Alberto Martelli
(NPG 2015-05-21)
Credo sia una sensazione comune, ma più volte ho l’impressione che la misericordia sia considerata una aggiunta, quasi una eccezione.
Come se il percorso normale della verità e della giustizia chiedessero di procedere in una direzione, ma, non si sa come né perché, ad un certo punto, implorando e supplicando, viene concesso un gesto alternativo, fuori dal comune, fuori dal normale corso degli eventi e la misericordia diventa visibile.
Come se le opere di misericordia (che la tradizione ha suddiviso in corporali e spirituali), o anche la stessa misericordia divina, non fossero la normalità, ma l’eccezione, ciò che non ti dovresti aspettare, ma che puoi invocare come ad un imperatore clemente, che forse oggi… se di buon umore… se benevolo con te… può cambiare l’ordine degli eventi e essere misericordioso con i suoi sudditi.
La bolla di papa Francesco, sulla scia di una lunga riflessione e tradizione chiede invece fin da subito che si imprima bene nella mente e nella fede di ogni cristiano un’altra mentalità: la misericordia è il centro della verità. Finalmente la verità e la misericordia si rivelano per quello che sono: le due facce dello stesso Dio, anzi, la verità “è” la stessa misericordia divina: «Il mistero della fede cristiana sembra trovare in questa parola la sua sintesi» [1].
Occorre quindi rivedere l’intera teologia, antropologia e pastorale sotto questa ottica perché questo è il centro della rivelazione di Dio.
Il Cristo ci rivela la stanza nuziale
Riprendendo brevemente la simbologia utilizzata da Santa Teresa nel suo Castello interiore, la missione di Cristo ha come obiettivo la rivelazione della stanza nuziale di Dio e dell’uomo, della interiorità più profonda della Trinità, ossia del fatto che la fede è in realtà comunione nuziale con il Padre del Figlio nello Spirito Santo.
Non si tratta soltanto di sapere delle cose di Dio, ma di venire poco alla volta, attraverso la partecipazione alla vita stessa del Figlio, introdotti nella intimità di Dio Trinità; fino a quel livello inimmaginabile che l’abitare la stanza più profonda e più nascosta del castello simboleggia, quella in cui soltanto il Signore e i suoi figli possono accedere.
Ebbene questa stanza è la misericordia.
«Misericordia: è la parola che rivela il mistero della SS. Trinità. Misericordia: è l’atto ultimo e supremo con il quale Dio ci viene incontro. Misericordia: è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita. Misericordia: è la via che unisce Dio e l’uomo, perché apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre nonostante il limite del nostro peccato» [2].
La rivelazione della misericordia e la sua presa in considerazione come centro della rivelazione ha come conseguenza che al nucleo della creazione sta l’elezione degli uomini da parte del Padre. «Questa “rivelazione” manifesta Dio nell'insondabile mistero del suo essere - uno e trino - circondato di “luce inaccessibile” (1 Tim 6, 16). Mediante questa “rivelazione” di Cristo, tuttavia, conosciamo Dio innanzitutto nel suo rapporto di amore verso l'uomo: nella sua “filantropia” (Tit 3, 4) [3].
Il dato fondamentale della rivelazione della misericordia divina consiste nell’accertamento della fondamentale vocazione dell’uomo ad essere il partner di Dio, ad immagine e somiglianza del Cristo suo Figlio. L’uomo è stato tratto dal nulla e posto nell’esistenza precisamente per il dialogo di amore col Padre nello Spirito reso possibile dal Cristo risorto. La pastorale, non ultima la pastorale giovanile, deve ripensarsi non a partire dalla dipendenza creaturale, né tanto meno dalla estraneità tra Dio e gli uomini, ma a partire dalle categorie di alleanza e partecipazione divina, ossia dalla categoria fondamentale della misericordia divina quale dono creativo della persona di ogni giovane. Ogni giovane affidato alla cura ministeriale della Chiesa, quale continuazione e prolungamento della missione del Figlio, è voluto per l’alleanza e per questo creato. La ragione ultima della dignità di ogni giovane risiede proprio nella misericordia di Dio che ha dato vita alla sua esistenza e contemporaneamente lo chiama ad una alleanza da verificare nella storia della libertà di ognuno.
La pastorale giovanile trova così la reale profondità teologica del principio della incarnazione, che è, insieme al mistero pasquale che lo completa, rivelazione storica della identità della Trinità nella sua realtà personale e nella sua missione di amore.
Alcune conseguenze per la pastorale giovanile
Cerchiamo ora di rileggere in questa chiave la nostra azione pastorale in particolare nei confronti dei giovani per non rischiare di lavorare invano, senza arrivare al cuore della missione divina ed ecclesiale.
Il fine: la nuzialità del discepolo nella forma della misericordia
La pastorale giovanile, in quanto insieme delle azioni della Chiesa per l’evangelizzazione di quella particolare età della vita che è quella dei giovani, non è semplicemente una azione accanto alle altre, ma fa parte del cuore dell’essere stesso della comunità ecclesiale. Nella pastorale giovanile, nel suo significato profondo e completo di missione ecclesiale per/con i giovani, noi ritroviamo la fisionomia stessa del corpo di Cristo.
L’obiettivo di questa missione non può che essere la forma del discepolato, nel suo senso proprio di proposta di vivere la vita umana come l’ha vissuta Gesù, nella consapevolezza che questo significa il quotidiano cammino di santificare la vita di ogni giovane, come ha fatto il Signore con la propria, in ogni momento specifico della sua esistenza. Ecco come mirabilmente si esprime Ireneo di Lione in proposito:
«Gesù non rifiutava né oltrepassava la natura umana, né aboliva in se stesso la legge del genere umano, ma santificava ogni età per la somiglianza che ciascuna aveva con lui. Egli è venuto a salvare tutti per mezzo di se stesso; intendo dire tutti coloro che rinascono in Dio: infanti, fanciulli, ragazzi, giovani e adulti. E per questo è passato attraverso ogni età: si è fatto infante per gli infanti, per santificare gli infanti; fanciullo tra i fanciulli, per santificare coloro che avevano questa stessa età divenendo contemporaneamente per loro esempio di pietà, di giustizia e di sottomissione; giovane tra i giovani per divenire esempio per i giovani e consacrarli al Signore. Così si è fatto adulto tra gli adulti, per essere un maestro perfetto in tutto, non solo in rapporto all’esposizione della verità ma anche in rapporto all’età, per santificare anche gli adulti divenendo esempio anche per loro» [4].
È dunque un dato di fatto che il fine ultimo del nostro impegno educativo-pastorale sia quello di abilitare i giovani al discepolato cristiano.
Rileggere questo nell’ottica della misericordia significa rileggere il tutto nell’ottica della elezione e della nuzialità perché il discepolato è inquadrato nell’amore del Padre.
Il fine ultimo di tutto non può che essere la “comunione”. Non semplicemente la conoscenza e nemmeno l’amicizia col Signore soddisfano l’amore misericordioso di Dio. L’incarnazione del Figlio rivela il grembo accogliente del Padre che come nelle parabole della misericordia attende il Figlio non perché stia al suo servizio, né perché stia semplicemente di fianco a lui, ma perché ne condivida il trono regale, come una sposa con lo sposo. L’incarnazione è in vista della donazione, non di un “qualcosa” della propria regalità, ma dell’essere stesso del Re, in vista della comunione.
La prospettiva della misericordia, in questa precisa direzione, afferma fin dall’inizio che il fine ultimo dell’uomo non è né una visione di Dio, come se fossimo semplicemente uno di fronte all’atro, né la autorealizzazione dell’uomo, come se Dio semplicemente donasse dei doni che poi in modo autonomo noi utilizziamo e portiamo a compimento, né una semplice fratellanza, come due persone una accanto all’altra. Il fine della pastorale giovanile è la mistica nuziale tra gli uomini e Gesù Cristo, come comune e pieno adempimento della loro originaria, radicale e condivisa, seppur asimmetrica, filialità. Il cammino di discepolato è un itinerario concreto di appropriazione del dono divino della misericordia adottiva.
L’origine: la libertà come rendere grazie dell’amore
La misericordia è la forma stessa della libertà di Dio. Ogni agire divino ha come origine il suo amore misericordioso. Questo significa che anche la libertà dell’uomo ha come origine la misericordia divina; perciò occorre insegnare ai giovani che il primo passo per essere liberi è rendere grazie dell’amore ricevuto.
Il tema della libertà è uno dei temi fondamentali su cui l’età giovanile deve lavorare in vista della piena maturità.
L’illusione moderna che ci spinge a credere che tutto parta dal nostro io, porta a supporre, a volte anche inconsciamente, che la nostra libertà sia metro di misura autonomo del nostro rapporto con Dio e con gli altri. Come se in prima battuta esistesse la libertà di ogni “io” e questa successivamente incontrasse in qualche modo la libertà degli altri e di Dio stesso. Dal risultato di questo incontro dipenderebbe poi la fede e il discepolato, l’amorevolezza o la estraneità.
In realtà la considerazione della misericordia divina ci aiuta a renderci conto che la sua santità «non è ragionevole, ma amorevole» [5], e il canone della vita di ogni uomo è la libertà amorevole di Cristo che si fa dono responsabile.
Ogni giovane, per giungere a piena maturità, deve in primo luogo rendersi conto che la sua vita non è posta nel nulla dell’esistenza, o di fronte ad un destino o a un caso ciechi e incomprensibili, ma è posta già nelle viscere d’amore del Padre e la sua libertà e responsabilità consistono innanzitutto nel riconoscere di essere in qualche modo preceduti da un amore che ci custodisce prima ancora di essere messi al mondo.
Entro questa relazione di amore, testimoniato dalla dedizione personale di Cristo fino alla croce (fatta ancora prima della “prova” della nostra fede in lui e in modo assolutamente impagabile nei confronti della nostra libertà) è possibile per i giovani un altro modo di essere, profondamente filiale. La libertà piena di ogni giovane trova la sua verità più profonda nel riconoscersi amata fin dalla creazione del mondo.
La forma: la ricerca di una concretezza “viscerale”
«Misericordia» è una parola dalle origini antiche e profonde. Nell’Antico testamento essa è espressa con due termini tra loro spesso correlati: hésèd,che si traduce molto semplicemente con amore e rahamîm, il cui significato letterale è “le viscere”, una forma plurale di réhèm, il seno materno.
La misericordia divina ha una carica corporale, fisica, che ne connota la profondità. L’amore di Dio non è un sentimento o un pensiero, ma nasce e vive nel profondo delle viscere del Padre; è quasi un aspetto fisico, carnale.
La forma della misericordia che Dio ha nei nostri confronti non ha nulla di teorico o di volatile. Come per l’eucaristia e per tutta la fede cristiana, anche la misericordia ha la sua verità piantata dentro la carne di Cristo e dei suoi fratelli d’elezione.
Il discepolato nuziale ha carattere “corporale”; Dio si incontra nella carne dell’amore che si fa concretezza quotidiana; in quelle viscere d’amore che danno luce, come un parto, ad una nuova vita. Vivere della misericordia di Dio vuol dire giungere a sentirsi "partoriti" dal Padre per, a nostra volta, partorire con amore i fratelli, curarsi di loro come se facessero parte della nostra stessa carne vitale; vuol dire prendere sul serio l’essere uno stesso corpo mistico, fino quasi a sentire il dolore per ogni separazione, malattia o ferita che tale corpo soffre a causa delle nostre e altrui mancanze.
La vita di fede è vita di carne misericordiosa, perché fino a dare la carne Dio ci ha amati per primo. Occorre strappare i cammini di fede dei giovani dalla volatilità e sterilità del pensare e del sentire emozionale per giungere a “sentire Dio col proprio corpo”, fin nelle viscere più profonde di ognuno di noi.
La strada: il primato del perdono (ricevuto e dato)
Non siamo semplicemente peccatori, né semplicemente santi, ma siamo peccatori perdonati. Questo svela la misericordia di Dio.
Il cammino di fede di ogni giovane deve riconoscere che vi è un primato della conversione sul cammino. Il discepolo non è soltanto colui che svolge il proprio itinerario dietro al Signore che gli fa da maestro, ma è innanzitutto colui che si riconosce debitore di un amore che ha fondato la sua conversione e per questo gli ha fatto ritrovare la strada da percorrere. Ogni cammino di fede inizia dalla conversione del cuore, che non è frutto semplicemente della volontà del discepolo, ma grazia accordata alla coscienza di ognuno dalla misericordia efficace del Padre e del Figlio e dall’azione santificatrice dello Spirito Santo.
Vi è quindi un primato del perdono su ogni altra azione psicologica e su ogni altra scelta di cammino. Al giovane non si chiede di essere convinti della propria decisione, né di dimenticare il passato, né semplicemente di convertirsi, come se tutto dipendesse dalla sua propria e solitaria volontà. Il giovane deve rendersi conto di essere preceduto dalla misericordia, perdonato ancora prima di chiedere perdono.
La parabola del padre misericordioso esprime bene tutto questo. La vera rinascita del figlio non avviene quando riconosce il suo errore (cosa già in partenza determinata dal ricordo del Padre, cioè dalla rinascita nel cuore dell’amore ricevuto), o crede di poter decidere cosa deve dire al padre per essere perdonato; la rinascita avviene soltanto dopo le parole del padre, in seguito alle quali nulla più ha da di dire il figlio peccatore se non lasciarsi abbracciare e ricondurre alla dignità regale che gli spetta.
Come l’inizio del cammino è segnato dal perdono ricevuto, così la potenza della misericordia trasforma il cuore di ognuno, rendendoci in grado di fare ciò che solo Dio può fare: perdonare. Non si tratta soltanto di un cammino psicologico di guarigione (cammino che a volte i giovani devono compiere per riuscire a riprendere in mano la propria vita), si tratta di una esuberanza della grazia a cui il giovane si sottopone e che lo illumina dall’interno e lo rende in grado di creare un mondo nuovo, non dimenticando, né lasciando perdere il passato, ma perdonando, ossia facendo nuove tutte le cose che sono state partorite con le viscere di misericordia che il Padre gli ha concesso di condividere con Cristo.
La consolazione: la vittoria della croce sulla sofferenza
Nell’ottica rivelata della misericordia di Dio, al discepolo non è chiesto di vivere il dolore, ma di vivere la croce.
«Gli eventi del Venerdì santo e, prima ancora, la preghiera nel Getsemani introducono, in tutto il corso della rivelazione dell'amore e della misericordia, nella missione messianica di Cristo, un cambiamento fondamentale» [6].
Non si può pensare il passaggio dalla giovinezza alla vita adulta in maniera sostanzialmente differente da quella che ha contraddistinto la scena originaria della rivelazione cristologica: la scena della passione, morte e risurrezione di Cristo.
Ogni giovane che voglia definirsi discepolo giunge a piena maturità assumendo la stessa fisionomia di Cristo, disponibile a donare se stesso fino alla croce con amore per la vita del mondo. La partecipazione all’umiliazione e allo svuotamento del Figlio non sono semplici optional della vita cristiana, ma ne sono la forma e la forza originaria.
Ma il cammino del discepolo diventa tale quando trasforma la sofferenza in croce di Cristo.
«“Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore”, scriverà san Paolo, riassumendo in poche parole tutta la profondità del mistero della croce e insieme la dimensione divina della realtà della redenzione. Proprio questa redenzione è l'ultima e definitiva rivelazione della santità di Dio, che è la pienezza assoluta della perfezione: pienezza della giustizia e dell'amore, poiché la giustizia si fonda sull'amore, da esso promana e ad esso tende» [7].
La sofferenza che segna in qualche modo la vita di ogni giovane, non è incidente di percorso o prova stoica da superare con le proprie forze. Il Risorto non è vivo in contraddizione con la croce, ma in sua intima relazione. Gesù risorge a motivo della croce, e non nonostante la croce. Lo stesso percorso che Gesù compie sulla croce, lo compie ogni discepolo che chiede per grazia misericordiosa di vivere ogni sofferenza non come propria, né come incidente, ma come mezzo per essere in comunione con la croce di Cristo.
«Il modo in cui effettivamente Gesù ha vissuto la sua passione e la sua morte davanti agli occhi dei suoi stessi discepoli conferma che egli accettò l’ambiguità della sua stessa eliminazione, a fronte del loro stesso ‘teismo’, per rimanere assolutamente fedele all’inaudita verità di Dio (misericordia in persona) che era oggetto della sua ‘rivelazione’» [8].
L’estasi: l’eucaristia
Il fatto di prendere la misericordia come centro della rivelazione di Cristo pone in evidenza che il mondo nel suo insieme esiste come dono, la rivelazione è la donazione totale di Dio e il fine dell’universo è la comunione piena tra il Dio tutto amore e tutti gli uomini.
Al centro della fede sta la donazione di Gesù come fonte e culmine di tutta la vita cristiana e di tutta l’evangelizzazione e quindi, di conseguenza, di ogni azione pastorale che abbia la pretesa di dirsi ed essere tale. «La possibilità per la Chiesa di “fare” l’Eucaristia è tutta radicata nella donazione che Cristo le ha fatto di se stesso» [9].
La pastorale giovanile, mettendo al centro l’eucaristia rende evidente che ogni discepolo non sta semplicemente di fronte a Cristo, ma viene abitato e abilitato dalla sua grazia, concretizzata nel sacramento eucaristico, affinché la donazione del Figlio a noi, resa possibile dall’eterna misericordia del Padre diventi il principio attivo di ogni vita.
«La celebrazione eucaristica è l’evento dell’incontro personale, affidabile e autentico, con Gesù, nel grembo materno della comunità ecclesiale. Per questo, l’impegno di diventare annunciatori e testimoni del Risorto richiede la decisione di mettere l’Eucaristia al centro del processo. In questo, ci sentiamo nella dolce compagnia dei due discepoli di Emmaus» [10].
Tale ineccepibile intuizione è da recuperare in tutta la sua forza generativa, creando così le condizioni per un autentico ripensamento della pastorale giovanile.
«In ogni atto della vita il cristiano è chiamato ad esprimere il vero culto a Dio. Da qui prende forma la natura intrinsecamente eucaristica della vita cristiana. In quanto coinvolge la realtà umana del credente nella sua concretezza quotidiana, l’Eucaristia rende possibile, giorno dopo giorno, la progressiva trasfigurazione dell’uomo chiamato per grazia ad essere ad immagine del Figlio di Dio (cfr. Rm 8,29s). Non c’è nulla di autenticamente umano – pensieri e affetti, parole e opere – che non trovi nel sacramento dell’Eucaristia la forma adeguata per essere vissuto in pienezza. Qui emerge tutto il valore antropologico della novità radicale portata da Cristo con l’Eucaristia: il culto a Dio nell’esistenza umana non è relegabile ad un momento particolare e privato, ma per natura sua tende a pervadere ogni aspetto della realtà dell’individuo» [11].
Il protagonista: la comunità luogo/volto della misericordia
«La Chiesa vive una vita autentica, quando professa e proclama la misericordia - il più stupendo attributo del Creatore e del Redentore - e quando accosta gli uomini alle fonti della misericordia del Salvatore di cui essa è depositaria e dispensatrice» [12].
La misericordia non è mai individuale, ma sempre un fatto di comunione. Essa ha la sua origine nella Trinità dalle cui viscere nasce una comunità.
Il tema della Chiesa è forse uno dei più sottaciuti nella pastorale giovanile, dove difficilmente avviene l’accordatura tra l’individualismo del discepolo nella sua personale responsabilità di seguire il Signore risorto, e la forma comunitaria della fede come origine e fine di tale cammino. Per timore nei confronti del pensiero corrente sulla Chiesa e per malformazione moderna della nostra concezione individualista della persona, i giovani fanno sempre più fatica a concepire il perché profondo del legame che li unisce alla comunità che li ha generati.
Ma la misericordia di Dio è luogo dell’affetto e della molteplicità dei legami, non luogo della solitudine. Si impone così il ripensamento della evangelizzazione a partire dai legami ecclesiali e dalla forza testimoniale della comunità. Una evangelizzazione impegnata, non a dimostrare la verità astratta del messaggio/vita cristiana, ma a mostrare nella pratica effettiva dei legami relazionali incentrati sulla misericordia, la sua “convenienza” quasi ontologica alla vita di ogni giovane.
Conclusione
«Abbiamo sempre bisogno di contemplare il mistero della misericordia» [13].
Sarà «un Anno Santo straordinario, dunque, per vivere nella vita di ogni giorno la misericordia che da sempre il Padre estende verso di noi. In questo Giubileo lasciamoci sorprendere da Dio. Lui non si stanca mai di spalancare la porta del suo cuore per ripetere che ci ama e vuole condividere con noi la sua vita» [14].
NOTE
[1] Francesco, Misericodiae vultus, 1.
[2] Ivi, 2.
[3] Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, 2
[4] Ireneo di Lione, Contro le eresie, II,22,4.
[5] P. Barcellona in Id. - F. Ventorino, L’ineludibile questione di Dio, 11.
[6] Dives in misericordia, 7.
[7] Dives in misericordia, 7.
[8] P. Sequeri, L’idea della fede…, 107.
[9] Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 14.
[10] R. Tonelli - S. Pinna, Una pastorale giovanile per la vita e la speranza…, 148-149.
[11] Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 71.
[12] Dives in misericordia, 13.
[13] Misericordiae vultus, 2.
[14] Misericordiae vultus, 25.