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    Fede, speranza, carità /3. La speranza: la soggettività responsabile e felice



    L’esistenza teologale come esistenza responsabile e felice

    Carmine Di Sante

    (NPG 02-09-18)



    LA SPERANZA: LA SOGGETTIVITÀ FELICE E RESPONSABILE

    La speranza come attesa

    Svolgendo il tema della concezione dell’amore nella teologia paolina, R. Mohrlang osserva con stupore che quando Paolo parla dell’amore, il suo accento non cade mai sull’amore dell’uomo per Dio quanto piuttosto sull’amore di Dio per l’uomo e su quello dell’uomo per il suo prossimo.
    Scrive: “Benché sia implicito ovunque, l’amore per Dio (o per Cristo) stranamente non ha un grande rilievo diretto negli scritti di Paolo (viene menzionato soltanto in Rm 8, 28; 1Cor 2,9; 8,3; 16, 22; Ef 6,24; 2Tm 3,4; l’espressione è ambigua in Rm 5,5; 2Cor 5,14; 2Ts 3,5). Benché il secondo dei due grandi comandamenti venga citato due volte, il primo non è mai citato. L’attenzione è rivolta piuttosto all’amore di Dio (o di Cristo) per noi, con un’accentuazione particolare dell’elemento della grazia. La risposta che Paolo si attende non è tanto quella dell’amare Dio o Cristo, quanto invece di credere in Cristo e amare gli altri. La prima risposta si muove nell’ambito della ricettività. Questo non significa però che l’idea dell’amore che si deve a Dio sia secondaria nel pensiero di Paolo: essa è fondamentale per via della sua eredità giudaica ed è chiaramente in linea con la sua concezione della vita cristiana che deve essere dedicata completamente a Dio. Ma resta un mistero il fatto che egli parli così poco dell’amore verso Dio e non ne tratti in qualche maniera” (R. Mohrlang, Amore, in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, pp. 49-50, San Paolo, Cinisello Balsamo 20002, pp. 49-50; il corsivo è mio).
    Mohrlang ha ragione nel costatare che Paolo non cita mai il primo comandamento di amare Dio “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” e che, per lui, non l’amore per Dio o per Cristo ma l’amore per il prossimo è prioritario. Ma forse ha meno ragione nell’osservare che tutto questo è strano e nel concludere che resta “mistero il fatto che egli parli così poco dell’amore verso Dio e non ne tratti in qualche maniera”, per la semplice ragione che la bibbia ebraica, nella quale Paolo è radicato, più che dell’amore per Dio parla dell’amore per il prossimo (e lo straniero!), e che quando parla dell’amore per Dio, come nel passo del Deuteronomio sopra citato, l’amore di cui parla non è l’amore di desiderio ma l’amore di obbedienza. Se la centralità dell’amore al prossimo rispetto all’amore per Dio sembra strano, lo è all’orecchio non più sensibile “al linguaggio ebraico” e già sedotto dal pensiero greco per il quale l’amore è amore di desiderio.
    Lungi dall’essere “un mistero”, il silenzio paolino sull’amore a Dio è in profonda sintonia con la rivelazione anticotestamentaria per la quale l’amore per il prossimo è il luogo – e l’unico luogo – manifestativo dell’amore per Dio. Amando, Dio esige una risposta, ma questa non si istituisce come redamatio, il movimento di ritorno con cui l’io amato riama Dio che lo ama, ma come rimando, il movimento indiretto con cui l’io amato è rimandato da Dio ad amare l’altro da sé, l’estraneo e il nemico. Dio ama, per la bibbia, non per essere riamato nel “tu a tu” dell’interiorità, ma per aprire nella storia lo spazio dell’amore gratuito e responsabile: non l’amore come desiderio, forza ed energia che compagina tutto in unità e armonia, ma l’amore come bontà e benevolenza che non si preoccupa di sé ma dell’altro; non l’amore come volontà di essere e di persistenza nell’essere, ma l’amore di alterità come disinteressamento, bontà e misericordia; non l’amore come identità, fusione, unione e di inclusione, ma l’amore come separazione, inquietudine e rottura dove l’io non è più per sé ma per l’altro. Dio è Amore perché bontà, ed è bontà perché istituisce l’umano come bontà. Scrive Lévinas:
    “La bontà del Bene inclina il movimento ch’essa sollecita per scartarlo dal Bene come desiderabile e orientarlo verso Altri – e solo così verso il Bene. Vi è qui una irrettitudine che va più in alto della rettitudine intangibile; in questa irrettitudine il desiderabile si separa dalla relazione al desiderio ch’esso sollecita e, attraverso tale separazione o santità, il desiderabile resta terza persona, Egli (Il) a fondo del Tu: non mi colma di bene, ma mi obbliga (m’astreint) alla bontà, migliore del bene da ricevere. Essere buono è deficit, deperimento e stoltezza nell’essere – è eccellenza e altezza al di là dell’essere. Il che significa che l’etica non è un momento dell’essere, ma è altrimenti e meglio che essere” (E. Lévinas, Dio, la morte e il tempo, Jaca Book, Milano 1996, p. 296).
    Il bene dischiuso dall’amore di Dio accolto nella fede e riprodotto nella carità apre al credente lo spazio storico della responsabilità e della felicità: lo spazio della speranza le cui lettere campeggiano al centro dell’arcata tra la fede e la carità.
    Virtù per eccellenza dell’uomo viator, dell’uomo viandante, la speranza è, nella storia umana, una vera novità perché introduce una rottura nel determinismo della necessità e dell’eterno ritorno, e apre lo sguardo al futuro e all’attesa. Per capire la carica sovversiva della speranza biblica è sufficiente ricordare che, al di fuori della tradizione ebraico-cristiana, non si dà l’idea né del futuro né dell’attesa, essendo il futuro sempre la riproduzione di ciò che è stato e l’attesa sempre attesa vana, se ogni accadimento, dalla gioia al dolore alle proprie scelte, è iscritto nel volere degli dèi, della natura o del destino. La speranza non fiorisce nell’orizzonte della necessità. Qui è possibile solo il tragico, l’accettazione del dolore e della sua intrascendibilità, e nel tragico lo sperare è supposizione ingannevole e falsa, come dichiara Prometeo nella tragedia di Eschilo:

    “Coro: Nei doni concessi ai mortali non sei magari andato oltre?
    Prometeo: Sì, ho impedito agli uomini di prevedere la loro sorte mortale.
    Coro: Che tipo di farmaco hai scovato per questa malattia?
    Prometeo: Ho posto in loro cieche speranze”.

    A differenza della speranza greca che, per Eschilo, è cieca perché pietosamente ingannevole, la speranza cristiana è luminosa perché apre gli occhi sull’amore dell’alterità divina che non inganna.
    Amore gratuito liberamente dato e liberamente accolto, il Dio biblico è instaurazione, nell’uomo, di una duplice attesa non ingannevole.
    Attesa innanzitutto di Dio. Il credente attende che ogni mattina Dio torni a sorprenderlo con il suo amore, facendo sorgere di nuovo il sole, fiorire i campi e inondare la terra “la quale ne sostenta e governa e produce diversi fructi con coloriti fiori ed erba” (Cantico delle Creature di S. Francesco). Se, per la bibbia, l’amore divino non è energia e forza ma volontà di bene che liberamente e gratuitamente si dona, esso non può essere preteso ma solo atteso. È noto che nella lingua ebraica il termine verità corrisponde a fedeltà. Dio è verità perché fedeltà, perché mantiene la parola e le promesse che ha fatto. Se ogni mattina il sole torna a splendere e dopo ogni inverno la primavera a rifiorire, ciò non avviene, per la bibbia, per una legge di natura necessaria e immutabile, ma perché Dio è fedele al suo amore, perché egli ama l’uomo e mantiene la parola data. Non che la bibbia ignori le leggi di natura che sottostanno ai fenomeni, ma al di là e oltre i fenomeni e le sue leggi, essa coglie l’amore gratuito e personale di Dio. La prima preghiera che, secondo la tradizione ebraica, l’orante dovrebbe recitare al mattino, appena gli occhi si aprono, suona: “Benedetto tu Signore, che fai tornare le anime ai corpi morti”. Svegliandosi e tornando al rapporto con il mondo, l’importante non è sapere come ciò avvenga, ma se ciò che avviene è per l’amore di Dio che crea e ricrea, essendo lui che “restituisce l’anima ai nostri corpi”.
    Sperare è attendere, cioè tendere, con tutte le proprie forze, verso questo amore che non dipende da noi ma ci è donato gratis. Di qui l’attesa come il primo tratto della soggettività abitata dalla speranza: non – si noti bene – l’attesa di ciò che l’io desidera, sogna o progetta; non l’attesa di ciò che i “re”, i “sovrani”, gli “intellettuali” o i “maestri” promettono; non l’attesa di ciò che le “filosofie”, le “ideologie” o i sondaggi di opinione anticipano, ma l’attesa di Dio e del suo amore: “L’anima mia attende il Signore più che le sentinelle l’aurora” (Sal 130). La soggettività abitata dalla speranza è la soggettività che “attende il Signore più che le sentinelle l’aurora”.
    Ma attendere l’amore di Dio è attendere la felicità che nell’amore di Dio si cela e si annuncia. Di qui il secondo tratto dell’attesa che è attesa della felicità: non la felicità soggettiva ignara della felicità altrui e preoccupata solo della propria, bensì la felicità oggettiva (oggettiva nel senso che riguarda ogni altro e il mondo) e della quale la felicità soggettiva è partecipazione e riflesso. Quando Dio libera Israele dall’Egitto e, sul Sinai, chiede ad Israele il suo amore di obbedienza, è questa felicità che Dio promette e che il libro del Deuteronomio descrive con linguaggio di rara potenza utopica: “Il Signore tuo Dio sta per farti entrare in un paese fertile: paese di torrenti, di fonti e di acque sotterranee che scaturiscono nella pianura e sulla montagna; paese di frumento di orzo, di viti, di fichi e di melograni; paese di ulivi, di olio e di miele; paese dove non mangerai con scarsità il pane, dove non ti mancherà nulla; paese dove le pietre sono ferro e dai cui monti scaverai il rame” (Dt 8.7-9).
    Prima che dal desiderio umano, questo linguaggio fluisce dalla consapevolezza e dalla certezza che l’amore di Dio, accolto nella fede e riprodotto nell’agape, è il principio sul quale si istituisce l’ordine del mondo e la felicità dell’uomo nel mondo. Se nel racconto dell’esodo questo ordo mundi (ordine del mondo) splendente di felicità per tutti si configura con i tratti della terra fertile e feconda, in seguito, di fronte alle smentite patite da Israele nella storia, esso acquisterà i tratti del futuro messianico o apocalittico oppure della Gerusalemme celeste e, nella tradizione cristiana, del paradiso proiettato oltre la storia. Ma a parte le diverse figure (terra promessa, futuro messianico, futuro apocalittico, Gerusalemme celeste, aldilà o paradiso), l’elemento permanente al di là delle pur profonde differenze è il nesso costitutivo tra l’ordine oggettivo, il mondo riuscito, e l’ordine soggettivo, l’accoglienza e l’obbedienza nell’amore. E se, per il racconto neotestamentario Gesù risorge da morte e, con la sua risurrezione, diventa per tutti principio di risurrezione, ciò è in forza della sua obbedienza all’amore del Padre con cui il mondo torna a rifiorire. Per questo, per il racconto neotestamentario, la risurrezione di Gesù è il fondamento della speranza (“Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra fede”, dirà Paolo in 1Cor 15,14) ed è come l’anticipazione o assaggio (con un termine teologico tecnico prolessi) della futura felicità che attende la creazione intera: “Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente, aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza” (Rm 8, 22-25).
    Fondamento della speranza, la risurrezione di Gesù è anticipazione e immagine non di ciò che sarà, secondo lo schema temporale inteso cronologicamente o evoluzionisticamente, né di ciò che dovrebbe essere, secondo la pretesa definizione della natura umana come struttura desiderativa, ma di ciò che in ogni istante deve essere secondo Dio. E ciò che deve essere non è la sottomissione ad una legge impersonale, ma il riconoscimento dell’amore nell’accoglienza della fede e nell’obbedienza della carità.
    Il mondo risorto, nuovo, buono ordinato e felice, fiorisce sulla radice della fede e della carità, sulla soggettività riattivata dalla soggettività di Gesù che per questo è “il capofila e il perfezionatore della fede” (Eb 12,2) e “il figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).

    La speranza come pazienza

    Attesa dell’Amore, la speranza è anche pazienza per l’amore assente e per questo atteso. Questo nesso tra attesa e pazienza è messo in luce espressamente da Paolo nel capitolo 8 della lettera ai Romani. Parlando della creazione che “geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” e “attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio”, perché solo “i figli di Dio”, cioè le soggettività buone conformi al suo volere, ne svelano e ricostituiscono lo splendore, l’apostolo conclude: “Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con pazienza”. Anche se nella traduzione liturgica della CEI (Conferenza Episcopale Italiana) al posto del termine pazienza figura quello di perseveranza, il termine greco originale (ypomone) etimologicamente vuol dire stare sotto, portando e sup-portando ciò che è sopra. La pazienza, che rimanda a patire, è patimento, ma patimento che paradossalmente non schiaccia chi patisce, ma fa di chi patisce il supporto o fondamento che regge e sorregge l’intero edificio.
    L’attesa quindi inseparabile dalla sofferenza: ma non la sofferenza identitaria prodotta dalla mancata realizzazione dei propri desideri o progetti (in questo caso più propriamente si dovrebbe parlare di frustrazione, come quella di chi, iscrivendosi ad un corso di laurea, non riesce a portarlo a termine), bensì quella procurata dalla mancata risposta della persona amata. Come ognuno sa per esperienza, amare è attendere il sì della persona amata e soffrire per il suo mancato assenso.
    Ma non si è detto che Dio ama l’uomo gratuitamente e che il suo amore lo previene e lo sorprende chiedendo solo in cambio di essere riconosciuto nella fede e riprodotto nell’amore di agape rivolto all’altro in quanto altro? In che senso allora si può parlare della sofferenza per l’attesa se Dio anticipa ogni nostra attesa ed è sempre al nostro fianco, anche lì dove lo pensiamo assente e indifferente?
    Un autore anonimo narra:
    “Una notte un uomo fece un sogno. Sognò di passeggiare lungo la spiaggia insieme con il Signore. Sulla volta del cielo balenavano scene della sua vita nelle quali osservava due coppie di impronte sulla sabbia: sue le prime, del Signore le altre. Quando apparve l’ultima scena, riguardando indietro sulla sabbia notò che molte volte c’era solo una coppia di impronte. E notò anche che ciò coincideva con i momenti più difficili della sua vita. Questo lo preoccupò e allora chiese al Signore: ‘Signore, tu hai detto che, una volta che avessi deciso di seguirti, avresti sempre camminato con me. Ma io ho notato che, nei momenti più difficili, c’è solo una coppia di impronte e non capisco perché mi abbia lasciato proprio quando avevo più bisogno di te’. Il Signore rispose: ‘Figlio mio, io ti amo e non ti ho mai lasciato. Nei periodi di dolore e della prova vedi solo una coppia di impronte perché ti portavo tra le mie braccia’”.
    Dio è sempre accanto, soprattutto nei momenti difficili dell’esistenza, ma noi non ce ne accorgiamo e lo pensiamo assente. Di qui la domanda di rimprovero: “Signore, tu hai detto che, una volta che avessi deciso di seguirti, avresti sempre camminato con me. Ma io ho notato che, nei momenti più difficili c’è solo una coppia di impronte e non capisco perché mi abbia lasciato proprio quando avevo più bisogno di te”; o addirittura il grido di angoscia, lo stesso di quello di Gesù sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Di qui l’angoscia dei mistici che li portano a parlare della “notte della fede”, un’immagine con cui intendono dire che spesso credere si accompagna al buio che stringe il cuore e fa paura. Come ogni credente sa per esperienza, Dio non risponde alle nostre attese e, come afferma Bonhoeffer, non colma il nostro vuoto ma lo mantiene, perché solo nel vuoto l’io muore a se stesso e si apre a Dio.
    Ma c’è una seconda figura di sofferenza, più radicale ancora, che non è la mancata percezione della presenza di Dio nella propria vita (mi è accanto ma io non me ne accorgo), ma il rifiuto della sua presenza nella propria vita: non l’io che percepisce Dio lontano ma l’io che tiene Dio lontano, impedendo al suo amore di entrare nella storia e circolare. Se attendere Dio è tendere a lui, e se tendere a lui è rispondergli, rispondergli esige il coraggio della decisione con cui si taglia il legame organico con il proprio io (la radice verbale decidere vuol dire recidere) per dire sì a Dio. Se questo è vero, qui paradossalmente ad attendere non è più l’uomo ma Dio.
    Nel 1917, nel pieno della devastazione della prima guerra mondiale, rispondendo alla lettera del teologo Franz Werfel che gli chiedeva il suo punto di vista ebraico su Gesù, Martin Buber scriveva:
    “Non sono io che attendo Dio ma Dio che attende me. Dio attende di poter dire a te, a me, a ogni singola persona ciò che, secondo il racconto del Vangelo ebraico, lo Spirito disse a Gesù, quando lo elevò nel battesimo alla condizione di figlio: Figlio mio, ti ho atteso in tutti i profeti, ho atteso che tu giungessi e che io trovassi pace in te. Poiché tu sei la mia pace. No, caro amico, nulla ci viene imposto da Dio, tutto è atteso. E tu dici, giustamente, che dipende da noi se vogliamo vivere la nostra vita per portarla a termine nella nostra unicità. Ma secondo l’insegnamento cristiano, che ha alterato il significato e il retroterra di Gesù, non dipende da noi, ma dal fatto che siamo o meno scelti. Ma il nostro insegnamento è: ciò che conta non è se Dio mi ha scelto, ma che io ho scelto Dio. Perché in realtà non è affare di Dio scegliere o ripudiare. Nella misura in cui rimette l’individuo alla grazia, quell’insegnamento, che si definisce cristiano, lo ostacola nella decisione, quella metanoia proclamata da Gesù… Perciò lotterò per Gesù e contro il cristianesimo” (citato da A. Cox, Rabbi Yeshua Ben Yoseph: riflessioni sull’ebraicità di Gesù e il dialogo interreligioso, in AA. VV., L’ebraicità di Gesù, a cura di J. H. Charlesworth, Claudiana, Torino 2002, p. 42; corsivo mio ad eccezione dell’ultimo).
    E subito dopo, precisando in che senso debba essere inteso ebraicamente il “regno di Dio” di cui si parla nei vangeli, Buber aggiungeva:
    “Ciò che Gesù definisce il Regno – non importa quanto permeato da un senso della fine del mondo e di una trasformazione miracolosa – non è consolazione ultramondana, né vaga beatitudine celeste. E non è neppure una comunità ecclesiastica o cultuale, una chiesa. È la vita perfetta dell’uomo con il suo simile, la vera comunità, e in quanto tale l’immediato regno di Dio, la basileia di Dio, il regno terreno di Dio” (ivi).
    Contro la visione cristiana che pone al centro della sua riflessione la grazia di Dio dalla quale l’uomo attende e spera di essere prima o dopo raggiunto e cambiato, Buber, con un radicale capovolgimento, afferma che, per la logica biblica, non si tratta di attendere la grazia di Dio, essendo questa un dono che egli non nega mai (“perché in realtà non è affare di Dio scegliere o ripudiare”), ma di rispondere ad essa, per cui “non sono io che attendo Dio ma Dio che attende me”, che attende cioè la risposta dell’uomo al suo appello. Capovolgimento radicale che il filosofo ebreo ribadisce denunciando senza mezzi termini dove, per lui, il cristianesimo si sarebbe allontanato dalla sua matrice ebraica: “Secondo l’insegnamento cristiano, che ha alterato il significato e il retroterra di Gesù, non dipende da noi, ma dal fatto che siamo o meno scelti. Ma il nostro insegnamento è: ciò che conta non è se Dio mi ha scelto, ma che io ho scelto Dio”. Per Buber è un problema falso porsi la domanda se Dio mi doni la sua grazia (“se Dio mi ha scelto”), essendo questo il cuore stesso del messaggio biblico, mentre per lui il vero problema è un altro: che l’io scelga di scegliere chi, gratuitamente e per amore, per primo lo ha scelto e amato. Per questo, nel racconto biblico, il simbolo per eccellenza del rapporto tra Dio e l’uomo è la storia paradossale impersonata dal profeta Osea: l’innamorato di una prostituta che si ostina ad attendere e sperare che, prima o dopo, la donna perdutamente amata risponda al suo amore. Dio è il perdutamente innamorato dell’uomo che in ogni istante attende che questi risponda al suo amore. Di qui l’affermazione paradossale di Buber secondo la quale “non sono io che attendo Dio ma Dio che attende me”.
    Dio attende che l’uomo gli risponda perché senza la sua risposta il suo amore non circola nel mondo.
    Ma se rispondere a Dio è amare il prossimo, e amare il prossimo è amarlo come Dio, indipendentemente da ogni sua risposta, allora l’amore al prossimo è inseparabile dalla pazienza: la figura più alta della sofferenza e il senso stesso ultimo della speranza. Pazienza è patire per amore. Ma, differenza abissale, l’amore per cui si patisce non è l’amore di desiderio, in cui la sofferenza è per l’altro desiderabile che non colma il desiderio del desiderante, bensì l’amore di alterità, in cui la sofferenza è per la sua alterità che, irriducibile al desiderio, apre l’al di là del desiderio che è la bontà o santità: un modo d’essere che è al di là dell’essere e che non consiste più nella volontà di essere e di persistere nell’essere ma nel disinteressamento, nella gratuità, nell’oblìo di sé, nella compassione e nel perdono.
    Se sperare è attendere, tendere all’altro e verso l’altro, l’altro al quale si tende non è il desiderabile che colma e riduce la distanza tra il desiderante e il desiderato, ma l’alterità o volto che irriducibile all’io e assoluto, nel senso di sciolto o slegato dall’io, fa dell’io, secondo le parole di Lévinas, un io “a responsabilità illimitata”. La pazienza è l’amare sempre l’altro gratuitamente e il soffrire per questo amore che non colma ma che, bontà, è più di ogni soddisfazione e riempimento ed è il senso stesso dell’umano. Per questo la pazienza, per Lévinas, coincide con la definizione stessa del tempo, “attesa paziente e attesa senza atteso” (Dio, la morte e il tempo, Jaca Book, Milano 1996, p.165), che, lungi dall’essere ricondotto al soggetto e alla sua volontà di identificazione e di dominio, è la sua messa in crisi e il suo invecchiamento, cioè lo svelamento dell’impossibile inerenza e attaccamento di sé a sé. Essere è invecchiare, invecchiare è perdersi, e perdersi è amare di quell’amore che non è riempimento e compimento ma gratuità e disinteressamento. Come vuole sempre Lévinas, essere buono “è deficit, deperimento e stoltezza nell’essere”, ma questo meno non è un meno ma paradossalmente un più, perché “eccellenza e altezza al di là dell’essere. Il che significa che l’etica non è un momento dell’essere, ma è altrimenti e meglio che essere” (ivi, p. 296; corsivo dell’autore).
    L’esistenza teologale, l’esistenza interpretata coram Deo e tematizzata come tale, è l’esistenza che accoglie l’amore di Dio nella fede, vi obbedisce nella carità e la esegue nell’attesa e nella pazienza. La storia, spazio soggettivo e intersoggettivo, è il luogo dove incarnare l’amore di Dio accolto e obbedito. Incarnarlo: attendendo l’altro – ogni altro – traccia dell’Altro in qualsiasi angolo in cui ci accade di incontrarlo e amandolo sempre gratuitamente e senza attendersi mai nulla in cambio. L’esistenza teologale è l’esistenza dove l’io si perde, ma perdendosi si ritrova e si salva: “chi ama la sua vita la perde, mentre chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna” (Gv 12, 25).


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