Oratorio, educazione e pastorale dei giovani

Inserito in NPG annata 2019.

A partire dalla Nota pastorale sull’Oratorio

Salvatore Currò


(NPG 2019-03-44)


La Nota sull’oratorio in rapporto alla problematica attuale della pastorale e dell’educazione dei giovani

La Chiesa italiana vuole sostenere, incoraggiare e rilanciare l’oratorio. Questo è il senso del recente documento «Il laboratorio dei talenti». Nota pastorale sul valore e la missione degli oratori nel contesto dell’educazione alla vita buona del Vangelo. La Nota è a firma di due Commissioni episcopali: quella per la cultura e le comunicazioni sociali e quella per la famiglia e la vita. Questa doppia paternità dice che l’oratorio si pone, di fatto, all’incrocio di diverse attenzioni ecclesiali e richiede una pastorale integrata. La Nota, poi, si colloca sulla scia del documento della CEI, orientativo della pastorale per il decennio 2010-2020, Educare alla vita buona del Vangelo (4 ottobre 2010); si riallaccia quindi alla scelta di dare centralità all’educazione e di ripensare tutta la pastorale in termini educativi. In effetti, la Nota può essere intesa come una esplicitazione o un approfondimento del numero 42 di Educare alla vita buona del Vangelo, laddove, nel contesto de La parrocchia, crocevia delle istanze educative, si parla dell’oratorio; tale testo, peraltro, è ripreso, praticamente per intero, nell’introduzione alla Nota.
La riflessione si articola in tre momenti che costituiscono le tre parti della Nota. La prima parte, Memoria e attualità dell’oratorio, tenta, a partire dalle attuali istanze ed emergenze educative (solo evocate, non esplicitamente trattate), di recuperare la tradizione dell’oratorio, segnata da diversità di modelli e di esperienze ma anche da elementi comuni che consentono di parlare, appunto, di tradizione. La seconda parte, Fondamenti e dinamiche dell’oratorio, elabora, in progressione, gli elementi di fondo della tradizione-esperienza dell’oratorio e le dinamiche e lo stile che caratterizzano tale esperienza. La terza parte, Impegno e responsabilità ecclesiale, si sporge su aspetti più pratici, organizzativi e anche amministrativi.
Non è mia intenzione ripercorrere tutti i contenuti della Nota. La voglio accostare su alcune questioni di fondo, che aprono sulla problematica attuale della pastorale giovanile e dell’educazione cristiana dei ragazzi e dei giovani. In effetti, il modo di pensare l’oratorio è rivelativo del modo in cui si pensa la pastorale e l’educazione. La Nota è come una sintesi, elaborata a partire dal luogo privilegiato dell’oratorio, delle sensibilità maturatesi negli anni scorsi (sostanzialmente negli anni ’80 e ’90) nella Chiesa italiana in fatto di pastorale giovanile ed educazione. Essa, in certo modo, consacra anche queste sensibilità. Questo mio intervento, invece, vorrebbe metterle in discussione. L’attuale contesto culturale si porta dentro, a mio parere, una forte provocazione a ripensare il senso stesso della pastorale e dell’educazione dei giovani. È necessario fare un approfondito discernimento ed esercitare una funzione critica, e anche profetica. Una parte importante possono svolgerla i consacrati, in particolare le congregazioni religiose portatrici di una tradizione educativa; queste sono chiamate, in una logica di fedeltà dinamica al carisma, a rilanciare il dialogo sui temi educativi e pastorali e a farsi foriere di sensibilità nuove.

Un percorso attraverso la Nota da tre punti di vista: integrazione, protagonismo, conversione pastorale

Qual è la visione educativo-pastorale di fondo della Nota? Possiamo farla emergere a partire dal già citato n. 42 di Educare alla vita buona del Vangelo, così come è ripreso nell’Introduzione:
«La necessità di rispondere alle loro esigenze [dei giovani e dei ragazzi] porta a superare i confini parrocchiali e ad allacciare alleanze con le altre agenzie educative. Tale dinamica incide anche su quell'espressione, tipica dell'impegno educativo di tante parrocchie, che è l'oratorio. Esso accompagna nella crescita umana e spirituale le nuove generazioni e rende i laici protagonisti, affidando loro responsabilità educative. Adattandosi ai diversi contesti, l'oratorio esprime il volto e la passione educativa della comunità, che impegna animatori, catechisti e genitori in un progetto volto a condurre il ragazzo a una sintesi armoniosa tra fede e vita. I suoi strumenti e il suo linguaggio sono quelli dell'esperienza quotidiana dei più giovani: aggregazione, sport, musica, teatro, gioco, studio».
Questo testo fa emergere, a mio modo di vedere, tre esigenze educativo-pastorali di fondo, che si presentano connesse tra loro:
- un’esigenza di integrazione. Tra umanità e spiritualità: l’oratorio «accompagna nella crescita umana e spirituale»; tra le diverse attenzioni pastorali della comunità: l’oratorio implica un impegno di collaborazione tra «animatori, catechisti e genitori in un progetto». C’è, poi, un legame tra il progetto della comunità, espressione della capacità di integrazione delle diverse attenzioni pastorali, e la crescita del ragazzo o del giovane: il progetto è «volto a condurre il ragazzo a una sintesi [altro nome dell’integrazione] armoniosa tra fede e vita». Tale sintesi implica l’assunzione dell’«esperienza quotidiana» fatta di «aggregazione, sport, musica, teatro, gioco, studio» e tali dimensioni di vita sarebbero gli «strumenti» e il «linguaggio» della sintesi;
- un’esigenza di protagonismo, sia in rapporto ai ragazzi che agli educatori. Tale esigenza è insita nella «necessità di rispondere alle loro esigenze [dei giovani e dei ragazzi]», come anche in quella dell’assunzione della loro vita quotidiana. L’oratorio, poi, «rende i laici protagonisti»; implica che si affidino loro delle «responsabilità educative». La passione educativa è di tutta la comunità (esige il protagonismo di tutti); impegna «animatori, catechisti e genitori in un progetto», che si suppone comune e che nasce da una corresponsabilità. Lo stesso obiettivo della sintesi tra fede e vita, a cui si vuol «condurre il ragazzo», suppone un far leva sull’iniziativa, sul protagonismo, del ragazzo stesso;
- un’esigenza di conversione pastorale in senso missionario. Per rispondere alle esigenze dei giovani e dei ragazzi, bisogna «superare i confini parrocchiali»; e tale superamento implica la necessità di «allacciare alleanze con le altre agenzie educative». L’oratorio, poi, «adattandosi ai diversi contesti», «esprime il volto e la passione educativa della comunità»; esprime una pastorale aperta all’educazione o, più profondamente, segnata da passione educativa. Tale pastorale è aperta anche perché assume gli interessi e le esigenze della vita quotidiana dei ragazzi e dei giovani, appunto: «aggregazione, sport, musica, teatro, gioco, studio».
Dunque: integrazione, protagonismo e conversione pastorale in senso missionario. Cercherò di mostrare come queste tre preoccupazioni attraversano tutta la Nota. Esse, in realtà, attraversano anche gli eventi e i documenti recenti della Chiesa italiana: dalla Nota pastorale sulla parrocchia missionaria (CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, 30 maggio 2004) al Convegno ecclesiale di Verona del 2006, dalla Nota pastorale dopo Verona (CEI, “Rigenerati per una speranza viva” [1 Pt 1,3]: Testimoni del grande “sì” di Dio all’uomo, Nota pastorale dell’Episcopato italiano dopo il 4° Convegno Ecclesiale Nazionale, 29 giugno 2007) al documento orientativo del decennio 2010-2020 (Educare alla vita buona del Vangelo). A partire da tali documenti, che comunque esprimono e rilanciano esperienze e riflessioni in atto, si vanno cristallizzando certe visioni di pastorale, educazione, comunità cristiana, pastorale giovanile, che, a mio parere, mostrano delle insufficienze rispetto alla radicalità delle provocazioni della nostra cultura. Negli stessi documenti, d’altra parte, ci sono tracce di consapevolezza dei forti cambiamenti di mentalità in atto, per esempio laddove si richiama la questione antropologica, con la quale, però, bisognerebbe misurarsi con più coraggio[1].

Integrazione

La preoccupazione dell’integrazione si manifesta sia dalla prospettiva della proposta, come preoccupazione di una pastorale integrata, sia dalla prospettiva della crescita della persona, come preoccupazione di una maturazione integrale.
Già nell’Introduzione si esplicita la volontà di «sviluppare una riflessione in termini di pastorale integrata»; e ciò al fine di «rendere ancora più visibile il volto missionario ed educativo della parrocchia quale risposta al secolarismo che determina sempre più l’abbandono della fede e della vita ecclesiale da parte delle nuove generazioni». L’integrazione della pastorale è vista in connessione con la vitalità della comunità cristiana e con l’efficacia della sua missione. «L’oratorio, in questa ottica di pastorale integrata, diventa una proposta qualificata della comunità cristiana per rigenerare se stessa e rispondere in maniera appropriata al relativismo pervasivo che è ben riscontrabile anche nei processi educativi» (Introduzione). La pastorale integrata implica collaborazione: «Questa prospettiva di pastorale integrata cresce grazie al raccordo con tutte le realtà ecclesiali, gruppi, associazioni e movimenti ecclesiali, che anche nel contesto dell’oratorio sono chiamate ad offrire il loro peculiare contributo» (12). Sembra che l’integrazione, come convergenza e sinergia dei diversi apporti, sia la forza (o il segreto dell’efficacia) dell’educazione: «La reale forza di un processo educativo dipende in gran parte dall’interazione di più soggetti capaci di trasmettere lo stesso messaggio attraverso una molteplicità di esperienze e linguaggi. Su questo presupposto si basa la forma stessa dell’oratorio che prevede, nella quasi totalità dei casi, la presenza di diverse figure educative che operano in sinergia. Così la comunità educante risulterà arricchita dai molteplici e variegati apporti di sacerdoti, consacrati, catechisti, animatori, educatori, genitori, nonni e di altre figure che si renderanno necessarie e disponibili» (19).
La prospettiva dell’integrazione sembra la migliore anche per dire la maturazione dei ragazzi e dei giovani, a cui tende la proposta educativa che deve essere graduale ma ben orientata: «La gradualità è il criterio imprescindibile per accompagnare i ragazzi e i giovani nelle tappe della loro crescita, tenendo fisso lo sguardo sulla meta del progetto educativo, che costituisce il paradigma di tutta la proposta oratoriale: la maturità integrale, umana e religiosa, dei ragazzi e dei giovani» (10). Integrazione significa dunque preoccupazione per una crescita armonica: la prassi dell’oratorio «risponde all’esigenza di sviluppare una crescita armonica e solida in cui la catechesi sia costantemente coniugata con le scelte di vita, al fine di condurre i giovani ad una piena maturità cristiana» (13). L’armonia della crescita è sul perno della fede, per cui l’integrazione tra fede e vita costituisce l’obiettivo ultimo delle diverse esperienze dell’oratorio: «L’oratorio si configura come un variegato e permanente laboratorio di integrazione tra fede e vita» (13).
Tale obiettivo pervade i diversi percorsi che pure sono «differenziati»: «alcuni chiaramente riferiti all’azione evangelizzatrice della Chiesa, come i cammini di iniziazione cristiana e di formazione religiosa; altri che rispondono alle esigenze del primo annuncio, soprattutto nell'incontro con giovani provenienti da altre culture e religioni oppure di giovani battezzati non praticanti; insieme a questi vi sono molti percorsi educativi di aggregazione e formazione che si concretizzano nelle molteplici attività oratoriali messe in atto come risposta alle sfide culturali e ai bisogni dei ragazzi e dei giovani stessi: sport, esperienze comunitarie, animazione, teatro, volontariato sociale e missionario, laboratori artistici, pellegrinaggi, cinema, web sono solo alcuni degli ambiti in cui la comunità educativa dell'oratorio si cimenta» (13). L’obiettivo unico (unitario e ultimo) dell’integrazione fede-vita fa come da contrappeso alla differenziazione necessaria delle proposte; che ci si muova sul terreno dell’educazione alla fede o su quello della maturazione umana, l’obiettivo rimane l’integrazione. Questo è così vero che, a conclusione, si può dire che i significati educativi dell’oratorio si sintetizzano «nella prospettiva pedagogica dell’educazione integrale»; e si spiega: «Infatti gli oratori sostengono e favoriscono il pieno sviluppo di tutte le dimensioni della persona, intellettive, affettive, relazionali e spirituali. In questa luce va considerata la convinta valorizzazione del gioco, della musica, del teatro, dello sport, della natura, del viaggio, della festa e, parimenti, la promozione della cultura, del volontariato, e della solidarietà» (Conclusione).
Tale prospettiva dell’integrazione sembrerebbe il meglio che si possa ereditare dalla tradizione oratoriale; e tale eredità sembrerebbe la risorsa più preziosa per affrontare le nuove sfide che sono avvertite sul piano del linguaggio e in rapporto alla questione antropologica: «Forti di una consolidata tradizione, gli oratori devono oggi affrontare con coraggio, per un verso, il ripensamento della trasmissione della fede alle nuove generazioni nel contesto di sfida della nuova evangelizzazione e, dall'altro, l'assunzione dei nuovi linguaggi giovanili, così come dei rapidi cambiamenti dischiusi dall'avvento delle nuove tecnologie informatiche. Sempre più la riflessione pastorale intercetta la questione antropologica» (Conclusione).

Protagonismo

La comunità cristiana, attraverso l’oratorio, vuole esprimere fiducia nei confronti dei giovani e dei ragazzi, riconoscendoli portatori di doni e riconoscendo la loro iniziativa e il loro protagonismo. A tal punto che l’oratorio può essere pensato come luogo che favorisce l’espressione delle risorse di ciascuno; può essere pensato - come dice il titolo della Nota -«il laboratorio dei talenti». La Nota, in effetti, si presenta, dall’inizio, con la finalità di «ribadire l’impegno educativo delle nostre comunità ecclesiali nei confronti dei ragazzi, degli adolescenti e dei giovani, riconoscendone la soggettività e valorizzando i talenti di cui sono portatori» (Introduzione). Il fatto stesso di partire dagli interessi e dai bisogni dei soggetti, tipico dell’oratorio, esprime il riconoscimento del loro protagonismo; anche se tale protagonismo a volte appare inquadrato dentro le finalità della comunità cristiana. Si noti ad esempio questo testo: «L’oratorio, che per definizione rimane uno strumento di animazione dei ragazzi e dei giovani, il cui metodo educativo li coinvolge a partire dai loro interessi e dai loro bisogni, inserendoli organicamente in un cammino comunitario, non può essere pensato e non deve costituire una realtà a sé stante, ma è un’espressione qualificata della pastorale giovanile di una comunità parrocchiale» (12).
Ma se da una parte il protagonismo è ridimensionato a partire dalla preoccupazione evangelizzatrice della comunità cristiana, dall’altra appare talvolta quasi esaltato come quando si pensa la maturazione come auto-realizzazione: «Al centro del progetto educativo dell’oratorio c’è la crescita e la progressiva maturazione di ogni singolo ragazzo o giovane secondo la prospettiva dell’auto-realizzazione ben delineata da Giovanni Paolo II [si cita Dilecti amici, 3] (17). Sebbene si parli di un «protagonismo sano e virtuoso» (18) e sebbene si precisi che la scoperta dei propri talenti è per «metterli a frutto per il bene di tutti» (18), è forte il sospetto che la prospettiva antropologica di fondo sia quella di un soggetto in fondo chiuso in se stesso, che cerca appunto l’auto-realizzazione. D’altra parte, la stessa prospettiva dell’integrazione fede-vita, sopra richiamata, resta, in fondo, dentro una prospettiva di un soggetto chiuso nel suo progetto; anche se nel suo progetto integra (la integra, appunto) la fede.
Anche i riferimenti alla vocazione, che la Nota presenta, sembrano all’interno di un’antropologia, implicita, del progetto di vita. Pur se si sottolinea che «la caratteristica fondamentale dell’educazione cristiana è la dimensione vocazionale» e che «tale dimensione scaturisce dalla visione della vita come dono che porta in sé uno stupendo progetto di Dio», si riconduce il tutto alla «meta del progetto educativo», pensata decisamente in termini di «maturità integrale, umana e religiosa», quindi in termini progettuali, di progetto di vita, prima che di vocazione. Ma ci si può chiedere: la vocazione non precede il progetto?

Conversione pastorale in senso missionario

L’esperienza dell’oratorio è il segno della prossimità e della cura educativa del mondo degli adulti (della comunità ecclesiale) nei confronti dei giovani e dei ragazzi. La «prossimità alle giovani generazioni amate, raccolte e sostenute nella loro concretezza storica, sociale, culturale e spirituale» è indicata come la «chiave interpretativa o la cifra sintetica» delle differenti tradizioni oratoriali (4). Si tratta di una prossimità impregnata di testimonianza e che attinge alla prossimità di Gesù e al suo comandamento dell’amore (6). Si tratta, ancora, di una prossimità che si esprime come un prendersi cura. L’oratorio esprime essenzialmente una cura: «Possiamo affermare che l’oratorio è l’espressione della comunità ecclesiale che, sospinta dal Vangelo, si prende cura, per tutto l’arco dell’età evolutiva, dell’educazione delle giovani generazioni» (7).
La presa in cura dei ragazzi e dei giovani ha essenzialmente come soggetto la Chiesa, anche se si esprime nella ricerca di alleanze educative. Tali alleanze sono cercate nella prospettiva di una pastorale che vuole essere missionaria. L’oratorio - si afferma - «nasce dall’amore della comunità ecclesiale per le nuove generazioni». Ciò significa che esso «non può essere affidato ad altri soggetti, seppur competenti, che non abbiano le stesse finalità, perché quando viene meno una chiara appartenenza ecclesiale l’oratorio perde la sua identità» (22). Questo non vuol dire che l’oratorio debba essere autoreferenziale: «L’oratorio può apparire già di per sé, al suo interno, un’alleanza educativa compiuta. Questo però non giustifica alcun ripiegamento o il pensarsi in modo autoreferenziale. L’oratorio per sua natura è chiamato a promuovere ampie e feconde alleanze educative, gettando ponti verso l’esterno. Si rende così più visibile ed evidente la sua natura estroversa, tesa a valorizzare ciò che di buono è già presente nel territorio, mettendosi cordialmente in dialogo con le diverse realtà» (19).
Ci si può chiedere se questo dialogo non sia in realtà un monologo, giacché sembrerebbe troppo gestito dalla comunità cristiana. Ci si può chiedere anche se l’essere ponte, che caratterizza l’oratorio, non sia troppo e unilateralmente finalizzato alla preoccupazione di evangelizzazione della chiesa. «Oggi - si insiste - gli oratori devono essere rilanciati anche per diventare sempre più ponti tra la Chiesa e la strada» (5). E si precisa: «La sfida pertanto è quella di far diventare gli oratori spazi di accoglienza e di dialogo, dei veri ponti tra l'istituzionale e l'informale, tra la ricerca emotiva di Dio e la proposta di un incontro concreto con Lui, tra la realtà locale e le sfide planetarie, tra il virtuale e il reale, tra il tempo della spensieratezza e quello dell'assunzione di responsabilità» (5). Si assicura comunque che si vuol superare una logica strumentale; così, in fondo, è stato anche nella tradizione: le proposte dell'oratorio, varie e rispondenti ai diversi interessi dei giovani, «non sono state concepite in senso solo strumentale in vista dell'educazione religiosa, ma sono state percorse fino in fondo, nella loro capacità di educare alla relazione e alla responsabilità, come condizione di apertura dell'io, secondo l'efficace espressione del Papa [Benedetto XVI] sopra ricordata: dall'io al tu, al noi e al Tu di Dio» [si cita il Discorso alla 61ª Assemblea Generale della CEI, 27 maggio 2010] (5). Infatti, «il Vangelo, già implicitamente sperimentato nell'accoglienza incondizionata e nella condivisione della vita quotidiana, poteva così sprigionare tutta la sua carica di trasformazione dell'identità plasmando le personalità e dischiudendo la via della conversione o una ripresa del cammino di fede» (5).

Interrogativi e proposte di allargamento di orizzonti [2]

La Nota ha il merito di situare l’oratorio dentro l’impegno ecclesiale della pastorale e dell’educazione dei giovani; di questo impegno l’oratorio è una espressione significativa. Ciò vuol dire che l’oratorio risente della mentalità con cui si pensa la pastorale e l’educazione. Ciò è in ogni concreta realtà oratoriale come anche nella riflessione della Nota. Che dire su questa mentalità? Già nella presentazione del documento ho avanzato degli interrogativi che qui riprendo e sviluppo in rapporto alle tre prospettive di lettura indicate.

Integrazione

È così certo che l’integrazione sia la carta vincente per un’azione pastorale più efficace? La preoccupazione dell’integrazione non rimane troppo centrata sulla nostra proposta? Non è attraversata, in fondo, da unilateralità, da una certa nostalgia di riconquista? Non è segnata dalla fatica di riconoscere la centralità del giovane, la sua iniziativa, la sua libertà, la sua originale appropriazione e interpretazione del messaggio cristiano? Non è attraversata da una certa tendenza al controllo della crescita del giovane? E ancora: la pastorale dell’integrazione non è troppo carica di preoccupazione progettuale e poco capace di riconoscere l’azione incontrollabile della grazia?
In effetti, le persone, i giovani in particolare, sono oggi come gelosi della loro libertà e di una progettualità che parta da loro stessi, magari da un richiamo o da una provocazione altri, ma avvertiti in loro stessi. L’integrazione fede-vita, in realtà, interpreta i processi di maturazione troppo dall’esterno, senza riconoscere a sufficienza l’originalità di ciascuno e l’originalità dell’azione di Dio nel cuore di ciascuno. Dio, poi, interviene sostenendo, provocando, incoraggiando, rassicurando, disintegrando false sicurezze; non si integra mai all’interno di un progetto di vita, spesso lo sconvolge. Mantiene una alterità e trascendenza e, allo stesso tempo, una vicinanza di intimità, che, nella pastorale, vanno più pienamente riconosciute. Senza togliere niente al significato di mediazione della pastorale e alla responsabilità della comunità cristiana, c’è necessità, oggi, in pastorale, di una riconciliazione profonda con la grazia di Dio.
Il giovane, talvolta, ha bisogno di qualche frammento significativo, di qualche esperienza capace di evocargli l’altra faccia (quella trascendente, quella dell’iniziativa altra) della vita, più che di progetti organici che lo catturino; di testimonianze semplici, di incontri personali significativi, rispettosi e autorevoli, più che di grandi iniziative organiche che lo pressino con insistenza. Va quindi un po’ relativizzata, in pastorale, la preoccupazione per l’organicità, per il coordinamento a tutti i costi, per la centralizzazione degli interventi, che mortifica la spontaneità e le iniziative più di base. Senza niente togliere, con ciò, all’importanza di essere segno di comunione e di fraternità. Talvolta, in realtà, dietro preoccupazioni progettuali e organizzative, si nasconde proprio la fatica a essere segno di comunione vera, di cui invece i giovani avrebbero bisogno.
Va relativizzata anche l’enfasi sulla crescita armoniosa delle diverse dimensioni della vita e l’enfasi sull’unità della persona. La preoccupazione per l’integrazione tra affettività, intelligenza e volontà, tra valori umani e valori cristiani, tra crescita in umanità e crescita spirituale, è vissuta, in genere, in ambito ecclesiale, come subordinazione dell’affettività all’intelligenza, dell’umano ai significati cristiani e spirituali che esso può assumere. Questa logica di subordinazione, in realtà, nasconde una sottile svalutazione dell’umano, dell’affettivo, dell’emotivo, della corporeità, e, in fondo, perpetua quel dualismo che vorrebbe superare.

Protagonismo

La logica dell’integralità della persona è strettamente connessa a quella del protagonismo. Si consacra, in effetti, il primato dell’io (razionale, spirituale, integrato) e non si rende conto del richiamo, o appello, di trascendenza, che proviene da un’iniziativa altra e che pure si situa nel cuore stesso del soggetto. Non si rende conto, in realtà, della differenza (non dualismo, ma differenza) tra l’io e il sé, e quindi della differenza tra la coscienza che l’io ha della sua vita e il di più (di chiamata, di appello, di grazia, di amore) che lo attraversa radicalmente, prima di tutto sul piano sensibile, corporeo, affettivo.
Il mantenimento della differenza tra corpo (sé, sensibilità, affetto, amore) e presa di coscienza dell’io, il mantenimento della trascendenza del sé rispetto all’io (cioè rispetto alla coscienza-consapevolezza di sé) aiuterebbe una più vera esperienza della trascendenza e metterebbe in condizione di avvertire il senso più vero e concreto e tutta la portata di incarnazione dell’evento di Gesù Cristo. Non è forse vero che Dio ci ha già raggiunti, anche se non ne siamo ancora consapevoli o non ne abbiamo preso piena coscienza? E non è vero che ci ha già raggiunti corporalmente, sensibilmente, spesso anche sacramentalmente?
Non è forse vero che, prima di tutto, siamo sfidati a lasciarci amare, a sentirci chiamati, a riconciliarci col nostro sé, a non fuggire da noi stessi, piuttosto che a progettare una direzione significativa di vita? Non è forse vero che i giovani che accostiamo hanno bisogno, prima ancora che di valori, di sentirsi amati per quello che sono, nel loro sé? Non è forse vero che tanta pastorale giovanile, proprio perché preoccupata di dare valori e di aiutare la progettualità, rischia di mancare la sfida più essenziale: quella della riconciliazione con il già di amore e di presenza di Dio, che segna radicalmente la vita? Non è forse vero che l’antropologia del progetto di vita, dell’integrazione fede-vita, del protagonismo, dell’autorealizzazione, deve lasciare lo spazio all’antropologia della vocazione, del dono che precede, dell’iniziativa altra iscritta nel cuore di se stessi?
Tanta pastorale ed educazione dei giovani si nutre di un’antropologia che, in fondo, pensa l’io chiuso in se stesso, anche se cerca di aprirlo all’altro e a Dio; essa predica l’apertura mentre consacra la chiusura; condanna l’individualismo mentre lo provoca. In realtà il legame con l’altro, l’essere dono a se stesso, l’essere abitato da tracce di presenza di Dio, sono come delle scritture del proprio sé, precedono ogni ricerca di senso e ogni preoccupazione per l’identità.

Conversione pastorale in senso missionario

La pastorale della conversione missionaria e delle alleanze educative non si porta dentro una logica di unilateralità? Si dirà: è la logica dell’evangelizzazione ad essere in certo senso unilaterale, giacché essa, per dirlo positivamente, è logica di un dono (quello del vangelo) che abbiamo ricevuto e che dobbiamo donare agli altri! Certo: è logica di dono. Ma il dono non implica il riconoscimento? Non implica una relazione gratuita, di reciprocità? Non implica anche il saper ricevere il dono dell’altro? Saper donare e saper ricevere un dono si implicano profondamente, altrimenti il donare diventa giudizio sull’altro (lo si ritiene incapace di donare qualcosa), paternalismo, negazione della verità della relazione umana e incapacità di vero amore. Il problema è di situare il dono del vangelo e l’evangelizzazione dentro processi relazionali segnati da gratuità, da reciprocità, e quindi dal primato della grazia di Dio.
Tali processi richiedono, poi, di abitare lo stesso terreno, che non può che essere il terreno della crescita in vera umanità; in rapporto ai giovani, il terreno di un desiderio sincero di crescita e di educazione. Su questo terreno si possono, in linea di principio, fare alleanze con tutti; non alleanze al ribasso ma alleanze fondate sulla dignità della persona, sulla sua verità. Ciò è possibile, per noi cristiani, a partire da un’antropologia capace di aprire alla verità dell’umano, profondamente ispirata alla Rivelazione; essa ci permetterà di sentirci fedeli al Vangelo e allo stesso tempo aperti davvero a tutti. Le alleanze educative che richiedono una disponibilità alla fede già in partenza e che sono gestite solo dalla Chiesa, sono in realtà alleanze su un terreno nostro, non di tutti. Sono alleanze, segnate, già in partenza, da chiusura e paura, e che rischiano di esprimere, in fondo, il senso che la fede (e la Chiesa) non hanno niente da dire sulle questioni davvero umane e che i cristiani non sanno abitare l’umano.
Non è forse vero che la prospettiva della testimonianza ecclesiale dovrebbe essere quella dell’essere esperti in umanità? Non è l’essere esperti in educazione (quindi sul senso vero, umano, della crescita) che ci rende capaci di interagire con tutti, sullo stesso terreno di tutti? E non è questo essere esperti in umanità e in educazione il più grande segno della nostra fedeltà al vangelo? E ancora: non è questo abitare un terreno sinceramente e veramente umano la condizione perché il vangelo possa risuonare significativo, anzi il segno di un vangelo già operante?
Come si vede, il discorso sull’oratorio apre a discorsi più fondamentali, sulla pastorale e sull’educazione cristiana, e sull’antropologia che le sostiene. In effetti, siamo in un tempo in cui è necessario riaprire, in ambito ecclesiale, negli ambiti educativi, negli ambiti della vita religiosa (soprattutto negli Istituti impegnati nell’educazione), il dialogo e il confronto sulle questioni di fondo. Se il dialogo resta sul piano organizzativo e metodologico, o se resta settoriale, limitato a esperienze pastorali chiuse in se stesse, non coglie, oggi, nel segno. La fatica a pensare con orizzonti più ampi e a livelli più fondamentali va fatta; altrimenti, in una cultura complessa, quale è quella di oggi, e che sfida su questioni radicali, si resterebbe condannati all’insignificanza.


NOTE

[1] Non mi riferirò, in questa mia riflessione, ai documenti ecclesiali, almeno esplicitamente; né tratterò, se non per evocazioni, la questione antropologica. Per questo, rinvio al mio libro Il senso umano del credere. Pastorale dei giovani e sfida antropologica (Elledici, Leumann, 2011). L’introduzione (che ha il titolo: In che senso c’è una sfida antropologica nella pastorale dei giovani? In dialogo con gli Orientamenti pastorali della Chiesa italiana sull’educazione, pp. 7-28) interagisce, dall’ottica antropologica, con Educare alla vita buona del Vangelo e con gli altri documenti recenti del magistero, che esprimono d’altra parte la mentalità più diffusa e prevalente negli ambienti educativi e pastorali considerati più innovativi.
[2] La riflessione che segue si mantiene nella prospettiva di suscitare interrogativi. In realtà gli interrogativi che pongo risentono già di tentativi di risposta e di approfondimenti (soprattutto in chiave antropologica) che ho tentato di fare altrove (ad es. in Il soggetto, le relazioni e l’iniziativa di Dio. Il nodo antropologico della pastorale, in TORCIVIA C., ed., Antropologia e pastorale. Per un’antropologia della filialità tra dono e alterità, Il pozzo di Giacobbe, Trapani, 2011, 35-50 e in Il luogo dell’evangelizzazione: l’umano nella sua verità, in «Credere oggi» XXXII(2012)191, 42-53).