Giovani nel digitale

Esercizi di discernimento /10


280 caratteri.

Pensare contratto

e pensieri pressati


Giacomo Ruggeri

Tastiera piccola, parole piccole

Ricordi a scuola? Quando la professoressa, diceva: “Prendete il foglio protocollo e scrivete un tema, argomentando bene i pensieri”. Oggi non è più così. In un recente viaggio in treno ho conosciuto una docente di italiano che approfittava della tratta ferroviaria che la riportava a casa, per correggere i temi in classe dei suoi alunni. Mi diceva: “Guardi qui: sempre più brevi sono i temi e i pensieri tra loro scollegati. Non ci sono più i temi di una volta!”.
Il passaggio dalla carta al digitale non riguarda solamente la stampa, i quotidiani, l’informazione. Coinvolge totalmente anche il tuo modo di scrivere nello spazio ristretto di una tastiera dello smartphone con due dita. Piccola è la tastiera, piccoli sono i tasti da digitare, piccoli sono i pensieri. Anzi, più che piccoli: accartocciati.

Se la conversazione si fa incorporea, che fare?

Il «pensiero contratto» non è solo una conseguenza dell’esposizione al digitale, ma una modalità concreta di pensare. Se scrivo parole amputate (perché in xchè, oppure, qualcuno in qlc) non è solo una questione di praticità o di brevità, ma è una questione che definisco come la «liofilizzazione della capacità riflessiva». Essere sui social, avere una vita digitalmente attiva su internet significa far parte di una migrazione continua dal corporeo all’incorporeo, dal solido al visivo, dalla pelle ai pixel. Avere una conversazione de visu con una persona seduti su una poltrona uno di fronte all’altro, è profondamente diverso dall’avere la medesima conversazione su WhatsApp, o in chat, o in un blog di discussione in rete. Seduti in poltrona ne sento l’odore, i suoni, vedo i movimenti del corpo, ricevo quella comunicazione non verbale essenziale in un dialogo reciproco. Seduti in poltrona, siamo in due. Quando, invece, la conversazione è da smartphone a smartphone, sono io solo, con me medesimo. Dell’altra persona non vedo, non tocco, non odoro, non sento, non percepisco nulla se non squilli, notifiche, simboli e faccine di risposta, silenzi e non risposte prolungate (aumentando ansia da attesa di risposta). Da smartphone a smartphone sono un tutt’uno con lo smartphone che ho tra due mani, come il predatore con la sua preda.
Ciò che vedo e tocco sullo schermo di smartphone, iPad, MacBook Pro è tattile, ma non è corporeo. È visibile, ma senza corporeità. Nel lungo periodo, con l’esposizione assidua al digitale, divento assuefatto alla tattilità, a scapito della corporeità. Pensandomi come immerso nella mia bolla, che di tanto in tanto risponde a qualcuno che invia sms, non sento il bisogno di riflettere, di pensare, di capire, di conoscere. Accelero, accartoccio, comprimo, taglio, seziono, poto, riduco pensieri e parole. A quale prezzo? A quali conseguenze?

Percorrere la via lunga del pensare

È come se sui miei polmoni vi sia un masso di pietra che comprime la cassa toracica: fatico a respirare, mi è quasi impossibile camminare, sono costretto a tenere testa e collo ricurvi per sentire meno dolore. Ho bisogno di respirare bene, per evitare di stare sempre più male e ammalarmi. Ho bisogno di camminare per la via lunga del riflettere, per evitare di perdermi – correndo – per la via breve della contrazione del pensare. La natura mi è maestra nel mostrarmi che per ogni cosa ci vuole il suo tempo perché germogli, cresca, fruttifichi, maturi. So bene che la rete digitale non è slow (lento), ma fast (veloce), ma non significa che devo ammalarmi del «pensarefobia». Dietro ciò che definisco come pratico e comodo nello scrivere contratto su smartphone e social, può nascondersi una paura inconscia nel fermarmi a riflettere, capire, pensare, valutare, ponderare. È come se dicessi, ad esempio: “Vado di fretta perché so, che se mi fermo a riflettere e pensare, forse non scriverei queste frasi”. Pertanto, mi fa bene chiedermi che cosa si nasconde (realmente) dietro la mia frenesia nel pensare rapido, nello scrivere sezionato, nel parlare a monosillabi. A risentirne fortemente è la mia capacità di dialogare, di conversare, di intrattenere un discorso prolungato, di saper argomentare e dibattere in uno scambio di opinioni, specie quando sono chiamato in causa su una questione strettamente personale. Se manco di pensiero riflessivo, sono povero anche nel fondare le mie riflessioni, difendendole quando sono giuste e dando spiegazioni quando sono criticate. Non è un caso, perciò, che si tende ad alzare la voce, a urlare, a ‘buttare tutto in caciara’, in un eterna lite a chi la spara più grossa, a chi fa la voce più grossa pensando di essere ‘forte’, perché grida. Chi grida, mostra a tutti la sua parte più debole (e la più bisognosa). È il frutto immaturo della via corta del pensare, riflettere.

4 criteri per bonificare faccine, emjoi e dare respiro al pensiero

I social non sono nati per scrivere romanzi. Hanno lo scopo di farmi dire tanto in poco, molto in breve, lungo in corto, grande in piccolo, intero in frammento. Se parto con ampi orizzonti di pensiero abbondante, il social mi riporta subito alla realtà, costringendomi a 280 caratteri (non uno in più). Come a dire: scegli cosa vuoi dire, usa pochi termini, cerca di farti capire.
Ecco, dunque, un primo criterio che definisco per «confinare l’accelerazione del pensare e del pensiero»: non sentirmi costretto da uno che decide da remoto (da lontano) quale spazio avere per parlare. Mettere i confini non è solo sinonimo di non far entrare (e non far uscire). Significa, in primis, ricordare a me stesso che la libertà d’espressione non vuol dire solamente essere libero di esprimere il mio pensiero, ma che significa libertà di maturare il pensare con tutti i 4 punti cardinali: libero, vero, profondo, sostanzioso. Esercitarmi in questi punti cardinali del pensiero non vuol dire abbandonare i social, ma darmi dei confini per evitare di diventare un randagio della parola istintiva, anziché una persona capace di governare il proprio pensiero.
Un secondo criterio, pertanto, può essere un sano e un saggio controllo sulla mia istintività digitale. I social sono stati pensati e ideati per parlare (soprattutto) alla mia pancia, alla mia istintività e per vomitare (spesso) alla pancia e all’istintività dell’altra persona. Non è un caso che scrivo di getto, colpisco lo schermo come se fosse una lancia razzi, clicco invio e poi, … poi rifletto su quello che scritto e sparato nell’etere di internet! Per le mie parole che scrivo, penso e dico sui social c’è bisogno di un grembo dove crescere e al mio pensiero-pensare serve un buon terreno dove maturare. Le parole che non sono passate per la gestazione di saggezza, intelligenza e discernimento, posso gestirle male ed essere gestite per fare del male (spesso come boomerang).
Un terzo criterio che suggerisco è di far attenzione a non sostituire in toto l’incontro de visu con la conversazione a suon di tweet, squilli, emjoi e faccine. Quando la relazione si basa in modo eccessivo tramite i social o in forma preponderante da orecchio a orecchio, è il segno che serve passare da occhio a occhio. Quando con una persona il mio interloquire trasmigra da alcune brevi parole scritte su WhatsApp o via sms, a lenzuola infinite e frasi interminabili chilometriche tramite i social significa che: 1) devo sospendere temporaneamente la conversazione; 2) fermarmi a riflettere su cosa (e come) sta accadendo in me e con questa persona; 3) chiedermi cosa voglia fare e con quale stile voglio proseguire.
Un quarto criterio, più sul versante pedagogico, è la riscoperta nel leggere libri, riviste, anche tra loro diverse per argomento. Se il mio parlare si circoscrive a pochi termini che conosco, avrò fatica nella stessa elaborazione del pensiero. Leggere mi arricchisce nel conoscere più vocaboli, parole, termini. Mi fa bene nel bonificare la mente dallo stile pressato delle parole, dalla saturazione di molteplici simboli e termini con segni grafici.