NPG: una pastorale giovanile
attenta ai processi educativi
Juan E. Vecchi
(NPG 1992-01-12)
Le riviste di «pastorale giovanile» sono poche sia in Italia che in altri Paesi. Molte riviste infatti trattano il tema giovanile, ma lo fanno da una prospettiva settoriale anche se significativa: catechesi, orientamento vocazionale, formazione cristiana all'interno di un particolare movimento ecclesiale. Pur collocandosi nel campo giovanile, l'asse di riflessione risulta diverso.
In fatto di libri il panorama è migliore, ma non di molto. Abbondano quelli che si riferiscono alla pastorale in generale, a cui si aggiunge un capitolo a parte sui giovani. In questo si intravede già un'impostazione e una metodologia di elaborazione. Non mancano nemmeno opere che mettono a fuoco alcuni temi che sono determinanti nel lavoro coi giovani. Ma non intendono pronunciarsi sull'insieme delle proposte e interventi rivolti ai giovani da parte della comunità cristiana.
UNA COLLOCAZIONE ORIGINALE
Ciò non significa che manchi una prassi di pastorale giovanile. Questo risulta più evidente se si guarda alla chiesa universale piuttosto che ad un'area particolare. Neppure significa che la prassi non sia stata accompagnata da una riflessione teologica o che questa non abbia raggiunto ancora delle conclusioni accettabili; soprattutto se si considera riflessione teologica non soltanto quella, certamente preziosa, che fanno «le scuole» o gli specialisti, ma anche quella che sviluppano gli operatori e le chiese attraverso i loro documenti-guida. Ne va di mezzo il rapporto tra prassi ecclesiale e teologia pastorale. Forse il concetto medesimo di pastorale giovanile ha bisogno di ulteriore approfondimento. Da non pochi l'aggettivo o genitivo (giovanile, dei giovani) viene annesso al sostantivo pastorale senza onore né incidenza: un capitolo di applicazione, senza differenze sostanziali, all'interno di un trattato generale, l'indicazione «materiale» di un'area o campo di lavoro. Anzi potrebbe pure essere ambiguo in quanto portatore di un giovanilismo che finisce per attribuire protagonismi ad una porzione della comunità o concepisce il soggetto cristiano come diviso in categorie diverse e, nei peggiori dei casi, contrapposte. Sul versante teoretico l'ambiguità nascerebbe dalla pretesa, dichiarata o nascosta, di modificare lo statuto della pastorale, attribuendo un'importanza indebita alla vita dei giovani.
«Note di pastorale giovanile» assume una prospettiva ampia: si interessa di tutto quello che la chiesa mette in opera per la salvezza dei giovani, segue le diverse proposte e ne valuta le impostazioni, le mette in dialogo e dialoga con esse, mediante un proprio progetto; ma si caratterizza soprattutto perché prende sul serio i due termini, pastorale e giovanile, ciascuno secondo la sua valenza, per creare tra essi una relazione nuova e illuminante attraverso una ricomprensione continua. E da questo intendimento iniziale, che giovanile non si riduca ad un «aggettivo» ma diventi un'indicazione di contenuti, prende avvio la sua laboriosa ricerca e il suo orientamento fino ad oggi.
Questa sensibilità viene dal retroterra della rivista. Essa infatti si rifà ad un'esperienza pastorale, quella di Don Bosco, che ha dovuto fare i conti con grossi fenomeni di «vita» dei giovani, di fronte ai quali si erano battute in ritirata le forme tradizionali dell'«iniziazione» cristiana, divenute incomprensibili. Il destinatario «tipo» non era colui che doveva «imparare» le verità e la pratica della fede, ma chi doveva essere ancora interpellato da essa per coglierne il significato.
L'ISPIRAZIONE
Allo «stato nascente» l'esperienza di Don Bosco è segnata da un'intuizione, non certamente nuova nella chiesa, ma colta ed espressa con originalità: in ogni giovane esistono e interagiscono in forma sorgiva tre energie, spinte o pulsioni: la ragione, il senso religioso, l'amore. Non sono le classiche «facoltà» e nemmeno quelli che oggi vengono chiamati «bisogni» giovanili. Sono caratteristiche strutturali dell'esistenza umana. Esprimono allo stesso tempo un'urgenza, una domanda, un'energia, e un'apertura dell'essere. Qualcuno ha fatto la correlazione con i tre dinamismi della vita soprannaturale: speranza, fede, carità. L'ordine in cui Don Bosco le enuncia può essere casuale, o dettato dal gusto letterario. Ma ha anche risonanze giovanili e suggerisce sfumature metodologiche. Il cammino di crescita umana e di fede è possibile quando nel giovane si accende la speranza, anche soltanto naturale. Comunque le tre energie suddette si permeano e compenetrano a vicenda.
Il «sistema preventivo»
Per esplicitare i riflessi che questa intuizione di partenza ha sull'educatore-pastore, sulle proposte, sulla struttura educativa si sono spesi non pochi volumi. Il linguaggio salesiano li include tutti nell'espressione «sistema preventivo». Di esso si afferma che è una «sintesi di contenuti e metodi, di processi di promozione umana e, insieme, di annuncio evangelico e approfondimento della vita cristiana» (Capitolo generale dei Salesiani = CG 21, n. 80). Non è dunque puro metodo pedagogico per far passare contenuti né sola catechesi. «È insieme pedagogia, pastorale e spiritualità»; associa in un'unica esperienza adulti (come singoli e comunità) e giovani, contenuti e metodi, con atteggiamenti e comportamenti nettamente caratterizzanti (cf ib 96). Non sfugge in questi testi la preoccupazione di sottolineare l'unità e i comportamenti con cui vengono trattati i diversi aspetti di un processo educativo. Si mette a fuoco che l'originalità e la ricchezza ispirante dell'esperienza non si trova nei singoli elementi, ma nella sintesi. Alla base c'è una radicale fiducia nell'uomo, la cui fonte ultima è essenzialmente religiosa: è confessione che a partire dalla morte e risurrezione di Gesù, lo Spirito Santo anima nell'umanità, pur dentro una congenita fragilità ed esperienza di peccato, una risposta positiva al disegno di salvezza di Dio.
Questa fiducia riguarda in particolare il giovane e si accende nell'incontro con lui: qualunque sia la sua situazione attuale, ci sono in lui risorse che, convenientemente risvegliate, possono far scattare l'energia per costruirsi. Bisogna allora valorizzare tutto ciò che di positivo il giovane porta come storia personale. La fiducia nell'uomo si estende anche a ciò che l'umanità ha prodotto nel tempo, sospinta verso il suo compimento, particolarmente dopo l'innesto divino che è avvenuto con Cristo: la cultura, la società, lo sforzo di umanizzazione, la comunità cristiana e la sua storia. Quello che, dal punto di vista umano, è «buono», etico, sociale e si trova nell'esperienza del giovane è collegato misteriosamente ad una fede germinale. Infatti nella storia e nella cultura, anche tra tante contraddizioni, affiorano anticipazioni del Regno di Dio. La «memoria salesiana» ha perciò voluto leggere la prassi di Don Bosco alla luce delle parole di San Paolo: «Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4,8). Quello che i giovani posseggono e desiderano legittimamente viene riconosciuto, senza per questo cadere nel giovanilismo o abbassare le esigenze formative. Ne seguono l'apertura a tutti i giovani e l'accoglienza di tutto il giovane. Tutti possono fare un cammino. La fede e la felicità è annunciata ai «poveri», a coloro che sono svantaggiati. Si riconosce la presenza operante di Dio nella vita. Il processo di fede dunque, il più delle volte, comincia e in gran parte si svolge nei luoghi dove si sperimenta la vita, piuttosto che in quelli «della pratica religiosa». Con un paradosso Don Bosco diceva che il «cortile attira più della chiesa». Proprio per questo l'educazione, la crescita umana vengono considerate come una via verso la fede e una dimensione indispensabile del suo sviluppo. I salesiani l'hanno espresso in uno slogan che necessita chiarimenti e merita esplicitazione: educare evangelizzando ed evangelizzare educando. Il processo educativo aiuta i giovani a scandagliare, assumere e amare la vita nelle sue sfide e possibilità, apre al religioso e prepara all'ascolto del vangelo. Il vangelo si fa seme dentro l'esperienza maturata fino al momento del suo annuncio e restituisce ai giovani una nuova progettualità quotidiana. La sua accoglienza si riflette su tutti gli aspetti della crescita umana. Ma concepire l'educazione come dimensione interagente nella nascita e sviluppo della fede, vuol dire valorizzare al massimo le mediazioni educative, non soltanto come facilitazioni metodologiche esterne, ma come elementi integranti l'esperienza della fede stessa: il rapporto educativo, la comunità, i processi di crescita, la qualità della proposta pedagogica. Il tema centrale, dunque, nel dialogo sulla fede con i giovani, è il binomio vita-salvezza. Il messaggio e la grazia della salvezza vengono percepiti come tali all'interno di un'esperienza umana in cui si è accolti, valorizzati come persone e si acquista nuova coscienza della propria dignità. Questa è anche la terra nella quale ogni seme di vangelo continua a produrre frutti. Don Bosco diceva ai giovani: «Vi voglio felici adesso e nell'eternità». Dialogare sulla vita-salvezza è far capire che ognuno, anche nelle situazioni più povere, ha la possibilità di rendere valida e desiderabile la propria esistenza e gustare felicità; far percepire quanto il vangelo venga incontro e oltrepassi questo desiderio di pienezza.
La prassi educativa
Allo stato nascente, al momento sorgivo è succeduta la pratica sistematica. La preoccupazione educativa portò i salesiani verso le strutture che maggiormente consentivano di raggiungere i giovani meno favoriti, perché poveri o lontani dai centri di educazione (pensionati), garantivano un programma culturale e religioso integrato e organico secondo il doppio indirizzo dei giovani (scuole, centri di preparazione per il lavoro), potevano diventare punti di aggregazione giovanile e di utilizzazione educativa del poco «tempo libero» (oratori, gruppi), o accompagnavano una scelta vocazionale (iniziative e strutture di accoglienza). Unica era in tutte queste strutture la meta da raggiungere: formare l'uomo di fede (il buon cristiano) che diventa attore della storia umana (l'onesto cittadino). Verso questo traguardo convergevano, amalgamate in ogni fase, l'iniziazione cristiana, la crescita culturale, l'esperienza sociale e l'orientamento vocazionale. L'integrazione non richiedeva particolari sforzi; veniva dalla prassi ed era quasi assicurata dall'ambiente educativo. Gli anni Sessanta portano le prime novità fuori e dentro le istituzioni educative, ma le risposte sono ancora sulla linea tradizionale. Si cerca di perfezionare e completare la prassi ereditata, mentre si fanno sentire già i fermenti che esploderanno alla fine del decennio: l'allungamento del periodo educativo, l'emergere del soggetto giovanile come portatore di inquietudini e domande, l'aumento degli spazi di libertà, il pluralismo ideologico ed etico nella società, la nuova gestione del tempo. Non è casuale che «Note di pastorale giovanile» abbia avuto il suo inizio nel '67. Comincia allora a delinearsi un nuovo scenario di pastorale. I giovani non si incontrano più soltanto e nella forma più efficace nelle strutture educative. La loro vita si svolge in ambiti molteplici e tra di essi emergono i luoghi vitali della spontaneità. Provano a elaborare un certo senso per la loro vita e ne fanno esperienza non soltanto nel tempo «sociale», destinato agli obblighi scolastici o di lavoro, ma in quello «individuale», da gestire a piacimento, che comincia a diventare fondamentale nella loro esistenza. Il rapporto con la società non è di comunicazione serena e fluida; oscilla tra l'emarginazione, l'incomunicabilità, l'adattamento, il conflitto. Le grandi agenzie di socializzazione, chiesa inclusa, perdono la loro capacità di trasmettere una visione dell'esistenza e un codice etico. La società «complessa» rende estranea ogni dottrina o ideologia che abbia la pretesa di offrire una spiegazione totale sull'uomo e sul mondo o una soluzione a priori di tutti i problemi etici in cui l'uomo si troverà. I giovani incontrano allora non poche difficoltà ad elaborare il senso e l'identità e oscillano tra l'eclettismo, l'integralismo rassicurante, il qualunquismo. Le «formule» che trasmettono verità risuonano poco nella loro esperienza. Affidarle alla memoria per una comprensione futura o presentarle come condizione della fede non sembra saggio in un momento di vertiginosa successione di messaggi e di spiccata tendenza a soddisfare interessi immediati. Tutto ciò che precedentemente era stato integrato veniva ora esposto alla frammentazione.
La nuova progettualità
In questa temperie la Congregazione salesiana non ha dimenticato che il suo sforzo di educazione era orientato e riempito dall'intenzione e dall'anima pastorale; e che la sua prassi di iniziazione cristiana era guidata da sensibilità educativa. Ma le grandezze dei termini stavano ormai cambiando e di conseguenza anche il rapporto tra di loro. Infatti l'educazione, in quanto attività umana, si ritagliava il suo campo e, anche quando veniva gestita da pastori, non poteva più essere concepita in funzione della Chiesa o del messaggio evangelico.
Due esigenze apparivano indispensabili: la reimpostazione teoretica e una nuova progettualità. La reimpostazione teoretica doveva riagganciarsi alla pastorale e alla sua luce, ridisegnare i rapporti tra evangelizzazione ed educazione. La nuova progettualità doveva tradurre le ispirazioni in linee operative praticabili.
Il salto di qualità della pastorale
La pastorale aveva fatto un «salto» di qualità dopo il Concilio Vaticano dal punto di vista pratico ma anche riguardo alla sua fondazione cristiana, per lievitare la storia umana col vangelo mediante il ministero profetico, la mediazione sacerdotale e l'impegno per la crescita dell'uomo. Concepita prima, e ancora oggi da alcuni, come «cura animarum» cui si accostavano senza esservi inclusi i servizi di beneficenza, assistenza ed educazione, è passata ad indicare la totalità dell'intervento della comunità ecclesiale, più segnato oggi dall'annuncio del vangelo che dalla custodia di un patrimonio sociale di pratica cristiana. La pastorale, come categoria più comprensiva, abbraccia allora, conforme ad una visione ripresa dai documenti salesiani ed ecclesiastici, due servizi di ordine diverso: l'evangelizzazione e la promozione-liberazione-sviluppo-educazione, quando quest'ultimo viene assunto pur nella sua autonomia, secondo il senso del vangelo. Educazione ed evangelizzazione hanno dunque ciascuna una loro consistenza e una loro dinamica, anche all'interno della pastorale, sebbene vengano unificate da una finalità unica: la salvezza. I salesiani «come educatori» promuovono la maturità della persona attraverso un itinerario che comprende superamento di condizionamenti, preparazione professionale, maturazione culturale, apertura alla libertà e alla verità. Si collocano nel campo culturale della crescita dell'uomo. Da educatori alla fede, «sempre e in ogni circostanza» (Costituzioni Salesiane = C 34) si propongono di rivelare il mistero di Cristo, condurre alla sua persona, far scoprire nel vangelo il senso supremo, aiutare a crescere come uomini nuovi. Le due dimensioni sono però intimamente unite. Ciascun processo è in ogni tappa aperto all'altro per le sue valenze intrinseche: l'educazione si ispira all'umanesimo religioso e trova nel riferimento a Cristo la sua chiave antropologica. L'evangelizzazione risveglia energie educative e si traduce in promozione della persona a partire dalla considerazione della sua dignità rivelatasi in Cristo. Sono intercomunicanti tra di loro anche per le risonanze soggettive nel giovane: l'educazione suscita la ricerca di senso e il desiderio di Dio. L'evangelizzazione rapporta alla razionalità e organizza i valori in una personalità originale: quella del credente. Lo sono inoltre per la concezione globale che guida l'operatore, frutto di un'esperienza spirituale: egli è convinto che nell'umano autentico c'è Dio e che dalla grazia scaturisce ricchezza di umanità. L'educazione viene ripresa a partire dall'annuncio di Cristo con una nuova profondità. «In Cristo si trova il senso supremo dell'esistenza e si cresce come uomini» (C 34). Viene risignificata quando ha luogo all'interno del senso della fede. La modalità educativa si percepisce nella considerazione del «soggetto» considerato come agente principale: anche l'evangelizzazione «fa appello alle risorse dell'intelligenza, del cuore, del desiderio di Dio che ogni giovane porta nel profondo di sé», e «incontra i giovani nel punto dove si trova la loro libertà»; «cerca che siano progressivamente responsabili nel delicato processo di crescita della loro umanità nella fede» (C 38). La modalità educativa la si vede inoltre nell'intervento dell'evangelizzazione: esso è comunicazione di esperienza, accompagnamento, proposta, stimolo, condivisione, animazione. L'impostazione teoretica sembra abbastanza chiara e dovrebbe essere tradotta in un progetto pastorale. Attorno ad esso, a partire dal 1978, fiorisce una letteratura domestica di motivazione, sussidiazione e modelli pratici. Investe in un primo tempo i responsabili dell'animazione e diventa norma con la promulgazione delle Costituzioni e dei Regolamenti Generali. La nuova progettualità vorrebbe ricondurre ad unità i diversi aspetti o dimensioni dell'azione, particolarmente in vista della crescita del soggetto. Ma si propone anche di rinnovare, all'interno di una sostanziale continuità di stile, gli interventi per rispondere alle nuove sfide che vengono dai giovani, dalla società e dai nuovi modelli educativi. Per questo richiede la ricomprensione delle intuizioni che sono all'origine della prassi salesiana, una rilettura sufficientemente seria della condizione giovanile, una formulazione di obiettivi, di esperienze e linee di azione. Le dimensioni del progetto, crescita umana ed educazione alla fede, sono coestensive e si modificano dialetticamente. Il criterio educativo dunque dovrebbe impregnare tutto il progetto secondo quanto viene espresso nella sua stessa denominazione.
VERSO IL FONDAMENTO TEOLOGICO
«Note di pastorale giovanile» si ispira all'esperienza salesiana, la rielabora, la porta al dialogo con altre esperienze ecclesiali e ne ricava nuove ricchezze. Uno dei suoi sforzi è stato chiarire la visione teologica che guida la prassi. «Dio ha fatto coesistere in se stesso l'umano e il divino: l'umano pieno, totale, integrale (anche con il peso, almeno per un istante, della debolezza più nostra: «Si è fatto peccato per liberarci dal peccato») con gli irrinunciabili splendori della sua divinità. Ha voluto rivestirsi di umanità per renderla capace di essere rivestita a sua volta di divinità senza annullazioni reciproche» (NPG 1968/1, p. 6). È un testo del 1968, all'inizio del secondo anno di vita della rivista. Suona ormai lontano, quasi come una prima intuizione, in seguito ripresa, continuamente approfondita e formulata con sempre maggior precisione, ricchezza di sfumature e bellezza di forma. La si legge ancora in uno degli ultimi numeri: «Gesù è volto e parola di Dio nella grazia della sua umanità. Come in Gesù anche la nostra quotidiana realtà è costituita da una trama intensa di visibile e mistero. Visibile e mistero non sono due realtà separabili, quasi che una possa esistere senza l'altra... Dal momento che il mistero è incontrabile solo dentro il suo visibile per coglierlo e farsene possedere, è necessario prima di tutto leggere bene il visibile, decifrarlo in tutta la sua pregnanza». (Tonelli, «Si può educare alla fede?», NPG 1991/1, p. 9). In sostanza quest'ispirazione suggerisce alla pastorale un certo modo di capire il rapporto che c'è tra parola e vita, tra rivelazione del mistero di Dio ed esistenza umana, tra fede e storia personale. Il riferimento ne suggerisce con chiarezza le caratteristiche e le condizioni. Parola di Dio e vita umana provengono dalla medesima fonte e rientrano nel medesimo «disegno». Anche la vita dell'uomo è parola di Dio. Sono dunque intercomunicabili, anzi appaiono intercompenetrate, fuse: la vita porta in sé i semi della Parola ed è aperta ad essa. Sin dall'inizio è stata fatta capace di desiderarla, accoglierla ed esprimerla, soprattutto in Gesù Cristo.
La parola d'altra parte è ordinata all'uomo, alla sua salvezza. Non è in primo luogo una spiegazione dottrinale, ma un appello di Dio all'uomo. Non è una rivendicazione che Dio fa della propria supremazia per ottenere adorazione e riconoscimento, ma offerta di amore e di liberazione. È formulata sulla misura dell'uomo perché ne colga il significato anche quando essa lo smuove da sicurezze e traguardi immediati. Il rapporto tra le due è dunque di dialogo, non di sostituzione o eliminazione o menomazione. Di riempimento vicendevole di significato. La divinità di Cristo non avrebbe «significato» per gli uomini se non fosse stata inseminata nel seno di Maria e apparsa nell'umanità di Gesù. L'umanità di Cristo d'altra parte non avrebbe significato per gli uomini se non fosse il tempio della divinità. È chiaro che c'è una gerarchia di valore e di energia. Ma è altrettanto chiaro che l'una senza l'altra rimane «insignificante» per noi. Perciò la comunità che si rifà a Cristo non si sente tanto seguace di una «religione monoteistica», ma Corpo di Cristo, portatore delle due «nature» senza divisione e senza confusione. Abbiamo accennato ad una parola chiave: dialogo. Esso implica comunicabilità tra i diversi «contenuti» e comunicazione efficace tra i soggetti interagenti. Ciò è più che un dettaglio. Viene proposto come principio fondante, da applicare al reale piuttosto che soltanto alle forme di trasmissione orale. Le realtà dialogano ad una profondità che solo l'udito della fede raggiunge; bisogna ascoltare questo dialogo, facendosene interpreti e voce. Anche questa indicazione generale risale all'inizio della rivista. Il primo numero del 1967 (p. 10-11) propone il dialogo come costante dei processi pastorali. Dopo aver distinto il dialogo «esteriore» da quello «interno», che intercorre tra le realtà della fede e quelle della persona e del mondo, si aggancia a una citazione a proposito dell'insegnamento religioso: «Bisogna scoprire ciò che fa l'innegabile ricchezza della vita del bambino e dell'adolescente, dell'adulto e del vegliardo, del rurale e del cittadino, dell'operaio e dell'intellettuale, affinché la parola di Dio appaia a ciascuno come un'apertura ai propri problemi, una risposta alle proprie domande, un allargamento ai propri valori e nello stesso tempo una soddisfazione delle proprie aspirazioni più profonde». Due realtà, Parola-vita, che si corrispondono perché furono create l'una per l'altra, che si comunicano alla loro stessa radice, che si raggiungono l'una l'altra, non dall'esterno ma dall'interno di se stesse, che vanno dunque accolte tutte e due nella loro consistenza, per poter dare all'altra la propria valenza.
UNA PASTORALE DEL SOGGETTO
In questa logica che cosa mettere al centro dell'attenzione pastorale: l'apprendimento dei messaggi, le strutture di mediazione, i ritrovati tecnici? La scelta della rivista è più che evidente e forse le è valso qualche malinteso. L'attenzione va alle persone, alla loro vita, intesa come ricerca, aspirazione e possibilità. All'interno di questa realtà va riletta per loro la Parola, va scoperta la verità. Ad alcuni questo cammino sembra di passo lento e percorso lungo. Sarebbe meglio prendere la scorciatoia della «parola» già formulata per sé efficace, consegnandola alla memoria dopo una accettazione basata sulla autorevolezza della Parola stessa o di chi la pronuncia.
«Note» si fa carico di questa tensione e risponde approfondendo una questione: che cosa è la fede e come «avviene» nella persona? Cosa significa per un giovane di oggi «vivere di fede»? Qual è l'immagine del giovane «cristiano» nella società postmoderna? L'attenzione preferenziale ai soggetti porta a prendere in considerazione la condizione giovanile: quell'insieme di tendenze, condizionamenti e giudizi di valore che rendono più facile o difficile la crescita della loro umanità nella fede. Se ne può seguire l'evoluzione rileggendo i numeri di questi venticinque anni, perché la rivista ha documentato ogni passaggio con dati e interpretazioni aggiornate. Non si è limitata alla statistica né al solo rilevamento. Ha adoperato chiavi educative di lettura, facendo interagire, in un dialogo multilaterale, la realtà sociale ed ecclesiale e la soggettività giovanile, il contesto di vita e il messaggio evangelico. Sono emersi temi generatori, come il rapporto tra identità e fede, tra senso di vita e Parola, tra solidarietà storica e impegno religioso, tra società «complessa» ed esperienza cristiana. La rivista è diventata un osservatorio della condizione giovanile che si avvale senza riserve delle scienze umane per scandagliare la vita, convinta dall'esperienza che vi è in essa una domanda e un'invocazione, uno spazio aperto alla proposta di fede. La lettura della condizione giovanile è pervasa da un tono di simpatia e ottimismo pur non ignorando gli aspetti problematici. Trasmette una specie di «credo» del pastore-educatore che i salesiani hanno espresso nella loro ultima assise: «Noi crediamo che Dio ama i giovani. Questa è la fede che sta all'origine della nostra vocazione, e che motiva la nostra vita e tutte le nostre attività pastorali. Noi crediamo che Gesù Cristo vuole condividere la sua vita con i giovani: essi sono la speranza di un futuro nuovo e portano in sé, nascosti nelle loro attese, i semi del Regno. Noi crediamo che lo Spirito si fa presente nei giovani e che per mezzo loro vuole edificare una più autentica comunità umana e cristiana. Egli è già all'opera, nei singoli e nei gruppi» (cf «... Conversava con noi a lungo il cammino». Per educare i giovani alla fede, LDC 1991, p. 51-52). L'attenzione ai soggetti diventa studio accurato dei processi personali che caratterizzano le diverse fasi della gioventù: i giovani adulti, gli adolescenti, i preadolescenti. Il discorso sul soggetto dunque non è generico o previo. Accompagna e ridimensiona permanentemente la proposta pastorale. «Note» ha sviluppato la pastorale «dei soggetti», preadolescenti, adolescenti, giovani, piuttosto che quella dei diversi contenuti (catechesi, liturgia, impegno) o delle diverse strutture (parrocchie, scuole). Non che queste ultime non vengano messe a fuoco, ma vengono sempre, singolarmente e nell'insieme, commisurate, riformulate e unificate dal riferimento alla vita dei soggetti. Per auscultare e fare da «amico» nel dialogo reale tra l'esperienza giovanile e l'interpellanza di Dio, ha spinto fino in fondo l'analisi attraverso la transdisciplinarità. Si tratta di un'autentica passione per cogliere la vita non in astratto ma nel suo snodarsi imprevedibile. La ricerca sui preadolescenti non è unica ma è certamente esemplare e indica una strada da seguire. Ma dai «soggetti», intesi come punto di riferimento per elaborare proposte, si passa alle «situazioni» che hanno un peso determinante sulla felicità personale e sulla fede: l'emarginazione, la lontananza dalla fede, il coinvolgimento attivo nelle dinamiche culturali o religiose. Esse servono da «test». Fanno balzare agli occhi l'adeguatezza o i limiti delle offerte predisposte dalle esigenze pastorali di fronte ai bisogni e alle domande dei giovani. La scelta dei soggetti diventa qualificante nella «personalizzazione» dell'annuncio e dell'intervento educativo e pastorale, che non va inteso nel senso di «distribuire» lo stesso messaggio a uno per uno, ma nel farlo diventare istanza di dialogo con la propria esperienza di vita.
Una dichiarazione esplicita di questa scelta dà gli elementi fondamentali di un modo di fare pastorale: «Personalizzare... vuol dire partire dalla realtà, agganciare il dato rivelato, ritornare alla vita» («Editoriale», NPG 1967/5, p. 4).
LA SCELTA PASTORALE: EDUCARE
Educare è una parola chiave, quasi inevitabile nel vocabolario di «Note di pastorale giovanile». La si riprende e declina in molti modi. La si applica all'acquisizione di atteggiamenti e attitudini che riguardano la maturità umana: educare all'amore, alla gratuità, ai valori, alla nonviolenza, alla pace, alla libertà. E ciò sembra scontato. La si adopera pure per le disposizioni e comportamenti che favoriscono lo sviluppo della fede: educare alla preghiera, all'ascolto della parola. E neppure ciò solleva obiezioni, una volta che il punto di partenza è la fede. Di educazione «cristiana» infatti, come educazione del cristiano, se n'è sempre parlato. Ma la si applica ancora a processi globali in cui realtà umana e grazia si impastano vicendevolmente verso l'atto di fede. E qui incominciano le perplessità, le discussioni di «principio», con relativi riflessi sulla prassi. Non è la ricorrenza materiale della parola ciò che colpisce. La si trova in quasi tutte le riviste che riguardano i ragazzi e i giovani. È invece, come per il termine «giovanile», il fatto che l'educazione è stata presa sul serio nel suo significato fondamentale e nelle sue condizioni ed esigenze. E non soltanto riguardo alla fede medesima offerta ad un soggetto giovane. È possibile educare alla fede anche se questa è un dono di Dio e viene «infusa» dallo Spirito. È chiaro che quando si parla di educazione ci si riferisce ad un processo in cui la persona, alla quale vengono fatte proposte o comunicati messaggi, ha l'ultima parola, che pronunzia in primo luogo nel tempio segreto della sua coscienza e libertà. L'educazione è un dialogo del soggetto con la realtà di se stesso, del mondo, dell'oltre che viene intuito. A questo dialogo giovano le mediazioni e le condizioni favorevoli. Non è infrequente riferirsi all'educazione mettendo al primo posto le finalità degli operatori, piuttosto che i processi che hanno luogo nel soggetto. L'educazione perde allora la sua originalità e viene assimilata alla socializzazione, che ne è soltanto un aspetto particolare, cioè al legittimo sforzo degli adulti per trasmettere abitudini e visioni che essi considerano giuste. Per quanto il rapporto tra educando e educatore sia indispensabile e caratterizzante nell'educazione, non riesce a determinare la risposta che il soggetto dà alle proposte. L'atto educativo è iniziato dall'educatore, ma si rivolge alla libertà e in essa ha il suo compimento. La rilevanza del soggetto in ogni processo educativo è un'accentuazione, ricompresa oggi perché l'educazione avviene non in un rapporto bipolare, ma in una molteplicità di relazioni, occasioni e influssi. Il giovane è dunque soggetto e non soltanto oggetto di educazione, un soggetto non semplicemente passivo, recettivo. Riceve ma anche ricerca o crea i contenuti della sua educazione. Prende posizione di fronte alle percezioni della propria realtà e della cultura, usufruendo dell'esperienza che gli adulti gli comunicano. L'educazione è sempre «indiretta». Non c'è valore, atteggiamento o convinzione, anche soltanto umana, che possano essere «impressi» o travasati nel soggetto senza l'intervento definitivo della sua libertà, alla soglia della quale si fermano tutte le mediazioni. Si rende allora necessario favorire processi piuttosto che far accettare formule o abitudini. Parlare di processi è immaginare una successione di fatti, fenomeni e attività aventi tra di loro un nesso, attraverso i quali si intende aiutare il soggetto perché, partendo dal punto in cui consapevolmente si trova, consapevolmente raggiunga ciò che intravede come realizzazione ideale. L'educazione richiede tempi lunghi, perché non propone esperienze disgiunte dalla vita, ma guarda il muoversi globale della personalità. Senza ragione però si accusa la processualità di lentezza e si appella all'energia movente del «messaggio». Anche nell'educazione si ammettono i salti insieme ai passi progressivi, i percorsi imprevisti insieme a quelli regolari. Il proporsi un cammino non vuol dire obbligarsi a sostare a tutte le staffette. L'importante invece è che tutto maturi nella libertà attraverso un dialogo tra realtà percepita e coscienza, e non attraverso plagi, manipolazioni affettive o intellettuali, infatuazioni comunitarie. La qualità intrinseca degli interventi e delle mediazioni diventa allora importante, e di conseguenza diventa «impegnativo» anche riguardo alla fede il discorso sugli educatori, sul rapporto educativo, sulle esperienze, sugli obiettivi a cui viene orientata tutta l'azione. Si può adoperare questo linguaggio quando ci si riferisce alla fede o si cade nel pelagianesimo? Forse è qui il punto dove opera la variante «giovanile». Nel giovane tutto è tensione verso la maturazione, tutto è incompleto, tutto è progressivo: la vita, la crescita culturale. Tutto è dato, tutto dev'essere acquisito. Tutto è grazia e tutto è frutto della libertà. Non c'è dubbio a chi appartiene l'iniziativa e il primato. Ma la pastorale non può essere altro che un aiuto per una risposta pienamente umana al dono di Dio.
PER EDUCARE ALLA FEDE... ANIMARE
L'animazione rappresenta una lunga stagione nella vita della rivista. All'inizio fu soltanto un'intuizione. Venne poi l'approfondimento dei suoi fondamenti teologici, antropologici e pedagogici; poi ancora la ricomprensione all'interno dell'educazione e della pastorale. A mano a mano appariva non come un processo o contenuto particolare, ma come una qualità di «molte azioni umane connesse col dare, conservare e sviluppare la vita individuale e sociale, biologica e spirituale, umana e divina» («Animazione», Pollo M.- Tonelli R., in Progetto educativo-pastorale, a cura di Vecchi-Prellezo).
È stato il segno che i termini «giovanile» ed «educazione» venivano presi sul serio quanto la natura umana in Gesù Cristo. È stata anche la via per tradurre il modello dell'incarnazione nell'esperienza di fede dei giovani. Altre espressioni infatti che ne rivelano i vari significati e applicazioni sono: integrare fede e vita, fondere vangelo e cultura, far interagire formule di fede ed esperienza religiosa giovanile, mettere in comunicazione tradizione ecclesiale e domande-sfide-aspirazioni dei giovani. L'accento ricade sui verbi: integrare, fondere, far interagire, mettere in comunicazione: una maniera di elaborare e assumere realtà che sembrano lontane o estranee.
L'animazione prende atto dei due poli o termini e cerca di capirli fino in fondo con gli strumenti adeguati alla loro natura, non solo per non travisarli ma soprattutto per sentire la loro voce più profonda e genuina. Li colloca poi l'uno di fronte all'altro in dialettica positiva, in modo che l'uno non riesca a formularsi come contenuto di vita senza ascoltare continuamente e seriamente l'altro. Così ciascuno viene spinto verso sensi ulteriori e formulazioni «reali». L'animazione agisce in questo modo perché è convinta che i termini che sovente mettiamo in polarità (fede-vita, vangelo-cultura, Parola-esperienza umana) si richiamano nel soggetto attraverso segni visibili e misteriosi. È orientata dunque fin dall'inizio da una precomprensione pastorale.
L'animazione viene applicata in primo luogo alle realtà, ai contenuti. La vita giovanile va esplorata e accolta fino in fondo nelle sue domande esplicite e inespresse. La fede fa da luce, istanza critica e spinta a queste domande. Riconosce la loro legittimità, le interpreta, le approfondisce, le purifica, le rilancia. Ma anche la vita fa da istanza critica alle espressioni e formulazioni della fede, affinché non costituiscano un elenco di proposizioni mute cui aderire, ma sprigionino luce e diano «sapore» all'esistenza. La cultura in cui i giovani vivono, respirano e si vanno formando, viene messa a confronto con il vangelo che fa vedere pregi e storture e propone un senso che è sempre «oltre». Ma anche l'annuncio del vangelo viene sfidato dalle nuove sensibilità e visioni culturali, sentite dai giovani, a purificarsi da interessi e incrostazioni a volte gelosamente difese. I «Quaderni dell'Animatore» presentano un esempio di questa circolarità: ricchi negli approfondimenti dei temi della fede e altrettanto sinceri riguardo alle sfide della cultura.
A stimolare questo confronto servono le mediazioni. Esse perciò si muovono pure secondo i criteri dell'animazione. Il cammino del giovane verso la maturità della fede è mediato da un rapporto «educativo», sia che si tratti della Chiesa, della sua autorità e dei suoi segni o di un operatore singolo. Il rapporto «educativo» è intenzionalmente promozionale della persona. Mira alla sua crescita a partire dal punto in cui si trova e secondo quello che è iscritto nelle sue possibilità come essere umano. L'animazione lo realizza svegliando le risorse interiori del giovane, anche del più povero di comunicazione ed esperienza. Il rapporto educativo diventa così liberante, perché aiuta il soggetto a prendere coscienza della propria vita e a gestirla responsabilmente a cominciare dai processi attuali; eppure è sempre propositivo, perché mette a disposizione del giovane la conoscenza delle generazioni precedenti e la testimonianza degli adulti contemporanei. In tal senso radica nella cultura e comunità, dà gli strumenti per destreggiarsi nella complessità, apre agli orizzonti di senso e offre le prospettive della fede.
L'animazione riguarda pure la comunità in quanto tale, il rapporto tra i membri, la forma in cui l'insieme e i singoli che la compongono possono maturare. Fa appello alla partecipazione attiva, alla coscienza e alla creatività di ognuno mediante la valorizzazione dei ruoli e dei doni personali. Punta sulla corresponsabilità e in tal senso promuove processi comunitari di crescita mediante la comunicazione, l'approfondimento culturale e il discernimento.
«Note di pastorale giovanile» ha sviluppato abbondantemente questo aspetto a proposito dei gruppi, ritenuti il luogo tipico dell'animazione. Non è stato facile far capire che non si tratta di nondirettività, rinuncia alla proposta o delega della responsabilità degli adulti, ma proprio di scatenare il dialogo in tutte le direzioni, abilitare ciascuno a fare sintesi aperte, a reagire con libertà alle proposte e ad impegnare nelle risposte la totalità della persona.
DUE ATTENZIONI ESEMPLARI
Indicativo delle scelte precedenti è lo sforzo per capire il travaglio, cui il giovane è sottoposto nella ricerca e costruzione dell'identità personale.
La costruzione dell'identità
L'identità è un dinamismo fondamentale in qualsiasi periodo della vita, ma riveste particolarmente importanza nella fase giovanile. Spiegare che cos'è significa addentrarsi in un labirinto. Diverse scienze cercano di chiarirlo, partendo dal proprio campo di osservazione e seguendo un metodo proprio: l'antropologia, la psicologia, la sociologia. In ciascuna di queste discipline poi appaiono correnti con presupposti e conclusioni diverse. Meno difficile è capire come funziona. Regola, integra e organizza attorno ad un centro di unità interiore tutti i processi e contenuti psichici: le esperienze varie, l'immagine di sé, le rappresentazioni che giungono dall'esterno, gli stati emozionali, i sistemi di significato, il progetto di vita. Di conseguenza il soggetto va acquistando coscienza della propria originalità e percepisce la continuità del proprio essere nel fluire di eventi e oggetti, persone e idee con cui è venuto a contatto. Soprattutto diventa capace di assimilare, in forma dinamica e arricchente, esperienze diverse, adeguandosi senza smarrirsi a situazioni nuove. L'identità è il nodo attraverso il quale passano tutti i fili di un rapporto positivo tra persona e società, individuo e ambiente. Se non viene attivato, la persona «si perde» o si fissa e non approfitta di quello che la struttura e la convivenza sociale offrono. L'identità matura mediante una serie di identificazioni con ambienti, persone, ruoli e modelli di comportamento che si vanno sperimentando e superando nella loro materialità, ma di cui si va capitalizzando quello che hanno di significativo per il soggetto. Il problema educativo dell'identità non è nuovo. In ogni epoca i giovani hanno dovuto affrontarlo per maturare e collocarsi in forma creativa nel sistema sociale. Il nuovo è la situazione o scenario in cui bisogna elaborarla oggi: la società «complessa»! Nella società tradizionale l'identità si sperimentava e si costruiva mediante l'accettazione di norme e valori, comportamenti, rapporti e legittimazioni collaudate e, per certi versi, indiscutibili. La società, oltre a un sistema simbolico unitario, offriva modelli stabili di identificazione. La persona vi si riconosceva e li assimilava con variazioni personali secondo la propria condizione di vita, la situazione sociale, il ruolo pubblico e le poche appartenenze. Nelle società «complesse», dell'autonomia personale, dell'informazione senza limiti, dell'accesso di opportunità, l'elaborazione della propria identità è un processo più laborioso. Non è possibile riconoscersi in qualcuna, perché la società non ne offre. Bisogna inventarla, avvalendosi dei materiali di cui si dispone. La stessa appartenenza ad un medesimo ceto o condivisione non produce identità, perché la percezione che ne hanno i singoli è diversa. Il fatto di essere giovane non crea un'identità comune alla quale riferirsi per modellarsi. Si è giovane in mille modi. Lo stesso capita col sentirsi cristiano. In questo contesto l'elaborazione di un'identità presenta difficoltà non piccole. Infatti si dà un aumento di opportunità e una caduta di controlli sociali e familiari. È come una promessa di autonomia senza confini per l'autodefinizione e autorealizzazione. Tale libertà però cozza con i limiti naturali della persona lanciata con l'immaginazione oltre le proprie possibilità e contro le barriere che le oppone la società complessa: il prolungamento della dipendenza, i limiti della partecipazione pubblica, la molteplicità di riferimenti e modelli contrapposti. I percorsi che portano fino ad un'identità in questo contesto sono numerosi, differenziati, con molti sentieri secondari imprevedibili, al posto dei pochi, uniformi e diretti di cui disponevano le società controllate e semplici. È come se si avanzasse da soli, o per tratti in compagnia di un gruppo. La fede sembrava ancorata a concezioni stabili e autorevoli. Oggi si vive il provvisorio, il funzionale. L'identità appariva «forte» e definitiva, oggi appare «debole» e aperta a ristrutturazioni.
Che senso ha la proposta di fede in questo «contesto?» Qual è l'identità del giovane «cristiano?» Quali sono i modelli di identificazione: persone, visioni, progetti storici, ambienti? Come opera la fede nella formazione dell'identità? A quale rischio va incontro se non ne tiene conto?
«Note di pastorale giovanile» si è posto l'interrogativo non soltanto in forma retorica e neppure come un dubbio sulla validità attuale dell'esperienza cristiana, ma per riuscire ad annunciare la fede in una specie di «areopago» giovanile.
La comunicazione
L'altra attenzione esemplare è quella rivolta alla «comunicazione». Essa ha portato a individuare, esaminare criticamente e riformulare i modelli che assume la prassi pastorale. Si tratta dunque in primo luogo non di singole parole o messaggi, ma di quella comunicazione continua e totale che si offre mediante l'immagine e la presenza della comunità cristiana nella società, il rapporto tra chiesa e mondo, gli atteggiamenti e fatti con cui si esprime la fede.
Si scorge in questo un orientamento in «Note di pastorale giovanile». I singoli credenti e la chiesa devono accettare, come controparte nel dialogo sulla salvezza, la società pluralistica, libera, complessa, e partecipare attivamente al dibattito sul senso e sulla dignità dell'uomo, all'interno del quale si colloca il discorso religioso. Lì diventa significativa la confessione della propria fede in Gesù Cristo e l'esperienza storica che ne deriva. Se si vuole far cammino assieme, deve variare il modello comunicativo. La pretesa di trasmettere in maniera obiettiva la realtà e volontà divina mediante concetti, parole e proposizioni chiare e precise, di validità universale e univoca, fa meno breccia. L'uomo, ha preso coscienza della complessità della realtà e del carattere «ineffabile» del mistero divino. All'istruzione che ha come finalità di consegnare il contenuto esatto di tali proposizioni si aggiunge e in larga misura si sostituisce una riflessione aperta sui significati che si sprigionano dalla Parola di Dio e, alla sua luce, degli eventi e delle sfide che segnano la vita quotidiana dei fedeli dove hanno origine le domande di senso. Conta soprattutto l'incidenza che ha la fede sulla qualità della vita e sull'orientamento della storia. Viene allora molto valorizzata la riflessione secolare sull'uomo e si ausculta quello che egli sente ed esprime. Si riconosce che la valenza religiosa attraversa e collega il profano e il sacro. Entrambi parlano; nel primo ci sono anche spazi di germinale esperienza religiosa. Si sviluppa inoltre un'espressione connaturale al senso religioso: il linguaggio simbolico, gestuale, conviviale. L'influsso che esercitava «la grande istituzione» sembra passare ai gruppi e alle comunità immediate. Il magistero è meno ascoltato che la condivisione dell'esperienza religiosa personale. Le narrazioni della fede e quelle della vita dei credenti appaiono più ispiranti e credibili che le «proposizioni» in cui si esprime una verità. Queste sono state investite da quella indifferenza (né fede né incredulità) che circonda tutte le concezioni della vita e del mondo che si presentano con pretese di spiegazione esauriente, definitiva e totale. La testimonianza e la solidarietà annunciano meglio che la parola orale o scritta, anche se questa ha funzione indispensabile. L'educatore-pastore conosce le ambiguità che covano sotto queste tendenze. Sa dunque che non deve semplicemente adeguarsi e cedere. Ma si domanda che cosa dice ai mediatori della fede la nuova stagione della comunicazione. Se si mettono in rapporto identità e comunicazione sembra venir fuori l'equazione educativa della rivista. La prima infatti comprende la totalità di processi che hanno luogo nella persona con i quali la fede interagisce per diventare significativa. La seconda riguarda la qualità del rapporto di tutte le mediazioni, comunitarie e personali, con il giovane per sostenere il suo sforzo di crescita come uomo e come cristiano.
UN CAMMINO Dl FEDE
La concretizzazione pedagogica delle precedenti scelte e attenzioni è la proposta di un cammino verso la fede e nella fede. L'idea del cammino è antica nella prassi cristiana e vanta addirittura radici bibliche. La vita dell'uomo è un cammino. La realtà gli si va schiudendo e ogni sua scelta lo spinge verso un traguardo ulteriore. L'immagine suggerisce il muoversi di tutta la persona, l'orientamento consapevole verso una meta, l'idea di un percorso possibile, la consapevolezza della posizione attuale, la accettazione della progressività, e la previsione dei traguardi intermedi. L'approdo di «Note di pastorale giovanile» ad un cammino di fede è stato preceduto e seguito da alcune altre proposte. Prima si è svolto il discorso sul progetto pastorale, vale a dire l'organizzazione delle risorse di cui dispone una comunità per raggiungere efficacemente i giovani e offrire loro il messaggio di salvezza. Dopo la proposta del cammino per tutti i giovani è seguita l'offerta di elementi per itinerari sulla misura di singole categorie (preadolescenti, adolescenti, giovani) o situazioni (lontani, aggregati, animatori).
Progetto, cammino e itinerario potrebbero apparire puri accorgimenti metodologici, il cui contenuto si dà per scontato o non si considera sufficientemente. Infatti di progetti e itinerari si parla in diverse sedi e con finalità varie. L'attenzione di «Note» va principalmente ai contenuti, ma questi vengono trattati in un modo che richiede l'elaborazione di un cammino, in forza proprio della scelta dei soggetti, dell'educazione e dell'animazione. Si parte da un seme, l'accoglienza della vita e del mistero che si porta dentro, e si vanno dischiudendo progressivamente i suoi sviluppi. In ogni fase si assume la «vita» del giovane per fargli prendere coscienza di come si manifesta in lui, come viene interpretata dalla cultura circostante, quello che contiene come aspirazione, tendenza e possibilità. Si valorizza quello che il giovane porta come risorsa naturale e come precipitato culturale. Lo si aiuta a verificare il materiale che egli usa inconsapevolmente nella costruzione della sua identità. Ciò lo si mette a confronto con l'esistenza e la parola di Gesù dal quale viene l'annuncio e la promessa della vita piena, se l'uomo si apre all'amore e al mistero di Dio. I temi della fede vengono approfonditi, resi eloquenti e sminuzzati. Diventano messaggio personale. Dalla risposta positiva a questo confronto nasce un proposito di vita nuova secondo Gesù (conversione), che si sviluppa in «compagnia» di coloro che credono in Lui, a servizio del Regno di Dio nel mondo. Tale vita nuova ha le sue manifestazioni nella mentalità, nella vita quotidiana, nella presenza nella società. Comprende atteggiamenti, criteri, comportamenti critici. La vita giovanile, Cristo, la Chiesa il servizio al Regno sono i riferimenti che vengono fusi in ogni passo e traguardo. Il risultato finale vorrebbe essere che il giovane costruisca la propria personalità avendo Cristo come riferimento sul piano della mentalità e dell'esistenza. È un riferimento che facendosi progressivamente esplicito e interiorizzato, lo aiuterà a vedere la storia come Cristo, a giudicare la vita come Lui, a sperare come insegna Lui, a vivere in Lui, in comunione con il Padre e lo Spirito Santo. Ma oltre che risultato finale questo riferimento è anche l'indicazione fondamentale per ogni passo del cammino. In ogni fase e in ogni esperienza si tende a integrare fede e vita. Ricorre di nuovo la domanda: è questa una pretesa di far nascere e crescere la fede come conclusione di uno sforzo educativo o di autoformazione? Viene opportuno il discorso della spiritualità che la rivista ha sviluppato in collegamento col cammino di fede. L'energia dello Spirito è presente nel giovane sin dal suo primo movimento verso una maggiore consapevolezza e senso di dignità. Il suo impegno di muoversi verso obiettivi umanamente validi è già segno dell'interpellanza di Dio e inizio della risposta, punto di partenza del processo di fede verso la maturazione del cristiano. Altre interpellanze, messaggi e annunci più espliciti ne seguiranno o si intercaleranno. Il cammino non è altro che la corrispondenza alla grazia del quotidiano e secondo lo svolgersi della vita. Mentre cammina, il giovane va elaborando un progetto originale di vita evangelica. Impara ad esprimere un modo di essere credente oggi nel mondo organizzando la sua vita attorno ad alcune percezioni di fede, scelte di valori e atteggiamenti evangelici: vive da discepolo di Cristo. La «spiritualità», il riconoscimento della presenza invitante di Dio è la spinta dell'inizio, l'energia del percorso, la sintesi finale!
Nel 1986, in occasione del suo ventesimo anno, «Note di pastorale giovanile» ha offerto un indice degli articoli pubblicati, organizzato attorno a parole chiavi e corredato da una mappa degli argomenti, divisa in tre aree: teologico-pastorale, educativa, socioculturale (agosto-settembre 1986, n. 7). L'indice e la mappa consentono di valutare l'attenzione equilibrata che viene rivolta alle aree in cui sorgono provocazioni e stimoli per lavorare nella crescita unitaria dei giovani. Le parole chiavi danno una pista per seguire i corsi di una riflessione che sarebbe impossibile commentare, discutere o semplicemente sintetizzare in un articolo. Nell'insieme della Rivista, in ciascuno dei suoi numeri e quasi in ogni articolo si riscontra un approccio alla realtà, una sensibilità, una forma di elaborazione che costituiscono il suo contributo alla riflessione, la sua originalità e, eventualmente, il motivo di alcune riserve che richiederebbero approfondimento. Non tutto infatti appare così chiaro da essere indiscutibile. La Rivista ne è consapevole ed è aperta al confronto. L'indiscutibilità delle scelte, anche se sufficientemente fondate, non è il pregio del quale più si può vantare «Note di pastorale giovanile». Lo sono invece la sua volontà di aprire strade e lo sforzo di «stare tra i giovani» anche a prezzo di rischi e avventure.