«Non mi domanderete più nulla»
Raffaele Mantegazza
(NPG 2016-05-57)
La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo.
Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia.
In quel giorno non mi domanderete più nulla.
Gv 16, 21-23a
Se n’è andato come un criminale, umiliato come il peggiore dei malfattori. Ai suoi amici ha regalato la brevissima gioia di una resurrezione subito messa in dubbio (e se i discepoli avessero sottratto il corpo? E se tutto fosse una scaltra invenzione che ha preso piede per millenni?) e subito trasformata in un nuovo addio; una manciata di giorni e ancora non era più qui. Ha promesso di andare a prepararci un posto e poi di tornare; ha promesso un altro, un Paraclito; ma per ora non si è visto nessuno. Come educare i ragazzi
oggi all’incontro con chi da duemila anni non dà segno di sé? Vengono in mente le frasi di Salvatore Natoli sulla chiesa come “istituzionalizzazione dell’attesa” o quelle di Sergio Quinzio sull’insopportabile silenzio di questi duemila anni. Il silenzio di Gesù pesa come un macigno per chi vuole proporre l’incontro con lui, qui, oggi.
Ma allora, in questo silenzio, in questa attesa che sembra corrodersi dall’interno secolo dopo secolo, generazione dopo generazione, chi incontriamo? E chi educhiamo a incontrare? Certo, possiamo pur sempre mostrare nel “qui e ora” i segni della presenza di Gesù; in parte questo è il messaggio del Vaticano II sui “segni dei tempi”, in parte questo è il senso dell’escatologia realizzata, della presenza del Regno in mezzo a noi, del “già” che costituisce la prima, irrinunciabile parte della formula “già-e-non-ancora”: ma soprattutto quando parliamo ai ragazzi e alle ragazze e soprattutto oggi, nell’epoca delle risposte immediate e della fine dell’attesa come modalità di relazione con il mondo (quanto ci arrabbiamo quando un file pdf ci mette cinque secondi ad aprirsi?) occorre prendere sul serio il ritardo della parousia e il prolungarsi indefinito delle doglie del parto; Gesù non è più qui, non torna (almeno fino ad oggi; ogni secondo può essere la piccola porta dalla quale entra il Messia, ma intanto i secondi si accumulano tremendamente) ed è molto difficile insegnare a incontrarlo in sua assenza; in una assenza così desolatamente lunga.
Anche perché per farsi carico di questo insegnamento occorre una generazione adulta convinta in ogni sua fibra che Gesù è risorto, che ritornerà per porre fine a questo mondo, che sconfiggerà definitivamente la morte: ma per quanti cristiani tutto ciò significa qualcosa di diverso da un dogma o da parole recitate a catechismo per essere invece la linfa vitale della speranza che accompagna come un’ombra calda la vita quotidiana? Per quanti adulti Gesù rappresenta l’evento capovolgente, il punto di non ritorno, l’inizio di una reale e inattesa conversione? Forse i ragazzi fuggono da Gesù quando glielo presentiamo: ma è davvero Gesù quello che gli presentiamo? Probabilmente presentare un Gesù spogliato dai suoi aspetti escatologici o apocalittici può aiutarci a fare la pace con il potere “vestito di umana sembianza” [1], può permetterci di rendere meno aspro e problematico l’insegnamento, può renderci moderni, aggiornati, “up-to-date”; ma certo non mette i ragazzi in contatto né con la figura storica del Nazareno né con il Cristo della Resurrezione e del kerygma pasquale. L’incontro con Gesù, seguendo le vie indicate negli altri articoli del presente dossier, deve sconvolgere la vita, deve aprire prospettive escatologiche, altrimenti non è Gesù che si sta incontrando. L’assenza deve essere riempita di speranza, della stessa inattesa e sconvolgente speranza che rianimò i viandanti ad Emmaus. Altrimenti stiamo aspettando qualcun altro; Godot magari.
Che anche lui, alla fine, non arriva.
“Guardate i gigli dei campi”: la via della quotidianità
Per un adolescente incontrare Gesù nel quotidiano significa sottrarre il quotidiano alla sua ovvietà; dopo l’incontro nulla è più “ovvio” nel senso che nulla appare più come se fosse “ob-via”, sulla strada consueta. Tutto cambia, i valori sono ridefiniti, gli oboli delle vedove valgono più dei tesori della regina di Saba, gli ultimi diventano primi, i figli non devono preoccuparsi di seppellire i padri. I gigli dei campi non sono più gigli pur profumando come ieri (e forse di più), gli uccelli nel cielo sono qualcosa di differente dagli uccelli visti fino al giorno prima anche se il loro canto ci delizia ancora (e forse di più). L’incontro con Gesù trasfigura il quotidiano, lo rende altro da sé, gli conferisce una nuova identità. Gesù scelse il pane e il vino per una operazione di transustanziazione, ma lo stesso supplemento di identità è possibile per ogni altro oggetto, se immerso nella luce aurorale dell’incontro con il figlio di Myriam e Yosef.
Così è possibile incontrare Gesù in discoteca, a scuola, sul campo di calcio, in fabbrica: ma allora queste realtà cambiano completamente la loro identità, rivelano fratture, aperture, pori, crepe, penetrate da una luce nuova. Non è un nuovo brano hip-hop su Gesù ad essere segno dell’incontro ma è il modo con cui, dopo l’incontro, si ascolta il solito brano hip-hop. Al contrario di quanto possa pensare una ascesi mal pensata e mal interpretata, l’incontro con Gesù non ci allontana dal quotidiano, non è all’origine di alcun “contemptus mundi”; al contrario ci immerge nel quotidiano ma gli conferisce una nuova cifra, una nuova cornice, una nuova luce dal suo interno nascosto. È un incontro dalla dimensione sapienziale, di quella Sapienza di cui è pieno l’Antico Testamento. L’incontro fa emergere il nucleo prezioso e buono di tutte le cose, ne fa esplodere la luce pur mantenendole apparentemente nella loro identità di fenomeni: Gesù strappa alle cose la musica del noumeno, di ciò che c’è a di là del fenomeno. Incontrare Gesù in discoteca non significa abbandonare la discoteca come se fosse il luogo della perdizione (quanto manicheismo in certa catechesi) ma starci dentro in modo differente, cogliendone criticamente gli aspetti positivi e negativi che fino a ieri erano nascosti alla vista. Essere nel mondo ma non essere del mondo, non perché si rifiuta questo mondo ma perché lo si vede illuminato dai raggi della Redenzione.
“Ecco un mangione e un beone”: la via della bellezza
I piaceri della vita non ostacolano l’incontro con Gesù, purché questi piaceri non siano sottratti a chi non può permettersi una vita dignitosa. Qui sta tutto il paradosso e la difficoltà dell’educazione alla bellezza e a tutto quanto di positivo può offrirci la vita. Non possiamo dimenticare che se noi possiamo gustarci una tela di Monet o un risotto al profumo dell’orto è perché da qualche parte del mondo qualcuno sta morendo. E il legame è molto più diretto di quanto si possa cinicamente pensare, come ben sa la saggezza delle mamme che dicono ai bambini: “finisci la minestra, che ci sono milioni di bambini che muoiono di fame”; e quando i figli rispondono “che cosa c’entra la mia minestra con i bambini che muoiono di fame” hanno torto nella loro ingenuità. È proprio un modello di sviluppo sbagliato alla radice, strutturalmente iniquo, a creare da una parte del mondo la morte per fame e dall’altra la sazietà di chi non sa più gustare nulla perché ha troppo.
L’incontro con Gesù allora avviene nella bellezza purché vi sia un approccio critico alla bellezza; sapendo che qualunque testimonianza di cultura “non è mai documento di cultura che non sia al tempo stesso documento di barbarie”, come scriveva Walter Benjamin. Il risultato di questa consapevolezza però non può essere uno sterile senso di colpa ma deve essere un’opera concreta di condivisione.
Del resto è vero che Gesù mangiava e beveva ma lo faceva insieme ad altri. E soprattutto insieme a coloro che nessuno mai invitava, come dimostra la parabola della Gran cena: “Allora il padrone di casa, irritato, disse al servo: Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui poveri, storpi, ciechi e zoppi” (Lc 14,21).
La bellezza privatizzata è una bellezza assassinata: il bello in tutte le sue forme richiede spazi di condivisione: spazi sacri, se vogliamo, spazi che richiedono un certo sforzo e un determinato comportamento rispettoso, ma comunque spazi senza barriere e senza confini. Solo se condivisa la bellezza è rivoluzionaria: la bella giornata di gioco getta la sua luce sulle altre giornate suscitando la domanda “ma perché non può essere festa tutti i giorni?”; il Mattino di Grieg o le tele di Constable ci presentano un rapporto con la natura e il bello naturale che deve diventare compito e speranza concreta; la vita deve diventare bella come l’arte, anzi di più. Gesù ci attende nella bellezza se saremo capaci di condividerla, nella speranza di un mondo buono e bello per tutti, un mondo universalmente “tov” così come è uscito dalle mani del Creatore.
“Dare la vita per i propri amici”: la via dell’amore
L’amore predicato da Gesù non ha niente a che fare con un sentimento, con uno stato d’animo, con una emozione; è qualcosa di concreto, di agito, di tangibile.
Parte da un incontro fisico e si riflette in una interiorità che però immediatamente torna nel “fuori”; verso l’Altro. Per un ebreo non esistono sentimenti rinchiusi da qualche parte in una “coscienza” isolata dal mondo, dal corpo e dall’azione: è la relazione ad essere sempre al centro della sua vita, e i sentimenti sono sempre sociali. Incontrare Gesù significa certamente incontrare l’amore, ma non una sorta di astratto amore per l’“umanità” (concetto troppo astratto per figurare in bocca a un ebreo del I secolo e sinceramente troppo generico anche per noi: che cosa significa “amare l’Umanità”? Come posso amare sette miliardi di esseri umani?); ovviamente l’amore ha tratti di universalità ma ciò accade perché sa vedere il lontano nel vicino, l’universale nel particolare, l’umano nella persona che ho qui davanti a me. Un ricerca svolta presso alcuni oratori anni fa evidenziava come per gli adolescenti il “prossimo” fosse la mamma, la sorella, lo zio, al massimo il vicino di casa. Ricerca inquietante nel suo sottolineare come si consideri prossimo solo chi è vicino, mentre Gesù insegna esattamente il ribaltamento delle prospettiva, ma anche ricerca viziata da una domanda errata: “chi è il tuo prossimo?” Nella parabola il prossimo non è la persona ferita, ma è il samaritano che “si fa” prossimo; Gesù non invita a cercare il prossimo ma a farci prossimi a chi è lontano rendendolo vicino. L’amore è dare la vita per i propri amici ma prima di tutto l’amore è farsi degli amici, e cercarli, come faceva Gesù, tra i reietti, gli ultimi, i diseredati. Allora i ragazzi incontrano Gesù nel gesto concreto di conoscenza dell’altro, perché fin dal Cantico dei Cantici o dal gesto d’amore con il quale “Adamo conobbe Eva”, per gli ebrei non esiste amore senza conoscenza (e per certi versi non esiste conoscenza senza amore). Il sentimento viene ancorato alla ragione e questa diade si riconosce nell’azione, in una sorta di tripode ideale che è alla base dell’amore adulto e concreto.
“Quando pregate…”: la via della preghiera e della Parola
Se Gesù ci parla, significa che ci ascolta; significa che ci capiamo. Possiamo chiedergli “insegnaci a pregare” perché in lui si compie il prodigio di un Dio che parla la nostra lingua, che è sintonizzato sulla nostra lunghezza d’onda, che non è né un “deus absconditus” né un dio silente (sia detto con tutto il più profondo rispetto per questi altri volti del divino, propri di altre culture o di altri tempi). Non si sottolinea mai abbastanza il ruolo di mediazione svolto dal linguaggio nei rapporti con Dio attraverso l’incontro con Gesù: egli dice “chi vede me vede il Padre”, ma potrebbe anche dire “chi parla con me comunica con il Padre”. In principio era il Verbo: lo sappiamo, ma forse sottovalutiamo il fatto che solo nel farsi carne (corde vocali, lingua, gola) il Verbo si è reso comprensibile a noi esseri umani; altrimenti solo le stelle o gli angeli avrebbero potuto udirlo; o forse nemmeno loro, e il verbo avrebbe dialogato solamente con se stesso. Prima delle prime parole pronunciate da Gesù: “Non sapete che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” il Verbo era come un oscuro risuonare di una parola all’interno di se stessa: per poter incontrare l’uomo il verbo ha dovuto farsi verbo umano. E tutto questo con le caratteristiche della parola umana: la sua impermanenza, per cui occorre sempre salvarla, memorizzarla, metterla al sicuro dall’azione corrosiva del tempo (e non è senza significato per la pastorale il fatto che oggi affidiamo per lo più questo compito alle macchine che hanno una “memoria”) ma anche, al contrario, la sua incancellabilità, il fatto che una volta che si è pronunciata una parola non è più possibile tornare indietro (e non possiamo non rimandare ancora alle nuove tecnologie, al fatto che un sito web scompare da un giorno all’altro, che il web è il regno della cancellazione e dell’ipermanenza).
Entrambe le caratteristiche dovrebbero educare alla responsabilità: se la parola che ho ascoltato può morire, è mia responsabilità portarla con me, nutrirla, non dimenticarla; se la parola che sto per pronunciare non morirà mai, è mia responsabilità stare molto attento a ciò che sto per dire. Se non si deve cambiare “nemmeno uno yod” della Scrittura, ciò significa che la Parola della Scrittura è permanente; passeranno i cieli, si aggiorneranno i blog, passerà la terra, verranno chiusi i portali web ma la Sua parola non passerà. Quanto profonda è questa sfida alla vita quotidiana dei nostri ragazzi, persi nell’universo cangiante e impermanente del web, tra valori che durano una stagione, byter tremolanti e subito evaporati e adulti che lasciano i ragazzi davanti agli schermi per paura di qualcosa che possa permanere? E quanto infine l’incontro con Gesù avviene oggi nella preghiera? In quella preghiera che non è linguaggio strumentale (come diceva Meister Eckhart, non si prega per ottenere qualcosa ma per mantenere il contatto con Dio) ma vera e propria “parola inutile” secondo le categorie dell’utilitarismo imperante? La preghiera che è momento di contatto sociale con Dio e celebrazione collettiva e comunitaria (nella lode come nella richiesta di perdono), ma è anche momento di solitudine, privacy, meditazione solitaria, brivido dell’incontro uno-a-uno con Dio. Proprio la preghiera e la Parola ci mostrano il carattere anacronistico dell’incontro con Gesù, che attinge la propria eternità proprio dal coraggio dello sfidare le mode dei tempi e rimane nel tempo proprio perché rifiuta di considerare superato ciò che non si consegna al rutilante mondo delle parole che si illuminano su uno schermo.
“In memoria di me”: la via della liturgia, della Chiesa/comunità
Ad Emmaus tutto appare chiarito quando lo sconosciuto ospite dei due inconsolabili discepoli spezza il pane. Forse uno dei tratti più tristi della nostra epoca è il fatto che abbiamo pochi gesti che ci facciano riconoscere i nostri amici; l’eliminazione dei riti, dei simboli, delle liturgie in funzione di un malinteso illuminismo ha portato anche le istituzioni religiose a spogliarsi in modo eccessivo dei loro elementi di forza. Così l’iniziazione cristiana rischia di essere celebrata solamente a livello vagamente razionalistico senza incidere sui mondi vitali dei ragazzi e delle ragazze. Ma prima di essere una istituzione (anzi, per poterlo essere nel senso più profondo) la chiesa è un modo di essere, di camminare, di mangiare; quanti fraintendimenti su quel “su questa pietra” che, ammesso e assolutamente non concesso che si tratti di parole autentiche del Gesù storico, erano un gioco di parole sul soprannome di Pietro/Simone e non intendevano assolutamente indicare una realtà granitica e fatta di muratura (come poteva essere altrimenti per una persona che aveva criticato le pietre del Tempio per il rischio di arroganza legato all’idea di una loro eternità? Come poteva un ebreo ortodosso che aveva rifiutato l’idea di una casa permanente sulla terra per YHWH costruire poi qualcosa di analogo?).
La Chiesa è comunità di corpi e di carne (soma, in Paolo, che il corpo come realtà positiva, al contrario di sarx, che è il corpo che pecca e si riduce solo a carne); e occorre allora che i ragazzi e le ragazze incontrino Gesù noi loro corpi, lo gustino con i brividi della loro pelle, lo intendano come un vestito, un gusto da assaporare, un profumo da odorare ad occhi chiusi.
In questo senso la liturgia deve mantenere tutta la sua dimensione simbolica e soprattutto non cedere per moda o per semplificazione alle lusinghe della cosiddetta attualità; per spiegarci meglio, se nel Rinascimento un Pontefice chiamava Michelangelo e gli conferiva l’incarico di affrescare una cappella sulla base di un preciso progetto teologico, che senso ha oggi invece suonare all’Offertorio un assolo dei Pink Floyd (che per quanto sia un capolavoro non c’entra assolutamente nulla con il rito?). Perché non chiamare il migliore musicista pop dell’epoca e chiedergli di scrivere una Messa?
“Il più piccolo dei miei fratelli”: la via del servizio/ dell’educazione sociopolitica
Ovviamente Gesù si incontra nei piccoli e negli ultimi. Ce lo ha detto con lettere così chiare che è incredibile che ci sia ancora chi pensa di poterlo incontrare a Messa per poi, all’uscita scansare schifato il ragazzo che vuole vendere un accendino.
Gesù si incontra nella conversione che è prima di tutto conversione a una vita autentica verso l’altro, conversione sociale e politica. E questo afflato alla conversione si può ottenere solamente se si incontra Gesù nel momento della sua morte e si ricorda che, come dice Jürgen Moltmann, Gesù non è morto su un altare circondato da candele ma su un monte spelacchiato e soprattutto che è stato assassinato dal potere politico alleato con le élites corrotte del potere religioso. In questo senso allora l’incontro con Gesù, soprattutto da ragazzi, non lascia spazio per la neutralità; gli ignavi possono rincorrere una banderuola, chi ha realmente incontrato Gesù deve rincorrere un ideale, l’idea di una società giusta per tutti. In questo senso allora non è accettabile che l’incontro con Gesù per i ragazzi e le ragazze corrisponda all’incontro con Giulio Cesare o con Napoleone Bonaparte: non si tratta di incontrare (solo) un personaggio storico ma di lasciarsi travolgere da un evento capovolgente, come accadde allo stesso Gesù quando incontrò Giovanni in quello che fu l’inizio del cambiamento della sua vita. Dunque incontrare Gesù significa impegnarsi, mettersi a cambiare il mondo, trasformare la speranza in progetto. Se così non deve essere, lasciamo in pace Gesù e incontriamo qualcun altro: a questo punto, molto meglio Napoleone.
Tornerà? Manterrà la sua promessa? Ci manderà un altro? Occorre una fede molto più grande di una montagna per crederlo davvero. Ma intanto iniziamo a conoscerlo e a incontrarlo davvero.
Sarebbe davvero triste e ironico se, una volta tornato Gesù, noi non lo riconoscessimo perché abbiamo incontrato un altro al posto suo: magari il nostro narcisismo, il nostro desiderio di cedere al potere, la nostra voglia di essere sempre dalla parte del ricco e del forte, ovvero di colui che Gesù non volle incontrare neanche duemila anni fa.
NOTE
1 Fabrizio de André, Via della Croce, dall’album “La Buona Novella”.