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    La cultura digitale, i giovani e noi


    Luca Peyron *

    (NPG 2020-4-12)

    Scrive il Papa nella Cristus Vivit (cfr n. 86-90):

    “L’ambiente digitale rappresenta per la Chiesa una sfida su molteplici livelli; è imprescindibile quindi approfondire la conoscenza delle sue dinamiche e la sua portata dal punto di vista antropologico ed etico. Esso richiede non solo di abitarlo e di promuovere le sue potenzialità comunicative in vista dell’annuncio cristiano, ma anche di impregnare di Vangelo le sue culture e le sue dinamiche”.

    Cosa significa oggi "cultura digitale", e cosa domani? Come essa incide e inciderà sulla società, sulla Chiesa, sull’annuncio del Vangelo, sul nostro accompagnare le generazioni verso la maturità della vita e della fede? Fare esercizio di futurologia è sempre azzardato, perché si scivola velocemente nella fantascienza. Tuttavia raccogliendo l’acume degli autori più avvertiti possiamo fare questo piccolo azzardo individuando alcune questioni di sfondo.
    La prima certamente è quella dell’automazione e l’idea che abbiamo di conoscenza e saperi. Siamo infatti ancora legati ad una immagine delle macchine e dell’intelligenza artificiale come semplice espressione di potenza di calcolo mentre possiamo invece dire che una macchina ha sempre maggiore consapevolezza del mondo che la circonda. Se un tempo il campo di azione era quello di una scacchiera, oggi è sempre di più la realtà nel suo complesso anche se con una crescita meno esponenziale di quanto alcuni tecno entusiasti prevedessero. Nel 2020 le macchine apprendono dall’esperienza e, a partire da una base dati sterminata e potenza di calcolo enorme, di esperienza ne hanno a disposizione quanta ne possono computare. Forse non arriveremo a quanto il filosofo Paul Humphreys in Philosophical Papers (Oxford University Press, 2019) immagina:

    “una scienza completamente automatizzata che sostituisce quella prodotta dagli umani: è lo scenario automato. In questo, si potrà astrarre completamente dalle abilità cognitive umane nell’affrontare questioni rappresentazionali e computazionali”.

    Tuttavia siamo nel bel mezzo di una rivoluzione per sostituzione di cui abbiamo realtà consolidate come nel campo della finanza, della gestione dei trasporti, del riconoscimento facciale nelle indagini di polizia giudiziaria per citarne solo alcuni. Stiamo vivendo così una nuova fase epistemologica, di apprendimento e produzione di saperi in cui l’essere umano non è più contemplato. Questi sistemi, come avverte Humphreys, sono segnati da una opacità epistemica ossia, di fatto, non sappiamo davvero come funzionino, ad esempio quale tipo di substrato etico essi abbiano o non abbiano. A ciò dobbiamo aggiungere che tutto questo cambia significativamente il modo che abbiamo di leggere la realtà e leggere noi stessi.
    Su queste basi, a Claudia Chiavarino, psicologa e psicoterapeuta, professoressa stabile di psicologia e psicometria e responsabile della ricerca universitaria presso l'Istituto Universitario Salesiano di Torino (IUSTO), abbiamo chiesto di indagare nella mente e nel cuore di questo tempo nuovo.
    Una seconda grande questione è icasticamente descritta da Stefano Quintarelli nel titolo del suo libro Capitalismo immateriale (Bollati Boringhieri, 2019). Scrive Quintarelli, imprenditore informatico, presidente del comitato di indirizzo di Agenzia per l'Italia digitale e giudicato una delle cento persone al mondo più influenti nell’e-government:

    “Lo spostamento di interesse che il capitalismo ha mostrato dall’economia materiale – nella quale si producevano beni tangibili – all’economia immateriale – nella quale si instaurano intermediazioni, che hanno regole differenti – porta con sé cambiamenti epocali nella nostra vita quotidiana, che la politica (e dunque i cittadini) deve imparare a gestire e governare, se ha a cuore il bene comune. Il vecchio mondo era fondato sul capitalismo materiale, che costruiva e scambiava cose”.

    A Stefano è stato affidato il compito di disegnare, a partire dal suo studio, uno scenario dell’immediato presente e l’immediato futuro, soprattutto dal punto di vista delle relazioni sociali ed economiche in gioco.
    Una terza e ultima questione riguarda il tema della fiducia, della sicurezza e della verità così importanti per noi. Secondo l’ultimo rapporto del World Economic Forum i rischi derivanti da attacchi informatici sono oggi al terzo posto tra le vulnerabilità del pianeta, subito dopo i disastri naturali e gli eventi climatici. Come è stato detto Internet non è stata disegnata avendo in mente la sicurezza. Qui sta il paradosso: viviamo un tempo in cui ci fidiamo molto più della tecnologia che di noi stessi e degli altri, eppure essa è tanto più fragile quanto più diviene complessa. Risuonano allora sagge le parole profetiche di Neil Postman nel suo Technopoly (Bollati Boringhieri, 1992) che ci invitava a rifiutare l’efficienza come obiettivo principale dei rapporti umani, liberarsi dal potere magico dei numeri e della loro pretesa di precisione per mantenere una sana capacità di giudizio, nutrire almeno qualche sospetto sull’idea di progresso, prendere in considerazione le grandi narrazioni umane e non concedere che l’unica possibile sia quella scientifica per, infine, ammirare l’ingegnosità tecnologica senza pensare che essa rappresenti la massima forma di realizzazione umana.
    Tre grandi questioni dunque: conoscenza, economia e relazioni. Tre campi di sfida, anche per il nostro pensare, fare teologia e pastorale: stare in questo presente con i nostri contemporanei è sempre più necessario considerando che, data la complessità di questi temi, non vi è per la maggior parte delle persone, anche le più avvedute, una reale percezione di quanto è in gioco. Noi, come è avvenuto in passato, dobbiamo essere in grado di rispondere alla domanda che pone il salmo: sentinella, a che punto è la notte?
    Stefano Pasta, docente di “Metodologia delle attività formative e speciali” all’Università Cattolica di Milano e collaboratore del Cremit, il Centro di Ricerca sull'Educazione ai Media all'Innovazione e alla Tecnologia dell’Ateneo, ci aiuterà con queste premesse a leggere il nostro modo di relazionarci in questi contesti con una ricognizione ampia e intelligente che valorizzi l’ambiente digitale, soprattutto quello delle piattaforme.
    Come il lettore noterà i contributi non sono immediatamente una riflessione pastorale esplicita: è una scelta consapevole. Il tema della cultura digitale è insidioso e scivoloso, la letteratura pastorale in merito rischia spesso di soffermarsi solo sui fenomeni e meno sui fondamenti. È invece necessario prendere coscienza che ci troviamo di fronte ad un pezzo significativo di quel cambiamento d’epoca di cui scrive a più riprese Francesco, un cambiamento che incide profondamente, soprattutto in occidente, in tutto quello che conosciamo e nelle modalità in cui siamo abituati a confrontarci con la realtà. La rivoluzione digitale ha bisogno di operatori pastorali che accettino l’umiltà, benché persone significativamente probate nel ministero e nel servizio, di tornare per qualche tempo sui banchi ad imparare e conoscere il nuovo continente immateriale in cui lo Spirito ci manda missionari.
    Questo dossier non coltiva la velleità di farlo, ma si propone di consegnare alcuni spunti importanti che permettano di avere un minimo di consapevolezza in più delle grandi questioni in gioco e, soprattutto, possano essere da stimolo ad allargare il cerchio delle nostre letture su questi temi.
    Infine è opportuno ricordare che i padri sinodali hanno notato come:

    "L’ambiente digitale rappresenta per la Chiesa una sfida su molteplici livelli; è imprescindibile quindi approfondire la conoscenza delle sue dinamiche e la sua portata dal punto di vista antropologico ed etico. Esso richiede non solo di abitarlo e di promuovere le sue potenzialità comunicative in vista dell’annuncio cristiano, ma anche di impregnare di Vangelo le sue culture e le sue dinamiche" (Documento finale del Sinodo dei Giovani, n. 145).

    e quindi affermano che:

    "il Sinodo auspica che nella Chiesa si istituiscano ai livelli adeguati appositi Uffici o organismi per la cultura e l’evangelizzazione digitale, che, con l’imprescindibile contributo di giovani, promuovano l’azione e la riflessione ecclesiale in questo ambiente" (n. 146).

    Non dobbiamo correre il rischio di pensare che padroneggiando tecnicamente alcuni strumenti noi si sia davvero in grado di comprendere la portata di quello che sta accadendo e, soprattutto, di essere in grado di farvi fronte traendo, come lo scriba del Vangelo, cose nuove e cose antiche dal proprio scrigno. Questo sforzo è dovuto soprattutto nei confronti dei giovani. Il ritorno del tema delle periferie, caro a papa Francesco, ci avverte come siamo passati da una società verticale, di classe, in cui contava essere sopra o sotto, ad una orizzontale, in cui conta essere in o out. I giovani sono apparentemente in questo mondo e gli adulti, noi, out. La complessità di questi scenari, se meglio compresa, ci rivela che è alto il rischio di pensare di essere in ed invece essere out, che il mutare dei fattori culturali, simbolici ed affettivi genera nuove forme di devianza e di esclusione. I giovani benché culturalmente integrati nella società dei consumi se ne sentono rigettati fuori. I bisogni dei giovani, come la capacità di protagonismo e di partecipazione, hanno opportunità straordinarie dal punto di vista degli strumenti tecnici, ma senza la presenza di adulti seri, consapevoli ed attenti, rischiano di essere maggiormente frustrati, relegando buona parte di una generazione in un rumore assordante non molto dissimile da quel silenzio dell’invisibilità a cui erano destinati i giovani della precedente generazione.
    La sfida è aperta, le possibilità del bene e del male, vaste. A noi attraversare questo tempo portandovi il lievito del Vangelo. Buona lettura.

    * Servizio per l’Apostolato Digitale Arcidiocesi di Torino, Università Cattolica del Sacro Cuore Milano.


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