Stefano Pasta [1]
(NPG 2020-04-35)
Cittadini onlife
«L’uso del social web è complementare all’incontro in carne e ossa, che vive attraverso il corpo, il cuore, gli occhi, lo sguardo, il respiro dell’altro. Se la rete è usata come prolungamento o come attesa di tale incontro, allora non tradisce se stessa e rimane una risorsa per la comunione» [2]. È questa l’idea chiave del Messaggio per la 53a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali di Papa Francesco: il superamento della tentazione di pensare che da una parte ci sia la Rete (il virtuale) e dall’altra il mondo (il reale) è già un’indicazione di metodo dal punto di vista educativo. La duplice immagine del prolungamento e dell’attesa, infatti, indica una complementarità e un’integrazione tra online e offline: non assolutizzare, non isolare una dimensione a scapito dell’altra, ma armonizzare il proprio stare in Rete con la vita di tutti i giorni, praticare la regola dell’alternanza costruendo diete di consumo equilibrate.
In quest’ottica, per analizzare rischi e opportunità, occorre innanzitutto condividere tre premesse su come interpretare – e assumere le conseguenti posture educative – i legami nel Web 2.0, ossia la Rete sociale segnata dall’affermarsi dei social network e i servizi di instant messaging (WhatsApp, Telegram).
La prima è già stata indicata: superare il “paradigma geografico”, secondo il quale online e offline sarebbero due spazi separati, due luoghi diversi. È l’idea che troviamo riflessa nell’opposizione dei termini della lingua italiana “reale” e “virtuale”, con la conseguenza che ciò che agiamo nel “virtuale” sarebbe meno “reale” e quindi giustificherebbe un atteggiamento deresponsabilizzato: «è uno scherzo», oppure «mi stai prendendo troppo sul serio» mi hanno risposto via social tanti ragazzi, contattati poiché avevano partecipato a performances d’odio [3], come evocare le camere a gas per il campo rom vicino al quartiere o invitare allo stupro di una ragazza. In realtà, la Rete è “realtà aumentata” e ciò che agiamo nel Web è reale (e quasi sempre pubblico), siamo esseri umani definitivamente connessi, in cui offline e online non sono due dimensioni distinte ma si compenetrano. Onlife, secondo l’efficace espressione di Luciano Floridi [4]. Questo vale per quasi tutte le relazioni vissute dai ragazzi (ma anche dagli adulti): al termine dell’orario scolastico o dell’incontro di catechismo, chattando sul gruppo WhatsApp della classe, gli adolescenti continuano gli scambi (e talvolta anche le pratiche didattiche) vissuti nello spazio di educazione formale; allo stesso modo si trovano esperienze di welfare, come il progetto “WelComeTech: reti a sostegno degli anziani vulnerabili” nella provincia di Verbania [5], o di pastorale, come le pagine Instagram o Facebook “Humans of Rizzo” e il progetto “Narrare è generare” della Parrocchia San Francesco del quartiere Rizzottaglia di Novara [6], che valorizzano nell’intervento sociale la continuità tra online e offline (l’efficacia è data proprio da questo).
La seconda premessa problematizza un’altra neuromitologia radicata [7], quella riassunta nell’espressione “nativi digitali”, lanciata nel 2001 dall’americano Marc Prensky per indicare una presunta analogia tra l’apprendimento della lingua materna e il mondo digitale: secondo quest’ottica i bambini svilupperebbero una particolare dimestichezza con le tecnologie non condivisibile dall’adulto (immigrato digitale), che al contrario potrebbe raggiungere una buona padronanza ma mai un legame paragonabile a quello dei nativi. Lo stesso Prensky, nel 2011, sostenne che la vera differenza non era più su un piano generazionale, ma tra lo “svelto digitale”, il “saggio digitale” e lo “stupido digitale”. Tale ripensamento introduce il termine “cyberstupidity” per indicare quei comportamenti che hanno alla base un’idea sbagliata della cittadinanza digitale, dovuta all’intenzione (ci si prefigge di fare del male a qualcuno), all’ignoranza (non si valutano le conseguenze dei propri atti) o alla superficialità (la pretesa di non essere presi sul serio). In questo spettro rientrano quasi tutti i fenomeni associati al digitale e che creano preoccupazione a scuola, dal sexting al cyberbullismo, dal flaming all’hate speech online. Soprattutto, il ripensamento introdotto da Prensky riporta al centro il ruolo (trasformativo) dell’educazione, al posto del dato (immutabile) anagrafico, e rivede cosa intendiamo per “competenze digitali”: non solo un mero sapere tecnico (sbloccare lo schermo dello smartphone, intuire le opzioni offerte una app), ma competenze che permettano di vivere da cittadini al tempo dell’onlife, riconoscendo le fake news [8], esprimendo opinioni divergenti senza incitare all’odio, valutando le conseguenze dell’invio di una foto di nudo, o non essendo indifferenti di fronte a un caso di cyberbullismo. Non si nasce nativi digitali, dunque, ma si può diventare cittadini (digitali).
La terza premessa ricorda che, quando si afferma una nuova tecnologia, emergono atteggiamenti contrapposti: preoccupazione versus fascinazione, rifiuto versus assimilazione, passato contro futuro. Come già nel 1964 indicava Umberto Eco quando la televisione era il nuovo media che entrava nelle case degli italiani [9], occorre superare la tendenza a dividersi tra apocalittici e integrati, optando per un atteggiamento critico. Tuttavia, se al tempo dei media di massa essere capaci di “leggere i messaggi” criticamente significava garantirsi che gli utenti avessero le risorse sufficienti a non farsi condizionare a produrre un “pensiero proprio” in risposta al rischio del “pensiero unico”, oggi questo non è più sufficiente perché rappresenta solo la metà dell’opera. Non basta più educare lo spettatore, occorre anche educare il produttore che ciascuno è diventato grazie allo smartphone che ha con sé. È questo un tratto che ben riassume come la Rete possa essere una grande opportunità come fonte di rischi: può promuovere solidarietà o isolamento, è metafora di ciò che imbriglia (nella rete si può rimanere catturati, come i pesci) e al contempo di ciò che tiene insieme. Da qui consegue un’indicazione per l’intervento educativo in famiglia, a scuola, nell’oratorio, nelle associazioni: oggi serve ritornare a costruire il senso della partecipazione contro la logica dell’individuo [10], vincendo quella tentazione di dire che «non me ne care più», come scriveva il priore di Barbiana nel 1967 al suo allievo. Per don Milani occorreva insegnare ai giovani a spendere la vita nell’impegno e nella partecipazione, tenendosi alla larga dal peccato più grande, finalizzare tutto all’affermazione individuale.
Agire performativo nei social network
I “pubblici interconnessi” (networked publics) sono caratterizzati per Danah Boyd [11] da queste caratteristiche: la presenza di audience invisibili, nel senso che non tutti i componenti del pubblico sono visibili e compresenti quando una persona sta intervenendo; i contesti collassati, ovvero la mescolanza di diversi contesti sociali dovuta all’assenza di confini spaziali, sociali e temporali; infine la confusione tra pubblico e privato, declinata come la difficoltà di tenere distinti i due ambiti e di mantenere il controllo sulle informazioni e sulla loro circolazione è molto difficile. Un tratto di quella che definiamo “nuova sfera pubblica” riguarda il rapporto tra legami deboli e legami forti; all’interno dei social media, la distinzione, tipica invece della vita offline, non è così netta e le relazioni tendono ad apparire molto simili. Da un lato i social media non aumentano il numero di legami forti, ma si limitano a farli sembrare uguali a quelli deboli; dall’altro, dal momento che si contrae il tempo di processamento dell’informazione, un legame nel Web 2.0 può diventare da debole a forte velocemente e con facilità [12].
Inoltre, sempre Boyd indica quattro proprietà di queste relazioni sociali: la persistenza, il fatto che gli scambi comunicativi online sono automaticamente registrati e quindi rintracciabili anche a distanza di anni; seguono la replicabilità, ossia la possibilità di duplicare facilmente i contenuti digitali, la scalabilità, che indica l’enormità della visibilità potenziale dei contenuti, e la ricercabilità, ovvero che il contenuto dei pubblici interconnessi può essere reso accessibile attraverso la ricerca.
Si indicheranno ora alcuni tratti che espongono a rischi la vita onlife e gli scambi comunicativi che la caratterizzano. Alcuni di questi, se ben conosciuti, possono essere utilizzati anche per campagne di contronarrazione e di contrasto [13].
Con il sapere orizzontale del digitale, diverso da quello trasmissivo verticale delle istituzioni educative formali, si affermano nuovi canoni di autorialità. Nella storia, un primo cambio – anche in questo caso legato a una tecnologia – si ebbe con l’affermazione della scrittura (si pensi al rifiuto della scrittura di Socrate, al mito di Theuth e il passaggio al testo scritto con Platone, pur con molte diffidenze). Nel Medioevo una fonte aveva in sé un’iscrizione di autorevolezza quando la comunità le riconosceva il credito di esprimere il proprio pensiero, oltre a commentare quello altrui (l’Ipse dixit riferito ad Aristotele o a un Padre della Chiesa, l’essere scritto nella Bibbia). Con la nascita della stampa e della prima industria editoriale inizia a porsi il problema del diritto d’autore e della relazione tra autorialità e pubblicabilità (si pensi al dibattito sull’autorevolezza dell’interpretazione che accompagna la traduzione della Bibbia e la Riforma di Lutero); il sistema editoriale finisce per assumere il ruolo di dispositivo di mediazione e di selezione, così come la redazione giornalistica lo diventa per la notizia: la qualità di quanto viene pubblicato è certificata dal fatto che sia stato pubblicato, l’editore stampa opere di autori di cui prevede il rientro dell’investimento, mentre il lettore tende a fidarsi della scelta dell’editore ritenendo autorevole ciò che ha stampato.
Nel Web 2.0 per i giovanissimi non è più così: nella cultura del libro l’autorevolezza era garantita da poteri centralizzati riconosciuti, seppur orientabili e portatori d’interessi (case editrici, università, quotidiani e riviste), mentre nell’ambiente digitale l’autorevolezza è riconosciuta nei pari (numero di like, condivisioni, interazioni…). Si può parlare dell’emergere di nuovi intermediari culturali che favoriscono uno sviluppo dei saperi di profonda rottura con il modello verticale tradizionale (quello su cui sono fondate l’istruzione formale, la scuola, la Chiesa…), in cui i ruoli dell’insegnante e dell’allievo sono profondamente distinti e socialmente riconosciuti, mentre ora si afferma la demediazione, o disintermediazione, della comunicazione, ovvero che non occorre più passare attraverso gli apparati per pubblicare un articolo o mettere in onda un video, anche a chi non ha competenze professionali per farlo. È questo una grande potenzialità, per produrre messaggi culturali, così come un rischio: in un social network chiunque può pubblicare una notizia, potenzialmente virale, anche senza aver sostenuto gli studi per diventare giornalista professionista: il World Economic Forum ha indicato la disinformazione online come uno dei dieci rischi per il futuro, mentre diverse ricerche scientifiche indicano la difficoltà nel riconoscere una notizia vera da una falsa, sia per studenti delle secondarie [14], sia universitari [15]. In ambienti segnati dal sovraccarico informativo, la competenza non è più la ricerca in sé, ma la capacità di selezionare le fonti, accreditando autorevolezza.
Hartmut Rosa [16] definisce la nostra come una società dell’accelerazione, che annulla gli spazi e condensa i tempi, poiché tutto avviene a grande velocità: il potere deterritorializzante di media mobili e sempre connessi ci consente di vivere più tempi nello stesso istante processando in parallelo più informazioni.
Al sovraccarico informativo si risponde con un’altra caratteristica del Web 2.0, che occorre problematizzare, ossia la velocità 2.0, ovvero la tendenza per cui aumentano nel digitale le decisioni che si prendono in base al sistema veloce e intuitivo. È quello che lo psicologo Daniel Kahneman [17] chiama “sistema 1”, contrapponendolo al “sistema 2” di tipo lento e razionale. Questa organizzazione dell’euristica, ovvero delle modalità con cui prendiamo le decisioni, ci consente di eseguire con facilità operazioni complesse, ma può anche essere fonte di errori sistematici (bias), quando l’intuizione si lascia suggestionare dagli stereotipi, dagli elementi che – a una prima impressione – catturano l’attenzione e provocano un posizionamento e che la riflessione è troppo pigra per correggere. Ciascuno di noi è molto più impulsivo (e molto meno riflessivo) di quanto si pensi, sia offline, sia online; tuttavia, in quest’ultimo ambiente, la mente è ancora più spinta a ricorrere al sistema 1, tra like, domande incalzanti, condivisioni e video virali, necessità di cliccare e selezionare in velocità per rispondere al sovraccarico informativo determinato sui social media dalle notifiche (le condivisioni dei profili seguiti), la cui produzione supera quelli che si riescono a leggere. È l’esperienza che un utente vive nei social media: non è possibile valutare in modo riflessivo tutti i contenuti dei profili con cui sono collegato (quindi già selezionati secondo un criterio di affinità) di fronte allo scorrere del newsfeed [18], ma in maniera intuitiva occorre scegliere quali contenuti ignorare, quali approfondire, a quali cliccare “mi piace”, magari senza neppure aprirli. Toni forti, immagini di impatto e frasi shock sono elementi efficaci nel catturare l’attenzione. In questo scenario, si apprende per mera esposizione e la riflessione neuroscientifica smentisce che l’intuizione sia un qualcosa di dato: al contrario viene appresa, poiché i processi intuitivi sono per la maggior parte frutto dell’apprendimento e dal punto di vista psicologico l’intuizione è la capacità di simulazione, in particolare nell’ambiente digitale è più facile imparare provando piuttosto che a seguito di una spiegazione teorica. Se l’intuizione è orientabile e produce apprendimento (e qualità dei legami comunitari), si comprende come la presenza educativa, adottando modalità efficaci rispetto all’ambiente, sia una scelta di contemporaneità nel luogo di educazione informale che più ha segnato gli ultimi anni.
Altri studi, come quello di Van Bavel e colleghi [19], mostrano che l’alto tasso di emotività morale dei messaggi e delle informazioni scambiate online garantisce una diffusione maggiore, proprio perché “catturano” il nostro sistema 1. Le piattaforme dei social media si trovano quindi a gestire quello che possiamo chiamare il “mercato delle emozioni”. Il Web, dunque, vive di emotività, anzi rappresenta la principale fonte di contenuti moralmente rilevanti nella vita quotidiana [20].
In questo regime comunicativo, per diffondere messaggi d’odio risultano particolarmente efficaci le immagini, così come mostrato ad esempio dal successo di Instragam [21] tra i giovani: “leggere” un’immagine è più veloce che la stessa azione per un post di Facebook. Va ricordato anche il ruolo dei meme, ovvero vignette o immagini, spesso stereotipate, non esteticamente belle, ma che colpiscono la mente visuale e il nostro sistema 1 per semplicità, tratti, lettere a caratteri cubitali e accostamenti cromatici. Vengono riprodotti con leggere variazioni e possono assumere un ruolo nel rendere un contenuto virale e al contempo banalizzare un contenuto.
L’uso di meme e immagini ironiche è dunque una via con cui si possono banalizzare contenuti d’odio. Lo si è visto, ad esempio, durante la diffusione del coronavirus, in cui contenuti sinofobi circolavano con facilità nel Web, in continuità con atteggiamenti simili offline. D’altro canto, queste stesse caratteristiche (velocità, ruolo dell’immagine, partecipazione co-autoriale, storie personali inserite in una cornice narrativa collettiva…) sono state alla base della reazione efficace in corso nello stesso periodo: si pensi alla campagna virale sui social #jenesuispasunvirus (“non sono un virus”, in francese) in cui giovani cinesi si fotografavano con un cartello con questo hashtag, oppure, secondo una precisa logica onlife di rimando tra online e offline, l’alto numero di foto postate sui social da persone (famose o normali cittadini), che, per sconfiggere la diffidenza verso i cinesi in Italia, si recavano in ristoranti o negozi cinesi.
Analfabetismo emotivo e spirale del silenzio sono due fenomeni ulteriori che facilitano la propagazione dei comportamenti di cyberstupidity. Il primo è legato alla comunicazione attraverso gli schermi: quando l’interazione mediata sostituisce la fisicità del corpo, attiviamo meno meccanismi di simulazione corporea (neuroni specchio) per attivare empatia e metterci nei panni dell’altro, vivendo così emozioni forti, numerose, ma disincarnate. Il soggetto è così privato di un punto di riferimento nel processo di apprendimento e comprensione delle emozioni proprie e altrui. Tre elementi caratterizzano questa tendenza, detta analfabetismo emotivo: l’assenza di consapevolezza, e quindi di controllo, delle proprie emozioni e dei comportamenti associati; la mancanza di consapevolezza delle ragioni per le quali si prova una certa emozione; l’incapacità di relazionarsi con le emozioni altrui e con i comportamenti che ne scaturiscono. L’utente social è dunque sottoposto a un alto numero di occasioni per provare emozioni durante l’utilizzo dei nuovi media, ma paradossalmente è meno in grado di gestire le proprie emozioni e riconoscere quelle degli altri. Negli esseri umani convivono due tendenze contradditorie: la “naturale” simpatia verso le altre creature, ma anche l’ostilità verso lo sconosciuto o lo straniero, verso chi fa parte di un altro gruppo. In questo modo, le relazioni online possono compromettere quel “sentire con l’altro” che definiamo empatia, cioè una risposta agli stati affettivi dell’altro e una condivisione emotiva; perché si sviluppi, è necessario però il riconoscimento delle reazioni altrui e una comprensione che si sintonizza con le sue emozioni. È quello che è avvenuto, proprio online (e quindi onlife), di fronte alla foto di Aylan Kurdi sulle spiagge di Bodrum nel settembre 2015 [22] o all’immagine del vignettista Makkox sul quattordicenne maliano affogato insieme alla sua pagella nel tentativo di raggiungere l’Europa. Non una novità: solo nel 2015 sono stati per l’Oim 3.771 morti nel Mediterraneo, ma in questi due casi è scattata il riconoscimento di un’umanità e di emozioni comuni: come sosteneva il filosofo americano Richard Rorty, per capire che un altro essere umano è tale anche se diverso da noi per colore della pelle, orientamento sessuale o politico, fede religiosa, bisogna ricordarsi che ha una madre pronta a soffrire per lui, come nostra madre è pronta a soffrire per noi. Campagne online e onlife, organizzate o nate come reazione a un singolo episodio, mostrano come il Web può promuovere empatia, azioni solidali e democratiche. Che è la grande sfida in Rete: passare dall’essere spettatori all’essere soccorritori di fronte ai processi di elezione a bersaglio verso le vittime.
La spirale del silenzio, invece, è una teoria proposta dalla sociologia ben prima dell’affermazione del digitale (da Elisabeth Noelle-Neumann nel 1974), a proposito dell’oscuramento delle opinioni minoritarie nella comunicazione di massa. È l’idea che la maggior parte delle persone, quando percepisce di avere un’opinione diversa dalla maggioranza, si rifugia nel silenzio. Le persone hanno sempre un’opinione su quale sia la tendenza maggioritaria e, subendo la paura dell’isolamento, tendono a tacere la propria opinione se differente. Alcuni studi [23] mostrano che, nel Web 2.0, il ruolo della spirale del silenzio è ancora più forte: non si vuole lasciare tracce digitali delle proprie opinioni minoritarie, dato che si teme di poterne essere danneggiati socialmente, e si risente fortemente della pressione di conformità e del desiderio di essere popolari. Si assiste così a sfere abbastanza impermeabili, accumunate dal rimbalzo di idee simili che si confermano a vicenda. È il fenomeno delle echo chambers (camere d’eco, casse di risonanza), che distorce le logiche della sfera pubblica come la intendeva Habermas, ossia come spazio di confronto, dissenso, dialogo e partecipazione. Eli Pariser [24] ha introdotto la nozione di silos sociali, o filter bubble, ovvero la bolla di gusti e preferenze in cui tendiamo a collocarci nel Web sociale, che finisce per filtrare il reale e organizzare le comunità.
La Rete che vogliamo
«Così possiamo passare dalla diagnosi alla terapia: aprendo la strada al dialogo, all’incontro, al sorriso, alla carezza… Questa è la rete che vogliamo. Una rete non fatta per intrappolare, ma per liberare, per custodire una comunione di persone libere. La Chiesa stessa è una rete tessuta dalla comunione eucaristica, dove l’unione non si fonda sui “like”, ma sulla verità, sull’“amen”, con cui ognuno aderisce al Corpo di Cristo, accogliendo gli altri» [25]. Nella parte finale del Messaggio per le comunicazioni sociali del 2019, Papa Francesco indica una direzione riassumibile in tre idee: il rapporto tra i media e i legami non è per forza di indebolimento, ma le tecnologie possono costruire e rafforzare legami di comunità [26]; la qualità della comunicazione dipende dall’intenzionalità di chi comunica, non dai media; per recuperare la verità della comunicazione occorre non cedere alla logica dell’accelerazione.
Nel Web, cercando i rischi e i comportamenti scorretti, si trovano anche attivisti e cittadini responsabili, ossia che agiscono valutando la conseguenza delle proprie azioni, e si impegnano perché la Rete custodisca l’incontro tra persone libere. E perché, onlife, le comunità si fondino sull’amen e non sul like. Quest’ultimo indica il gradimento da cui dipende la popolarità, ma è un atto che si concede con un semplice click, non implicando adesione o reale assunzione della posizione apprezzata. Come sostiene Pier Cesare Rivoltella, «la logica del like è sostenuta dalla fretta, è figlia dell’accelerazione, si ferma alle emozioni, non va in profondità» [27]. L’amen invece indica la conclusione della preghiera, la risposta dell’assemblea in una liturgia, ed è traducibile con l’italiano “è così sia”. Rimanda alla dimensione della fiducia: credere significa anche affidarsi a qualcuno, che dà fondamento alla vita, la riempie e le conferisce stabilità. «La logica dell’amen – continua Rivoltella – chiede il tempo di sostare, perché la verità di cui potersi fidare ha bisogno di tutto il tempo che serve ad attingerla in profondità» [28]. Dunque una comunità fondata sull’amen è quella – online o offline (si può vivere di like anche fuori dai social) – fatta da persone il cui stile è quello della testimonianza, che non si sottraggono alla responsabilità e vivono l’altro come il fine. I media possono essere profondamente umani se attraverso di essi si prepara e si produce questo incontro, quando – con le parole di Francesco – producono questa comunione.
Nella storia salesiana la dimensione dell’animazione sociale si declina in termini pastorali, divenendo il metodo e lo stile dell’intervento educativo con i giovani nei contesti informali e non formali, lo spazio e la forma della presenza educativa in mezzo ai giovani. Consapevoli di questa storia e di come la Rete sia lo spazio di educazione informale più pervasivo e impattante della contemporaneità, oggi, stare da cristiani di fronte agli interrogativi posti dalla Rete vuole dire scegliere una prospettiva di speranza: lontana da atteggiamenti cyberutopistici e consci dei rischi, significa però riaffermare il valore della presenza. Come si legge nel Documento finale del Sinodo sui Giovani (2018, 145), l’ambiente digitale «richiede non solo di abitarlo e di promuovere le sue potenzialità comunicative in vista dell’annuncio cristiano, ma anche di impregnare di Vangelo le sue culture e le sue dinamiche». Significa valorizzare quelle esperienze, singole o collettive, in cui in rete si costruiscono legami di comunità, si producono narrazioni alternative, si educa all’empatia e non si rimane indifferenti verso chi soffre o è eletto a bersaglio. Vuol dire sviluppare un’idea di competenza mediatica che non è solo una questione di decodifica del messaggio, ma chiama in causa, prima di tutto, questioni di formazione per un progetto che è culturale, sociale e politico. Appare in tal senso necessario richiamare la proposta di etica mediatica di Roger Siverstone [29], basata su giustizia mediale, ospitalità e responsabilità, in cui occorre costruire la dimensione morale fondandola sia sulla procedura, sia sulla responsabilità che ogni membro della mediapolis deve assumere per sé. Un’educazione alla cittadinanza digitale orientata in tal senso dovrà mirare a formare soggetti morali capaci di assumersi la responsabilità delle proprie azioni e il dovere di cura dell’altro, spingendo gli spettatori ad assumere il ruolo di soccorritori, processo che può essere facilitato dalla co-autorialità della cultura partecipativa. La sfida dell’educazione onlife è ritornare a pensare l’individuo come soggetto capace di assumersi le proprie responsabilità personali in uno scenario comunitario. Perché, con Hölderlin, «là dov’è il pericolo cresce anche ciò che salva» [30].
Per approfondire: S. Pasta, Razzismi 2.0. Analisi socio-educativa dell’odio online, Brescia, Scholé-Morcelliana, 2018.
NOTE
[1] Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media, all’Innovazione, alle Tecnologie (CREMIT), Università Cattolica di Milano. Autore di Razzismi 2.0. Analisi socio-educativa dell’odio online, Brescia, Scholé-Morcelliana, 2018.
[2] Francesco, Messaggio del Santo Padre Francesco per la 53ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali. “Siamo membra gli uni degli altri” (Ef 4,25). Dalle social network communities alla comunità umana, Città del Vaticano, 2019.
[3] In Razzismi 2.0 (op. cit.) si analizzano le conversazioni social con diversi adolescenti (14-21 anni), contattati poiché a vario titolo avevano partecipato a performances d’odio online.
[4] L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina, Milano, 2017.
[5] https://welcomtech.org/.
[6] A titolo di esempio si veda la pagina https://www.facebook.com/humansofrizzo/.
[7] P.C. Rivoltella, Neurodidattica. Insegnare al cervello che apprende, Raffaello Cortina, Milano, 2012.
[8] I. Maffeis, P.C. Rivoltella (a cura di), Fake news e giornalismo di pace, Scholé, Brescia, 2018.
[9] U. Eco., Apocalittici e integrati: comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Bompiani, Milano, 1964.
[10] I. Maffeis, P.C. Rivoltella (a cura di), Dalle communities alle comunità, Scholé, Brescia, 2019.
[11] D. Boyd, It’s complicated. La vita sociale degli adolescenti sul web, Roma, Castelvecchi, 2014. Nella scrittura del nome vi è una precisa rivendicazione: con la scelta del minuscolo vuole invece ironizzare sull’egocentrismo contenuto nella scelta del maiuscolo.
[12] S. Pasta, “Una lettura della ‘Jihadosfera’. L’importanza del Web e dei legami deboli nell’educazione al terrorismo”, in F. Antonacci, M.B. Gambacorti-Passerini, F. Oggionni (a cura di), Educazione e terrorismo. Posizionamenti pedagogici, FrancoAngeli, Milano, 2019, pp. 23-34.
[13] S. Pasta, Razzismi 2.0., op. cit..
[14] S. Wineburg, S. McGrew, J. Breakstone, T. Ortega, Evaluating information: The cornerstone of civic online reasoning, Stanford Digital Repository, Stanford, 2016.
[15] P. Herrero-Diz, J. Conde-Jiménez, A. Tapia-Frade, D. Varona-Aramburu, “The credibility of online news: an evaluation of the information by university students”, Cultura y Educación, 31, 2019, 1-13.
[16] H. Rosa, Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, Einaudi, Torino, 2015.
[17] D. Kahneman, Pensieri lenti e veloci, Mondadori, Milano 2012.
[18] È una funzionalità del social network, in cui gli utenti visualizzano i contenuti pubblicati dai propri contatti.
[19] W.J. Brady, J.A. Wills, J. Jost, J. Tucker, J. Van Bavel, S. Fiske, “Emotion shapes the diffusion of moralized content in social net-works”, Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 114(28), 2017, 7313-7318.
[20] M.J. Crockett, “Moral outrage in the digital age”, Nature Human Be-haviour, 1(11), 2017, 769-771.
[21] Ricordando che le riflessioni educative vanno inserite nei contesti socio-economici, non va dimenticato che Instagram, Facebook e WhatsApp hanno la stessa proprietà, così come il ruolo del cosiddetto “capitalismo digitale” (o “capitalismo della sorveglianza”) dei GAFA (Google, Amazon, Facebook, Apple) nel controllo del mercato tecnologico in senso oligopolistico.
[22] F. Colombo, Imago pietatis. Indagine su fotografia e compassione, Vita e Pensiero, Milano, 2018.
[23] K. Hampton, L. Raine, W. Lu, M. Dwyer, I. Shin. e K. Purcell., Social Media and the “Spiral of Silence”, Pew Research Center, Washington, 2014.
[24] E. Pariser, Il Filtro: quello che internet ci nasconde, il Saggiatore, Milano, 2012.
[25] Francesco, op. cit..
[26] P.C. Rivoltella, Tecnologie di comunità, ELS La Scuola, Brescia, 2017.
[27] I. Maffeis, P.C. Rivoltella, op. cit., 2019, p. 132.
[28] Ibidem.
[29] R. Silverstone, Mediapolis. La responsabilità dei media nella civiltà globale, Vita e Pensiero, Milano, 2009.
[30] La citazione è tratta dalla poesia Patmos (secondo e terzo verso) di Friedrich Hölderlin del 1803.