingendoli verso il vicolo cieco che terminerà nelle camere a gas. Etty commenta con ironia: «La prossima settimana, partenza all'una e mezza di notte; e il viaggio in treno sarà gratis, sì proprio gratis» [31].
    L'umorismo macabro non appartiene solo alle vittime ma anche a chi si è ritrovato a indossare una divisa da soldato tedesco suo malgrado; è il caso, riportato da Etty, di un austriaco già professore a Parigi, che prorompe in questa esclamazione: «In Germania ci sono più soldati uccisi dalla caserma che dal nemico» [32].
    Etty comincia a preparare mentalmente anche per sé la valigia: biancheria, cibo per tre giorni, Bibbia e, se possibile, il Breviario. Si sente pronta a tutto, ad andare dove il Signore vorrà mandarla a testimoniare che la vita è bella, piena di significato, e non è colpa di Dio, ma degli esseri umani, se sta succedendo tutto quello che sta succedendo, e allora «parole come Dio e Morte e Dolore e Eternità si devono dimenticare di nuovo. Si deve diventare un'altra volta così semplici e senza parole come il grano che cresce, o la pioggia che cade. Si deve semplicemente essere» [33].
    Commenta: «Ancora non ho trovato il tono giusto per spiegare questo mio sentimento intatto e gioioso, in cui sono compresi tutti i dolori e tutte le passioni» [34]. E si ripromette, se sopravvivrà, di scrivere su quegli anni storie brevi «come rade pennellate su un ampio, muto sfondo fatto di Dio, Vita, Morte, Dolore, Eternità» [35].
    La Hillesum, come Edith Stein e Simone Weil, si rende conto con molta chiarezza di partecipare, per usare le sue stesse parole, a «un destino di massa», pertanto non si tratta di cercare soluzioni individuali di scampo. A livello personale Etty si riserva una sola cosa: ritrovare se stessa nella preghiera. Sente che pregare le sarà sempre possibile, anche nello spazio più angusto, e scrive:
    «Dovrei impugnare questa sottile penna stilografica come se fosse un martello e le mie parole dovrebbero essere come tante martellate, per raccontare il nostro destino e un pezzo di storia com'è ora e non è mai stata in passato – non in questa forma totalitaria, organizzata per grandi masse, estesa all'Europa intera. Dovrà pur sopravvivere qualcuno che lo possa fare» [36].
    Nell'ora più buia della storia, Etty, come direbbe l'apostolo Paolo (cfr. 2Tim 4,7), combatte la sua buona battaglia e conserva la fede: «Se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio» [37]. Afferma convinta che, anche se le cose andranno male, lei continuerà ad accettare questa vita come bella e degna di essere vissuta. Più sopporta, più si sente capace di sopportazione e da questo le deriva una pace interiore talmente grande che lei arriva a percepirla come una gioia lieve, che la inonda quasi di letizia.
    Non è evasione, ma un percorso di ascesi costante, una preparazione consapevole alla separazione da tutti coloro che le sono cari. Gli amici la rimproverano per questa sua apparente passività, cercano in tutti i modi di indurla a pensare almeno a se stessa, a tentare con ogni mezzo di sfuggire ai tentacoli della Gestapo, ma la sua lapidaria risposta per loro è che lei non si sente proprio nelle grinfie di nessuno; e ancora:
    «Mi sento soltanto nelle braccia di Dio (...) e sia che ora io mi trovi qui, a questa scrivania terribilmente cara e familiare, o fra un mese in una nuda camera del ghetto o fors'anche in un campo di lavoro sorvegliato dalle SS, nelle braccia di Dio credo che mi sentirò sempre» [38].
    Etty si avverte solidamente piantata sulla terra più dura della realtà più dura, ma la sua – lo ribadisce – non è rassegnazione, infatti è ancora capace di sdegno per quanto si sta verificando, dal momento che gli eventi che stanno succedendo al suo popolo sono troppo grandi, frutto di dinamiche troppo diaboliche perché si possa contrapporre loro semplicemente un risentimento e un dispiacere individuali. E aggiunge con un pizzico d'ironia: «Mi sembra una curiosa sopravvalutazione di se stessi, quella di ritenersi troppo preziosi per condividere con gli altri un "destino di massa"» [39].
    A questo punto del suo diario Etty ci ha lasciato la pagina più nota, più letta, più tradotta, più amata fra tutte quelle da lei scritte. È la celebre Preghiera della domenica mattina:
    «Mio Dio, viviamo tempi di terrore (...). Ti voglio promettere una cosa, mio Dio, una piccola cosa: mi guarderò dal far pesare sul momento presente, come altrettanti fardelli, le preoccupazioni che suscita in me l'avvenire. Ma questo richiede un certo allenamento» [40].
    Non portarsi sulle spalle né il peso del passato né quello del futuro ma vivere intensamente solo il momento presente è un esercizio che riesce quasi impossibile alla maggioranza degli esseri umani, è prerogativa solo dei bambini e dei mistici ed è l'arte in cui pazientemente Etty si esercita.
    «Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L'unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l'unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio» [41].
    È la giustificazione del silenzio di Dio, con cui tutta la teologia dovrà fare i conti dopo Auschwitz, quella che Etty si trova davanti.
    «Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali, ma anch'esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all'ultimo la tua casa in noi» [42].
    Si racconta di un gruppo di rabbini ad Auschwitz che decisero di fare il processo a Dio per quanto stava succedendo lì. I fatti erano sotto gli occhi, e sulla carne, di tutti. Ci fu il dibattito: parlarono l'accusatore e il difensore dell'imputato. Fu emesso un verdetto di colpevolezza. E, subito dopo, il rabbino-giudice concluse: «Bene. E adesso andiamo, perché è l'ora di pregare». Questo è il rapporto dell'ebraismo con la giustizia di Dio.
    Etty guarda con tenera compassione quelle persone che non sanno distaccarsi dai propri beni materiali e sino all'ultimo momento si preoccupano ancora di salvare un aspirapolvere o l'argenteria di casa, piuttosto che preoccuparsi di mettere in salvo dentro di sé l'immagine di Dio. O altre, ormai ridotte soltanto a un mero involucro di incalcolabili angosce e sofferenze, che tentano a tutti i costi solo di salvare la propria pelle e che ripetono di continuo a se stesse: «Me, non mi prenderanno».
    «Comincio a sentirmi un po' più tranquilla, mio Dio, dopo questa conversazione con te. Discorrerò con te molto spesso, d'ora innanzi, e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi. Con me vivrai anche tempi magri, mio Dio, tempi scarsamente alimentati dalla mia povera fiducia; ma credimi, io continuerò a lavorare per te e ad esserti fedele e non ti caccerò via dal mio territorio» [43].
    Credere al di là di ogni apparenza, credere al di là di ogni speranza: è la fede arsa dal sole del deserto.
    «Per il dolore grande ed eroico ho abbastanza forza, mio Dio, ma sono piuttosto le mille piccole preoccupazioni quotidiane a saltarmi addosso e a mordermi come altrettanti parassiti. Be', allora mi gratto disperatamente per un po' e ripeto ogni giorno: (...) oggi non hai diritto di perdere neanche un atomo della tua energia in piccole preoccupazioni materiali. Usa e impiega bene ogni minuto di questa giornata, e rendila fruttuosa; fanne un'altra salda pietra su cui possa ancora reggersi il nostro povero e angoscioso futuro» [44]. Etty non perde mai il suo senso dell'umorismo e «si gratta» lo stress delle innumerevoli difficoltà quotidiane in continuo crescendo; ha davanti a sé i due martìri, quello di «spada» e quello di «spillo», come li definisce santa Teresa di Lisieux. Non le saranno risparmiati né l'uno né l'altro. Etty infatti, come quasi tutti gli altri ebrei sottoposti alle infami leggi di Norimberga del 1935 sulla razza, dovrà affrontare nella vita quotidiana disagi di ogni tipo: malattie, intemperie, fatiche fisiche debilitanti, tensioni snervanti, umiliazioni (gli spilli), ma arriverà al martirio vero e proprio (la spada).
    Questo non le impedirà però di accorgersi del gelsomino sul retro della casa tutto danneggiato dai temporali di quei giorni, i cui fiori bianchi galleggiano sparsi su cupe pozzanghere. Scrive appassionatamente:
    «Ma da qualche parte dentro di me esso continua a fiorire indisturbato, esuberante e tenero come sempre, e spande il suo profumo tutt'intorno alla tua casa, mio Dio. (...) Vedi come ti tratto bene. Non ti porto soltanto le mie lacrime e le mie paure, ma ti porto persino, in questa domenica mattina grigia e tempestosa, un gelsomino profumato. Ti porterò tutti i fiori che incontro sul mio cammino, e sono veramente tanti. Voglio che tu stia bene con me. (...) Se io mi trovassi rinchiusa in una cella stretta e vedessi passare una nuvola davanti alla piccola inferriata, allora ti porterei quella nuvola, mio Dio, sempre che ne abbia ancora la forza. Non posso garantirti niente a priori, ma le mie intenzioni sono ottime, lo vedi bene (...)» [45].

    A WESTERBORK

    Su insistenza del fratello Jaap, Etty presenta domanda di assunzione come dattilografa allo Joodse Raad, il Consiglio Ebraico olandese, di Amsterdam, sezione «Assistenza alle partenze». E il 16 luglio 1942 prende contatto con questa nuova realtà.
    L'impatto con l'angoscia mortale che si legge sui volti di chi sta per essere internato nel campo di Westerbork è comunque molto duro, anche se Etty continua a sperare di poter essere come un'oasi di serenità in tutta quella bolgia infernale. Westerbork era nato nel 1939 come centro di raccolta per i rifugiati ebrei in fuga dall'espansione nazista. Con l'occupazione dei Paesi Bassi da parte dell'esercito tedesco era invece diventato un campo di prigionia, in cui transitavano gli ebrei diretti ai campi di sterminio.
    Domenica 19 luglio commenta: «Sono una dei tuoi eletti, mio Dio, perché mi concedi di prendere tanta parte a questa vita, e perché mi hai dato abbastanza forza per sopportare tutto quanto» [46].
    Elezione è una parola chiave nella storia d'Israele. Gli eletti sono coloro che sono chiamati a testimoniare l'Unico davanti al mondo, a testimoniarlo fino al martirio, difatti «martire» in greco vuol dire nient'altro che «testimone». Lo stesso nome Israele significa «colui che lotta con Dio». L'elezione è una pesante croce da portare a favore degli altri. Eppure Etty lunedì 20 luglio osa ancora scrivere che, per quanto possa sembrare incomprensibile, lei continua a trovare bella la vita e a sentirsi felice. E due giorni dopo annota:
    «Sono riconoscente di non provare nessun odio o amarezza, ma di avere una così gran calma che non è rassegnazione (...). Io seguo la mia via interiore, che diventa sempre più semplice ed è lastricata di benevolenza e di fiducia» [47].
    Nei giorni successivi Etty continua il suo colloquio con il Creatore attraverso le pagine del suo diario. Osserva come nella propria vita ci sia ancora così tanto posto per così tante cose e come l'unico atto dignitoso rimasto a un essere umano in tempi talmente bui sia quello d'inginocchiarsi davanti al suo Dio. Nota all'interno di sé un silenzio sempre più profondo e il 28 scrive: «Lascerò a te le tue decisioni, mio Dio (...). Ci sono dei momenti in cui mi sento come un uccellino nascosto in una grande mano protettiva» [48].
    Lavorare per il Consiglio Ebraico significa innanzitutto, agli occhi di chi non ne fa parte, mettersi abbastanza al sicuro dal pericolo di entrare a far parte delle liste dei deportati nei campi di lavoro prima e «ad oriente» poi, cioè nei campi di sterminio, ma non è certo questa temporanea sicurezza che Etty vuole per sé e, quando il Consiglio apre una sezione nel campo numero cinque di Westerbork, lei chiede di esservi trasferita.
    Il 30 luglio 1942 Etty comincia dunque a lavorare ai servizi sociali di Westerbork, dove gode di una certa libertà che le consente di avere contatti con l'esterno, di mantenere una corrispondenza con vari amici e di poter tornare qualche volta ad Amsterdam, dove sarà anche ricoverata in ospedale per un calcolo biliare.
    Per tutto agosto e per la prima metà di settembre il diario di Etty tace; oppure, forse, il diario era redatto su pagine che non ci sono pervenute; solo un unico piccolo cenno: «D'un tratto mi rendo conto di aver vissuto così intensamente, in due mesi ho consumato le riserve di una vita intera» [49].
    Il 15 settembre muore per un tumore al polmone Julius Spier e la Hillesum, che si trova in quel momento nella capitale, può partecipare al funerale dell'uomo da lei amato. In quello stesso giorno si rivolge al Signore in questo modo:
    «Ti sono così riconoscente perché hai scelto proprio il mio cuore, di questi tempi, per fargli sopportare tutto quanto (...). Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di te, mio Dio. (...) Dalle tue mani accetto tutto come viene, mio Dio. So che è sempre un bene» [50].
    Rivolgendosi all'anima immortale di Julius Spier usa toni delicatissimi: gli ricorda che ha «letto» la vita di lui sino all'ultima pagina e questo la consola, tutto il bello e il buono che c'è stato nel loro amore le fa provare una gioia particolare, la lascia più forte e sicura di prima. Scrive:
    «Sei diventato talmente parte del cielo che s'incurva sopra di me, che mi basta alzare gli occhi per esserti accanto (...). Tutto è così semplice, sai, straordinariamente semplice e bello e ricco di significato (...). Sei tu che hai liberato le mie forze, tu che mi hai insegnato a pronunciare con naturalezza il nome di Dio» [51].
    Il giorno dopo, quello del funerale di Julius, Etty scrive: «Continuerò a vivere con quella parte dell'uomo morto che vive in eterno e risveglierò alla vita ciò ch'è morto nei vivi e così non ci sarà nient'altro che vita, un'unica grande vita, mio Dio» [52].
    Etty partecipa intensamente al fiume di sofferenza nel quale è immersa a Westerbork, ma non se ne lascia travolgere annegandovi. Paragona il proprio cuore a una chiusa (un'immagine così tipicamente olandese), il cui compito è quello di trattenere un fluire incessante di sofferenza. Ringrazia il Signore per le persone che riversano su di lei le loro pene, lo benedice perché le permette di alleviarle almeno un po'; gli ripete, in piena consapevolezza, che non è sufficiente parlare agli altri di lui, non basta disseppellirlo nei cuori delle persone, ma bisogna aprirgli la strada. Gli esprime gratitudine per il dono di poter leggere nei cuori degli altri, che sono per lei come case con la porta aperta e promette al Signore di cercare di recuperargli sempre un posto, un rifugio nel cuore degli altri. E commenta: «In fondo è una buffa immagine: io mi metto in cammino e cerco un tetto per te» [53].
    Dopo due mesi dietro al filo spinato di Westerbork, Etty definisce questo periodo come il più intenso e il più ricco della sua vita, tanto da provare addirittura nostalgia per il campo, ogni volta che se ne allontana, ed esprime la sua riconoscenza a Dio perché ovunque le rende la vita così bella: «Si è a casa sotto il cielo. Si è a casa dovunque su questa terra, se si porta tutto in noi stessi» [54]. Constata, con semplicità, che a Westerbork il suo spirito, invece di farsi più cupo, è diventato più chiaro e splendente.
    Etty, in questo periodo di tenebre in cui i sentimenti più elementari sono l'odio e il desiderio di vendetta, si interroga sul perdono. Capisce che non si può perdonare agli altri se non si è perdonato a se stessi i propri difetti, i propri limiti, i propri errori. Sa che perdonare tutto questo significa prima di tutto accettarlo, accettarsi. E per perdonarsi occorre un'estrema generosità. Pensa che ognuno di noi abbia sempre ancora così tanto lavoro da compiere su se stesso, che non dovremmo ma giungere al punto di odiare i nostri cosiddetti nemici. Ma giustifica anche tutte le meschinità che vede commettere dagli internati sotto i suoi occhi perché dettate da una grande paura.
    Ne parla pure con Klaas Smelik senior, suo compagno di lavoro, affermando:
    «Ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancor più inospitale» [55].
    Klaas, sconcertato, le contesta che questo sarebbe cristianesimo ed Etty, divertita, gli risponde: «Perché no?». Lei rimane ebrea, solidale con il suo popolo, ma comprende il messaggio dell'ebreo Gesù, perché è un messaggio, anzi «il» messaggio universale ebraico giunto alla sua piena esplicitazione. In Gen 12,3, la vocazione del monoteismo all'universalismo si esprime appunto in quello che dice il Signore ad Abramo: «In te si diranno benedette tutte le genti».
    Etty sente in sé un istinto che oltrepassa ogni confine politico, etnico, religioso, e che riesce a scoprire un'etica di base comune nelle diverse creature in lotta fra di loro su tutta la terra: è la legge noachide, composta da quegli imperativi morali che, secondo i rabbini, furono dati da Dio già a Noè e che anticipano nel contenuto i Dieci comandamenti [56]. Mediante Noè essi furono dati a tutto il genere umano, sono quindi inscritti nel cuore di ogni uomo e verso di essi tende la missione universalistica dell'alleanza abramitica (cfr. Gen 12,3).
    Etty ha scoperto ormai in sé quello che Blaise Pascal definiva le jardin secret e altri, nella mistica, hanno chiamato turris eburnea o hortus conclusus: quello spazio profondo che non è evasione dal mondo ma territorio interiore di contatto permanente con l'infinito ed eterno, nel quale trovare riparo per poi riemergere ogni volta più forti e pacificati nel mondo e per il mondo. E la caverna marina dove, vinto il Leviatàn che ne ostruiva l'ingresso (cfr. Is 27, 1), si può attingere a piene mani dal tesoro là nascosto.
    Etty è consapevole che ogni giorno porta in sé una nuova ricchezza e ringrazia il Signore perché le concede un cuore in grado da dilatarsi così tanto da poterla accogliere tutta. Annota:
    «Tutte le parole ed espressioni adoperate sinora mi sembrano grigie, pallide e scolorite, se paragonate all'intensa gioia di vivere, all'amore e alla forza che si sprigionano ora da me (...). So che esiste un'altra vita. Credo persino che certe persone siano in grado di vederla e di viverla anticipatamente. Quello è un mondo in cui gli eterni sussurri mistici si sono fatti viva realtà» [57].
    Di Westerbork Etty sa vedere il volto ormai inaccessibile ai più: il profilo al chiaro di luna della baracca, che la rende intessuta d'argento e d'eternità, come se fosse un piccolo giocattolo caduto dalla mano svagata di Dio, oppure la bellezza di un campo dorato di lupini. In altre parole, nell'incanto d'ogni piccolo dettaglio della creazione vede lo splendore divino che l'ha generato e prega il Signore di donarle ogni giorno la musicalità profonda di un solo piccolo verso, di modo che, anche se non potrà sempre scriverlo perché non avrà più carta e perché mancherà la luce, lei possa ripeterlo piano, alla sera, verso l'infinita vastità del cielo. Scriverà poi: «In me non c'è un poeta, in me c'è un pezzetto di Dio che potrebbe farsi poesia» [58].
    Etty è una sorgente di forza per chi le sta intorno perché lei si disseta alle sorgenti divine e trova il proprio riposo nella preghiera. Sa, invece,
    che è soprattutto la paura di dilapidare le proprie energie a sottrarre alle persone la loro vitalità. Il 29 settembre 1943 Etty scrive:
    «Non ci si deve lasciar contagiare dalle innumerevoli paure e preoccupazioni meschine, che sono altrettante mozioni di sfiducia nei confronti di Dio (...). Il nostro unico dovere morale è quello di dissodare in noi stessi vaste aree di tranquillità (...) fintanto che si sia in grado d'irraggiarla anche sugli altri. E più pace ci sarà nelle persone, più pace ci sarà in questo mondo agitato (...). Si può «lavorare» alla propria pace interiore» [59].
    Lavorarci, ma come? Etty si risponde spontaneamente il giorno successivo:
    «Il mio "fare" consisterà nell'"essere" (...). Non posso più disperdermi come sabbia al vento (...). Credo di vedere sempre meglio gli abissi che inghiottono le forze creative e la gioia di vivere dell'uomo (...), queste buche sono nella nostra stessa anima» [60].
    Ogni giornata intanto diventa sempre più difficile da vivere: aumentano le restrizioni, le SS, il filo spinato. Come per gli altri «ospiti» del campo, si inaspriscono anche per Etty i problemi fisici: dopo il mal di denti, i problemi di fegato e le vesciche ai piedi, sopraggiungono un'ulcera gastrica, le vertigini, l'anemia, la debilitazione, l'insonnia. Eppure lei continua a combattere per la sua «comunità», come definisce gli ebrei imprigionati a Westerbork: «Non voglio essere una foglia malata e avvizzita che si stacca dal tronco della comunità» [61].
    Nella notte vigila ascoltando il respiro affannoso o il pianto sommesso delle internate e allora si autodefinisce «il cuore pensante della baracca». Nel Primo Testamento, la Bibbia ebraica, il cuore è la sede del pensiero e vi leggiamo che, quando il Signore chiese a Salomone cosa volesse da lui come dono prima di iniziare a regnare su Israele, il giovane sovrano gli domandò un lev shomea' , un cuore ascoltante, un cuore capace di ascolto nei confronti di Dio e degli uomini (cfr. 1Re 3,5-14). Questo cuore che veglia, che presta attenzione, che medita e intercede, Etty ce l'ha: ha un cuore sapiente come re Salomone. Arriva a poter dire con assoluta trasparenza: «Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l'ho distribuito agli uomini (...). Erano così affamati» [62]. È ormai un'anima oblativa.
    In seguito a una retata, compiuta fra il 20 e il 21 giugno del 1943 vengono portati a Westerbork i genitori di Etty e suo fratello Mischa. Nei mesi precedenti Etty aveva ancora potuto recar-si nella capitale, dove invano gli amici avevano cercato di convincerla a nascondersi e fuggire, ma lei aveva affidato a un'amica, Maria Tuinzing, gli undici quaderni del suo diario [63], chiedendole di darli allo scrittore Klaas Smelik junior per pubblicarli dopo la guerra, qualora lei non fosse più ritornata; e così il 6 giugno era rientrata a Westerbork.

    LA PARTENZA

    I primi di luglio del 1943 i tedeschi pongono fine allo statuto speciale del Consiglio Ebraico di Westerbork e decretano che metà dei suoi componenti deve tornarsene ad Amsterdam, mentre la metà che rimarrà perderà ogni libertà di movimento.
    Etty chiede di restare.
    Il 3 luglio comunica con una lettera ai suoi amici che entro pochi giorni sarebbe diventata ufficialmente «residente nel campo». Non fa loro mistero della situazione: nelle grandi baracche i prigionieri vivono come topi in una fogna e si vedono molti bambini che lentamente si consumano. L'igiene è il problema più grave nel campo, dove si diffondono in modo epidemico le malattie, mentre la fame mina le difese immunitarie. Il numero dei deportati in Polonia ha ormai superato le diecimila persone.
    Per Mischa Hillesum c'è una speranza che si chiama Barneveld: qui vengono internati gli ebrei che possono vantare «meriti speciali» e lui è un giovane talento musicale già noto; ma Mischa non vuol separarsi dai suoi genitori e chiede che
    anch'essi possano andare con lui. La domanda viene respinta. Rebecca Hillesum scrive allora una lettera a Hans Rauter, capo delle SS nei Paesi Bassi, il cui risultato è un ordine di deportazione immediata per l'intera famiglia.
    Il 7 settembre 1943 gli Hillesum vengono fatti salire su un treno diretto ad Auschwitz.
    L'amico di Etty Jopie Vleeschouwer scrive il giorno stesso una lettera ai vecchi coinquilini di Etty ad Amsterdam narrando l'accaduto. Racconta che i genitori e Mischa sono saliti sul primo vagone, Etty sul dodicesimo. Mani protese per l'estremo saluto e poi il fischio della locomotrice.
    Durante il viaggio Etty riuscirà a gettare un biglietto indirizzato all'amica Christine van Nooten che verrà ritrovato lungo la linea ferroviaria e spedito a destinazione. È l'ultimo messaggio di Etty, che dice:
    «Christine, apro la Bibbia a caso e trovo questo: Il Signore è la mia Camera alta. Sono seduta sul mio zaino, al centro di un vagone merci stipato. Papà, mamma e Mischa sono qualche vagone più in là. Questa partenza è arrivata all'improvviso. Ordine giunto dall'Aia, specialmente per noi. Abbiamo lasciato il campo cantando» [64].
    I suoi genitori moriranno dopo qualche giorno: non si sa se durante il viaggio o selezionati all'arrivo.
    La cometa di Esther Hillesum, detta Etty, s'inabisserà fra le ciminiere del campo di sterminio di Auschwitz il 30 novembre 1943. Tornerà a brillare sul mondo nel 1981 quando i suoi diari verranno pubblicati e da allora saranno una scia di luce puntata verso l'alto dei cieli.
    Mischa resterà in vita sino al 31 marzo 1944.
    Jaap non era stato portato ad Auschwitz con il resto della famiglia solo perché in quel momento si trovava ancora ad Amsterdam. Arriverà nel campo di concentramento di Westerbork alla fine di settembre del 1943 e nel febbraio del 1944 sarà deportato nel lager tedesco di Bergen-Belsen. Durante l'evacuazione nazista di questo campo, sarà tra i prigionieri liberati dai russi nell'aprile del 1945, ma non sopravvivrà al viaggio e morirà probabilmente vittima, come tanti altri nello stesso treno, di un'epidemia di tifo.


    NOTE

    1 I pogrom sono i massacri attuati contro gli ebrei nella Russia zarista tra fine Ottocento e inizio Novecento.
    2 L'insieme delle norme di adeguatezza soprattutto del cibo (e, di conseguenza, della macellazione degli animali) ma anche del vestiario o altro rispetto alle norme dettate dalla Bibbia.
    3 Mistico di Deventer (1340-1384), latinizzato in Gherardus Magnus. Dotato di una grandissima cultura, si ritirò nella Certosa di Arnhem, da dove promosse e propagò il movimento spirituale della devotio moderna. Ordinato diacono nel 1377, predicò contro il clero simoniaco e concubinario.
    4 P. Lebeau, Etty Hillesum, p. 14.
    5 Analisi della personalità attraverso lo studio delle mani.
    6 Cesare Lombroso (1835-1909), medico militare alla campagna contro il brigantaggio, antropologo, sociologo e giurista ebreo, padre della scienza denominata antropologia criminale.
    7 In Polonia fu sterminato quasi il 90% della popolazione ebraica; in Italia invece il numero delle vittime della Shoah è percentualmente fra i più bassi d'Europa (18,64%).
    8 E. Hillesum, Diario. 1941-1943, Adelphi, Cles (TN) 1997, p. 24; 9 marzo 1941.
    9 Albert Verwey (1865-1937), poeta e saggista, fu professore di letteratura nederlandese all'Università di Leida; E. Hillesum, Diario. 1941-1943, p. 28.
    10 E. Hillesum, Diario. 1941-1943, pp. 33, 35.
    11 lbid., p. 37, 21 marzo 1941.
    12 Ibid., pp. 45-46.
    13 Ibid., p. 49, 9 maggio 1941.
    14 Ibid., p. 50, 4 luglio 1941.
    15 Ibid.
    16 p. 53, 4 agosto 1941.
    17 p. 59, 23 agosto 1941.
    18 Ibid., p. 60, 26 agosto 1941.
    19 Ibid., p. 74.
    20 Ibid., p. 82.
    21 Ibid., p. 100.
    22 Ibid., p. 107.
    23 Ibid., p. 113.
    24 Ibid., p. 114.
    25 Ibid., p. 127.
    26 Ibid. , p. 136.
    27 lbid., pp. 145-146.
    28 Ibid., p. 149.
    29 Ibid., p. 153.
    30 Ibid., p. 153.
    31 Ibid., p. 156.
    32 Ibid., p. 157.
    33 Ibid., p. 160.
    34 Ibid., p. 161.
    35 Ibid.
    36 Ibid., pp. 162-163.
    37 Ibid., p. 163.
    38 Ibid., p. 167.
    39 Ibid., p. 168.
    40 Cfr. Mt 6,34; P. Lebeau, Etty Hillesum, p. 121.
    41 E. Hillesum, Diario. 1941-1943, p. 169.
    42 Ibid.
    43 Ibid., p. 170.
    44 Ibid.
    45 Ibid., pp. 170-171.
    46 Ibid., p. 178.
    47 pp. 181-182.
    48 Ibid., pp. 189-190.
    49 Ibid., p. 194.
    50 Ibid., pp. 194-195.
    51 Ibid. , p. 196.
    52 Ibid. , p. 200.
    53 Ibid., p. 202.
    54 Ibid., p. 206.
    55 Ibid., p. 212.
    56 Si tratta di sette precetti, due dei quali sono esplicitamente affermati nella conclusione del passo del diluvio universale: la proibizione di mangiare carne di animali vivi e il divieto di uccidere (cfr. Gen 9,4). Gli altri cinque sono dedotti dall'etica genesiaca: la proibizione dell'idolatria, di adulterio, di bestemmia, di furto e l'obbligo di applicare la giustizia.
    57 Ibid., p. 218.
    58 Ibid. , p. 230.
    59 Ibid., p. 221.
    60 Ibid., pp. 222-223.
    61 Ibid., p. 231.
    62 Ibid., p. 238.
    63 Il settimo andrà perduto.
    64 P. Lebeau, Etty Hillesum, pp. 243-244.

    (FONTE: Partorite dal Padre. Storie di donne eccezionali del Novecento: Gabrielle Bossis, Madeleine Debrêl, Etty Hillesum, Simone Weil), Paoline 2018, pp. 81-124.


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