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    L'animazione culturale nella pastorale giovanile in Italia



    Paolo Giulietti


    (NPG 2002-09-62)


    In tutti i cammini sono importanti i momenti in cui ci si ferma e si guarda indietro. Considerare la strada percorsa, verificarne la coerenza con i progetti iniziali, è il modo migliore per continuare a procedere bene. Quando si percorre un sentiero in montagna, è necessario ogni tanto, bussola alla mano, verificare la propria posizione: occorre però trovare un sito topograficamente sensibile al quale fare riferimento (un’altura, un ponte, una deviazione…).

    Ho cercato di leggere il libro di Mario Pollo esattamente in questa prospettiva: una collina sulla quale arrampicarsi per guardare indietro, a più di trent’anni di pastorale giovanile ispirati allo stile e al metodo dell’animazione culturale; e per guardare avanti, al cammino che ci attende.

    Uno sguardo al passato…

    Anche ad una lettura superficiale non si può non riconoscere che l’animazione culturale ha caratterizzato in maniera decisa la pastorale giovanile italiana degli ultimi lustri. Alcuni fenomeni sono macroscopici:
    – “animatore” è divenuta la designazione tipica dell’operatore della pastorale giovanile. Non più e non solo “catechista”, perché non ci si è riconosciuti più nel ruolo e nello stile di chi mette in primo piano la trasmissione dei contenuti della fede (ed anche per la volontà di distinguersi dai processi dell’iniziazione cristiana); neppure semplicemente “educatore”, perché si è sposato un preciso stile, centrato sulla persona e sul gruppo; non – infine – “operatore pastorale”, perché lo stile di lavoro è stato caratterizzato dalla militanza personale e dal mettersi in gioco accanto ai giovani.
    – il gruppo è divenuto strumento educativo privilegiato e universale, fino a costituire quasi l’unico luogo della pastorale giovanile per l’educazione alla fede;
    – il metodo dell’animazione culturale, il suo linguaggio, le sua caratteristiche tecniche ed operative, sono entrati a far parte dello stile di lavoro e di progettazione di generazioni di animatori, di numerose associazioni e diocesi… fino a costituire l’ispirazione e l’ossatura di una gran parte dei percorsi di formazione per operatori della pastorale giovanile.

    Il testo di Pollo ci mette in condizione di esercitare un’ispezione critica della prassi pastorale del recente passato. Uno sguardo attento consente di individuare, accanto ai segni di grande successo della proposta dell’animazione culturale, anche alcuni dati problematici.
    – C’è stata una certa “contaminazione” tra i diversi modelli di animazione, che ha portato ad un certo svilimento dell’azione educativa: mi riferisco alla riduzione ludico/sportiva, all’enfasi sulla dimensione tecnica o addirittura al decadimento nel “modello club-med”, volto al puro divertimento. Il riferimento all’animazione è stato non di rado un modo per alleggerire la proposta di gruppo con qualche gioco o tecnica… fino ad una vera e propria abdicazione dell’azione educativa in favore di forme di intrattenimento niente affatto formative. In molti casi la scelta dell’animazione ha permesso di liberarsi da una pedagogia frontale e centrata sul cognitivo, senza però che fosse promossa una seria alternativa. Alcune diffidenze (non solo da parte degli anziani parroci) nei confronti dell’animazione si radicano in tale contaminazione.
    – Si è avuto inoltre un pronunciato “fissismo” del gruppo. La centralità postulata dalla teoria dell’animazione culturale è stata spesso male interpretata, provocando di fatto il proliferare di un’unica tipologia di gruppo: coetanei, in genere studenti, che si incontrano una volta alla settimana per parlare, avendo come finalità comune la formazione cristiana. Questa situazione ha determinato di fatto un certo “ingessamento” della pastorale giovanile, restringendo l’azione della comunità cristiana a certe categorie di giovani, a precisi linguaggi, a determinati tempi e luoghi. Le potenzialità liberatrici dell’animazione culturale, la sua capacità di proporre dovunque e a chiunque percorsi educativi… sono stati imbrigliati dal fissarsi su una precisa forma di gruppo primario. Da strumento di accoglienza, di coinvolgimento e di proposta, l’animazione ha rischiato di divenire metodo (magari assai sofisticato) di gestione dei “pochi” giovani ancora disponibili a coinvolgersi in un percorso di gruppo strutturato, definito e chiaramente finalizzato.
    – Si può constatare, infine, in molti casi una rilevante “riduzione” del metodo: qualche passaggio è stato saltato nell’applicare il metodo dell’animazione alla pastorale giovanile. Mi limito a segnalare le deficienze più evidenti:
    * un deficit di adultità: laddove l’animazione richiede una autentica asimmetria tra educatore e gruppo, si è avuta spesso una bassa età media degli animatori, anche a causa del disimpegno della comunità cristiana nell’accompagnamento dei giovani (“tanto ci pensano il curato e i suoi animatori!”);
    * una ridotta competenza nella gestione delle relazioni animatore-gruppo e delle dinamiche interne al gruppo stesso: si è assunto il gruppo come strumento, senza essere veramente capaci di servirsene. Abbandonando il “modello idraulico” della lezione frontale, se ne è adottato uno più stimolante, ma anche più complesso. In questo modo, non di rado le difficoltà di funzionamento del gruppo hanno fatto naufragare tante buone intenzioni educative, inghiottendo, senza dar frutto, la gran parte delle energie e del tempo dell’animatore;
    * un metodo “azzoppato”: l’iter rigoroso della progettazione educativa è stato a volte seguito solamente per alcune fasi. Una superficiale lettura della realtà, una sommaria definizione degli obiettivi, una carente verifica… hanno minato l’efficacia dell’animazione, rendendo sterili quelle tecnologie comunicative (giochi di interazione, tecniche di animazione…) che quasi tutti hanno utilizzato con entusiasmo, ma che hanno necessità di venire comprese e usate entro un quadro metodologico rigoroso.

    Nonostante i suddetti limiti, è doveroso riconoscere il gran bene che l’animazione ha fatto alla pastorale giovanile del nostro Paese. Del molto che si potrebbe dire, sottolineo alcuni elementi a mio avviso più importanti di altri:
    – la scelta dell’educazione: l’animazione culturale ha contribuito a far sì che la pastorale dei giovani si costituisse come attività educativa, offrendo un inquadramento teorico convincente, un modello praticabile e un metodo a misura di giovane. Ha così consentito di superare modelli del passato che apparivano insufficienti o inadeguati, senza cadere nelle derive di approcci di tipo irrazionalista o marcatamente kerygmatico. Se nel nostro Paese molti giovani sono stati aiutati a crescere armoniosamente nell’umanità e nella fede, ciò va ascritto anche all’animazione culturale;
    – la centralità del giovane: l’animazione ha aiutato la pastorale giovanile a svilupparsi mettendo al centro non l’istituzione e i suoi contenuti, ma la persona del giovane, con il suo contesto relazionale. In un momento storico in cui il desiderio di protagonismo e di partecipazione andavano crescendo nel mondo giovanile, l’animazione ha consentito a molti educatori di dotarsi di strumenti adeguati ai tempi e con grandi possibilità di adattamento;
    – una figura educativa nuova: l’animatore, divenuto per antonomasia l’educatore alla fede dei giovani. Figura che ha potuto acquisire un solido modello di riferimento e di formazione, insieme alla capacità di progettare ed agire in modo coerente. L’animazione culturale ha fornito una “tecnologia accessibile” agli educatori dei giovani, salvando la pastorale giovanile da due eccessi: quello dell’educazione intesa come pura arte (alla portata solo di personalità carismatiche, capaci di essere leader per doti naturali), e quello della eccessiva specializzazione (praticabile solo da professionisti o da esperti). Grazie all’animazione culturale, abbiamo conosciuto degli onesti “artigiani” dell’educazione, resi capaci di coniugare la passione con il metodo, la fantasia con il realismo, la libertà con l’esigenza di rendere ragione alla comunità dei percorsi proposti ai giovani.

    … e uno al futuro

    Dopo esserci fermati a rivedere il cammino percorso. ora bisogna ruotare di 180° per guardare avanti, alla strada che c’è ancora da fare. Non si può fare a meno di porsi una domanda: l’animazione culturale ha ancora qualcosa da dare alla pastorale giovanile in Italia? La questione è importante e per nulla scontata.
    Sembra infatti che l’accento sempre più forte sull’estroversione della pastorale giovanile e sull’annuncio esplicito del Vangelo (con una certa svalutazione della dimensione educativa dell’azione ecclesiale) possano mettere in discussione il ricorso all’animazione come orizzonte della pastorale dei giovani.
    Sinceramente, mi sembra che l’alternativa non sussista. Parafrasando una celebre espressione dell’Episcopato italiano, direi che se la pastorale giovanile è stata poco missionaria e scarsamente efficace nel comunicare la fede alle nuove generazioni, non è perché ha creduto nell’animazione culturale, ma perché non vi ha creduto abbastanza. Una considerazione attenta delle potenzialità dell’animazione, infatti, suggerisce ancora idee e strumenti per proposte capaci di coinvolgere e di mettere in cammino anche chi è fuori dal “giro”. Educare nello stile dell’animazione è un modo ancora attuale di comunicare ai giovani la gioia e la speranza che l’incontro con Gesù genera nella comunità cristiana.
    Parlo, naturalmente, dell’animazione “come Pollo comanda”, con tutte le carte in regole, senza scorciatoie di metodo o adattamenti snaturanti.

    Anche l’animazione, però, ha necessità di confrontarsi con alcune sfide che l’inizio del millennio pone di fronte a chiunque si proponga di educare i giovani alla fede:
    – uscire dal ghetto del gruppo-standard, per far nascere forme di aggregazioni diverse e variamente articolate, secondo le possibilità offerte alla pastorale giovanile dai diversi ambienti di vita dei giovani (il richiamo ad una nuova pastorale d’ambiente è tra i motivi principali degli Orientamenti Pastorali della CEI);
    – scoprire nuove figure educative, superando la fossilizzazione su una figura-tipo (giovane-studente-di-buona-famiglia) in direzione di una maggiore valorizzazione delle persone adulte e degli “educatori informali” o di primo livello. Tutti costoro hanno necessità di percorsi formativi e proposte metodologiche nuove;
    – coniugarsi con l’azione sociale: in epoca di globalizzazione, che trova grande sensibilità nel mondo giovanile, anche per le ripercussioni che essa ha sul futuro delle nuove generazioni, l’animazione culturale deve confrontarsi con la necessità di indirizzare i giovani verso percorsi di cambiamento personale e sociale, a piccola e grande scala. Si tratta, in sintesi, di sposare l’attenzione alla dimensione “culturale”, a quella “strutturale” della crescita umana e cristiana dei giovani. Sempre più, infatti, ci si rende conto che essi hanno bisogno, anche nel nostro Paese, di un’attenzione concreta del mondo adulto per la tutela del loro protagonismo e delle loro reali possibilità di futuro. In caso contrario, molte buone intenzioni e progetti sono destinati a naufragare in un sistema sociale in cui i giovani, i poveri, il futuro… hanno sempre minor diritto di cittadinanza.

    Sono convinto che l’animazione culturale abbia i numeri per confrontarsi con queste nuove esigenze, e fornire così alla pastorale giovanile in Italia idee e strumenti validi per le sfide educative di questo inizio millennio.


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