I SOGGETTI
Paolo Giulietti
(NPG 2015-04-11)
Per educare un figlio ci vuole un villaggio.
L’espressione resa celebre da papa Francesco può essere letta in due direzioni: non esiste educazione senza comunità e al di fuori della comunità; non esiste comunità che possa chiamarsi fuori dal compito educativo.
In prospettiva intraecclesiale, entrambe le piste ci sono state additate dai documenti della Chiesa italiana, da Educare i giovani alla fede a Educare alla vita buona del Vangelo, passando per le note sulla missionarietà delle parrocchie, sul primo annuncio e sull’iniziazione cristiana.
La risposta delle comunità cristiane è stata ambigua: da una parte continua a esistere un certo “parallelismo” tra pastorale giovanile e comunità, portato della crescente fatica di comunicare tra le generazioni, anche di preti (come da visioni limitate e limitanti del servizio educativo); dall’altra crescono le esperienze di coinvolgimento di una pluralità di soggetti nei percorsi e negli ambienti educativi.
La riflessione si complica se assumiamo in senso ampio la categoria di “villaggio”, come l’insieme dei soggetti presenti sul territorio che interagiscono con il mondo giovanile. Anche in questo caso non mancano i segnali di una (almeno in parte) inedita collaborazione delle realtà di pastorale giovanile con le altre agenzie educative locali, accanto a molte situazioni in cui ci si comporta da perfetti estranei, quando non da concorrenti.
In entrambe le prospettive, le innegabili e variegate difficoltà di collaborazione/ integrazione possono essere affrontate a partire da alcuni punti comuni:
- i figli sono una cosa preziosa per tutti: al di là di ogni differenza, condividiamo un medesimo interesse per la loro educazione, le medesime preoccupazioni per l’esito dei percorsi di crescita, lo stesso senso di frustrazione quando un ragazzo si perde e la stessa gioia quando lo si vede fiorire alla vita; I soggetti- -è
- nessuna agenzia è capace da sola di conseguire i propri obiettivi, se davvero scommette sull’educazione e non si accontenta di obiettivi intermedi, spesso funzionali più alla società che al giovane: le alleanze sono oggi una necessità; - non basta, anche se è già qualcosa, far quadrato contro alcuni “nemici comuni” (dipendenze, media, cultura dello scarto, economia che uccide…), occorre sperimentare con coraggio percorsi di progettualità condivisa e di feconda interazione reciproca.
Dalla parte dei giovani e dei loro educatori, ciò significa assumere i processi di socializzazione/iniziazione come orizzonte; in altre parole: introdurre alla più ampia comunità non è un corollario, ma sta al cuore dell’azione educativa, che deve progressivamente puntare a costruire legami e a far assumere ruoli nel mondo adulto.
Da parte della comunità, ciò significa fare un serio esame di coscienza sul proprio essere o meno “un posto per giovani”, sapendo che una parrocchia o una collettività educativamente “sterili”, incapaci cioè di generare alla pienezza della vita le nuove generazioni, sono fallite nel profondo, poiché vengono meno a quella generatività in cui risiede l’essenza dell’adultità.
Dinanzi a tali sfide, un compito centrale e costitutivo dell’educatore (del servizio di pastorale giovanile, dell’oratorio, dell’associazione…) appare sempre più quello di costruire ponti: avvicinare i giovani al mondo adulto, conducendoli a divenirne partecipi; aiutare la comunità adulta a farsi accogliente e attiva verso i giovani. Per dirla con Malachia (sono le ultime parole dell’AT!): convertire “i cuori dei padri verso i figli e i cuori dei figli verso i padri” (3, 24).
Al di fuori di questo, dice il profeta, ci attende lo “sterminio”, cioè il collasso dell’identità verso derive nichiliste e autodistruttive.