Giovani nel digitale
Esercizi di discernimento /5
«Figli&Genitori
connessi.
Internet ridefinisce
l’educare»
Giacomo Ruggeri
Social formato famiglia
Quando entri in un centro commerciale comprendi subito i cosiddetti “prodotti civetta” (quelli per far attirare le persone all’acquisto): la maggior parte di essi sono rivolti alle famiglie. Dai detersivi ai biscotti, dai pannolini alla pasta, dal sapone… allo smartphone.
Il cellulare è diventato un bene di consumo formato famiglia. Se in passato erano pochissimi a possederlo, oggi sono pochissimi quelli che non l’hanno. I genitori hanno bisogno del cellulare per motivi (dicono) di lavoro; papà e mamma non possono non avere il cellulare per le esigenze quotidiane (quali!). I figli chiedono ai genitori di comperare loro il cellulare per i seguenti motivi:
“guarda, che a scuola ce l’hanno tutti”;
“la prof.ssa ha detto che in altri Paesi europei il cellulare sta sostituendo il libro”;
“le mie amiche mi chiedono perché ho un modello così vecchio e loro ultra moderno”;
“i miei amici hanno messo da parte i soldi di numerose paghette per averlo”;
“siamo nel futuro papà, non vorrai mica lasciarmi nel passato senza il cellulare”;
“senza il cellulare non mi han fatto entrare nel gruppo di amici”.
L’elenco può andare avanti all’infinito e trovare tante altre espressioni di “presunta necessità”. Sta di fatto che il cellulare è il figlio aggiunto in una famiglia. Ogni componente della famiglia si prende cura del cellulare perché questi si prenda cura di loro, lo gratifica, lo fa sentire meglio, lo consola, gli dice che va tutto bene anche quando le cose non vanno (e se qualcosa non va un motivo ci sarà).
Tra il “si” e il “no”: il patto di sperimentazione
Ricordo quando ero giovanissimo vice parroco nella mia prima parrocchia di servizio sacerdotale (1994), la bella storia di una famiglia con numerosi figli. I genitori avevano fatto la scelta di non avere la televisione in casa, adducendo motivi validi e che non facevano una piega. Nel giro di qualche settimana i primi due figli - che andavano alle scuole elementari - ogni giorno ritornavano con una nozione televisiva in più presa in prestito dai loro compagni. Sapevano a memoria tutte le sigle dei cartoni animati di allora, come si evolvevano le puntate, nomi e soprannomi dei protagonisti, ecc.
La televisione era entrata in casa direttamente con i figli. Ricordo che dopo un paio d’anni gli stessi genitori mi comunicarono che avevano acquistato una televisione, con la scelta di guardare alcuni programmi assieme ai loro figli. È fuori discussione che i “si” e i “no” servono, sono la pasta cementante in un rapporto educativo unitamente alla motivazione che sta alla base. Eppure, anche la stessa motivazione che fonda un “si” e un “no” detto, può essere insufficiente. La motivazione ha bisogno del vissuto, della polvere, del sudore, della strada, dell’esperienza quotidiana, delle cadute e delle riprese, degli slanci e delle frenate.
Un figlio arriverà a capire (forse) il perché di una cosa, quando ne fa esperienza diretta (anche pagandone in prima persona, incluso lo sbatterci la testa). Se tutto ciò si può evitare, tanto di guadagnato; ma a volte non basta. Penso alle tante raccomandazioni (fondamentali) che un genitore dà al figlio e alla figlia in merito all’uso/abuso dello smartphone e sono immediatamente ritrattate e contrattate quando si trovano in una dinamica di gruppo alla pari tra adolescenti. È difficile trovare «la» formula educativa nella relazione genitori-figli in merito al cellulare nel tempo attuale. Siamo nel campo e nel tempo della sperimentazione: chi sperimenta vissuti buoni e percorribili è bene condividerli, farli conoscere. Non tutto può andar bene a tutti, ma perlomeno si percorrono sentieri concreti.
Se queste frasi circolano in casa…
Se per il 18enne la macchina rappresenta l’inizio dell’indipendenza e dell’autonomia, per il 13enne lo smartphone è indice di quella che definisco «nano-indipendenza» sempre più anticipata e precoce. Le nanotecnologie, dette che con parole da inesperto della materia, lavorano con materiali estremamente microscopici per poter dar vita a strumenti infinitamente ancor più ridotti e compatti. È già realtà avere 0.5 mm di titanio sotto la pelle (zona polso) con il quale posso fare pagamenti, aprire porte automatizzate, prenotare un volo, arrivare al gate senza dovere far la fila, ecc.
Ogni genitore dice (spero) al proprio figlio neo patentato: “quando arriva la multa, la paghi tu”; “se rovini la macchina, paghi i danni di tasca propria”; “la macchina non è fatta per far baldoria con gli amici come se fosse una stalla”, ecc. Nel consegnare in mano il primo smartphone al figlio e alla figlia un genitore dice (o spero che dica): “se fai stupidaggini ci dovrai mettere la faccia perché mamma e papà non ti coprono per i tuoi errori”; “se posti un video sulla rete e nei social commettendo un reato penale, farai esperienza di cosa significhi il prezzo delle stupidaggini o di un gioco finito male”; “il tuo corpo è prezioso, un dono e non lo svendi-vendi sui social per avere tanti like, follower e ricariche di telefono gratis”.
Quando la cronaca quotidiana ci restituisce tristi episodi di genitori che malmenano gli insegnanti per un rimprovero dato al figlio, per un voto positivo negato facendogli rovinare la media, per aver detto allo studente di spegnere il telefono durante la lezione, ecc. mi domando: che genitori e insegnanti hanno avuto questi genitori? Eppure a volte, come dicevo sopra, non è sufficiente nemmeno avere avuto una buona dritta iniziale, perché successive amicizie, storie, conoscenze, esperienze al limite, vissute lungo la vita, possono dirottare verso comportamenti impensabili. Un genitore mette al mondo un figlio e poi lo consegna alla vita al meglio di quanto può e come può. Un genitore consegna al figlio lo smartphone ben consapevole che in esso c’è un bosco fitto e folto di relazioni sulle quale può fare ben poco. Qui, entrano in gioco intelligenza e stupidità del figlio e della figlia. Intelligenza e stupidità nei social vanno a braccetto: la prima ha l’occhio vigile che valuta; la seconda ha l’occhio cieco che preme il piede sull’acceleratore.
Ho dato a mia figlia il cellulare per sapere…
Se a tua figlia consegni il cellulare agendo sotto mentite spoglie, sappi che – prima o poi – la pagherai cara. E il prezzo è la fiducia. Se a mia figlia do delle motivazioni nel darle il suo primo cellulare e alle mamme delle sue amiche ne do altre, il rapporto è già malato. Usare il cellulare come investigatore privato h24 nel rapporto genitore-figlio/a è molto pericoloso. Se il genitore si lascia guidare dalla paura (chi sono gli amici di mia figlia, chi frequenta, con chi chatta, di chi è questa foto su Instagram e WhatsApp, ecc.) la relazione educativa è già rotolata giù per il dirupo. Internet e i social hanno ridefinito la voce del verbo educare. Basta affacciarsi sulla porta dell’oratorio, nelle Messe di Prime Comunioni e Cresime per vedere giovani genitori con figli giovanissimi, al punto da non riconoscere se sono tra loro sorelle (mamma e figlia)! Questi giovani genitori sono cresciuti anche loro in fretta, respirando un clima di indipendenza. È frequente trovare generazioni di giovani genitori altamente permissivi con i loro figli, a mo’ di rivincita/riscatto/semi-vendetta nell’aver avuto un padre rigido e una madre esigente. Educare è stato sempre difficile. Oggi ancor di più, perché le dinamiche digitali hanno spaccato gli argini dell’educare e del crescere nel recinto di casa (di una volta).
Mamma, papà, fratello/sorella, smartphone, internet
Ecco i membri della famiglia di oggi. Se a educare sono in primis dei genitori, a dare una forma sono tanti altri soggetti, specie il mondo digitale dello smartphone. Un genitore sa che non può (e non deve) venire meno nei contenuti, nei princìpi, nei valori fondanti. Lo dice, lo ridice, lo ribadisce, spesso lo ricorda con toni forti e di punizione. Un genitore, però, sa (ed è bene che ne sia consapevole) che la sua parola educativa arriva sulla soglia della responsabilità che il figlio e la figlia decidono di esercitare. All’inizio è una «responsabilità di risposta-tappo»: “si, mamma, tranquilla, non ti preoccupare (tradotto, non stressarmi)”. Poi, nel tempo c’è una «responsabilità di scottatura»: “ho fatto una cavolata, papà, scusa; e me lo avevi pure detto…”, ha sperimentato che in determinate relazioni ci si fa male. In alcuni casi estremi si arriva alla «responsabilità di non-ritorno»: farsi molto male con l’obiettivo di far del male ai genitori e alle persone loro vicine. A volte il figlio e la figlia non possono più raccontarlo, perché si sono tolti la vita.
Sono in forte aumento i genitori che riescono a parlare in forma intima e profonda con i propri figli solo passando per smartphone e social. Lo schermo scherma, come spesso dico. Nell’era educativa ante cellulare erano ridotte le possibilità di fuga: o si parlava o si usciva di casa sbattendo la porta (sapendo che a sera si era costretti a rientrare per mangiare e dormire). I social network sono la moltiplicazione di infiniti collegamenti arrivando, per assurdo, a scomparire, a non farsi più trovare. Perdersi, volutamente, nella rete.
Conosco (davvero) mio figlio, mia figlia?
Un genitore, nel tempo attuale, arriva a questo paradosso molto reale: in casa ho un figlio che conosco (o così mi pare) e nei social ho un figlio totalmente diverso da quello che conoscevo (o pensavo di conoscere). Le dinamiche digitali facilitano e alimentano l’attivarsi di vite parallele e clandestine. Nei social sono un certo di tipo di ragazza e di ragazzo, a casa un'altra/o (quello che vogliono i miei genitori). Mi strutturo, come figlio, in base alle relazioni che intreccio e che desidero coltivare.
Se, dunque, questo è il criterio adottato, è facile pensare che proprio internet e i social mi offrono su un piatto d’argento la possibilità di essere il figlio e la figlia senza regole, a briglie sciolte, sentendo tutto il potere di fare quello che voglio, come lo voglio, con chi lo voglio senza sentirmi giudicato/a.
Nulla e niente, però, è perduto. Se ho usato toni forti e reali – per una sana consapevolezza –
è anche vero che quello che ricevo e ricerco da una relazione digitale, non potrà mai essere dello stesso sapore e spessore che un genitore consegna e riceve, in una feconda reciprocità con i figli. Ogni cellulare ha una sua vita breve, poi lo cambi con uno nuovo. Una relazione genitore-figli non si sostituisce, si trasforma. A volte può spezzarsi e ferirsi, ma la vita trova sempre il suo percorso, dove germogliare e portare frutto.
In definitiva: se internet e i social ridefiniscono l’educare, ovvero, il venire fuori anche in modo inedito (rispetto al passato) come persone che maturano nel corso della vita è altresì vero che la vera maturazione della relazione genitore-figlio si gioca nel terreno del vissuto concreto, dell’esperienza a presa diretta. Non di foto postate e selfie in real time, ma di stare a sedere l’uno di fronte all’altro sentendo il respiro, vedendo il volto dal vivo, prendere e lasciarsi prendere per mano, stringerla per contatto di ciccia e non per connessione di fibra. E dire grazie. Lo smartphone, questo, (ancora), non lo fa.