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    (NPG 2018-02-78)

    Non conosciamo ovviamente l’età media degli Israeliti che uscirono dall’Egitto nella storia narrata dall’Esodo; immaginiamo potesse trattarsi di un popolo misto, che prevedeva tra le sue file sia giovani che anziani. Ciò di cui ci occuperemo in questo articolo dunque non è tanto la vicenda narrata quanto la memoria che da millenni il popolo di Israele mantiene viva, nei riti della Pasqua. Il seder pasquale, il pasto rituale nel quale si ricorda la fuga dall’Egitto e dunque l’Esodo, libro che è un vero deposito di identità per ogni ebreo, è una usanza che caratterizza in modo specifico il popolo giudaico, forse una delle tradizioni più amate dagli ebrei di tutto il mondo; è un momento nel quale la memoria si fa cibo, accompagnata dal rito esplicitamente pedagogico delle domande attorno alla Pasqua che vengono poste dal figlio più piccolo. Il testo biblico dunque è una vera e propria guida per un rituale pedagogico che esalta la domanda e la curiosità del giovane. Non manca peraltro la dimensione utopica e la declinazione al futuro: è usanza lasciare un posto vuoto a tavola per il profeta Elia, il personaggio dell’Antico Testamento “rapito in cielo” il cui ritorno segnerà l’ingresso nel tempo messianico. Memoria, presenza e speranza vengono perciò fuse in un orizzonte quotidiano ripieno di sapienzialità.
    La memoria è consegnata dunque a una dimensione comunitaria, spesso intrafamigliare (ma la Pasqua può essere vissuta anche con amici), ed è lo stesso cibo a servirle come sostegno; l’ordine divino di mangiare per generazioni le stesse cose che servirono da pasto agli ebrei in fuga costituisce una strategia per gettare ponti tra le generazioni. Il carattere insolito del pasto e del cibo (“perché questa sera è diversa dalle altre sere?” domanda il figlio minore) legato al sapore delle vivande (l’amaro delle erbe, il caratteristico gusto del pane non lievitato) mette in moto una dimensione mnestica che ovviamente non viene abbandonata a se stessa ma rafforzata con il racconto del capofamiglia.
    Ma come si presenta questa pedagogia concreta della memoria rivolta ai giovani e ai giovanissimi? Qual è il ruolo del giovane nella cena pasquale? La cosa che ci sembra interessante è il fatto che non si tratta di una mera acquisizione passiva di quanto trasmesso dagli adulti. Anzi, sembra proprio che senza la domanda del giovane, tutto il rito pasquale non potrebbe avere luogo. È ozioso sottolineare che le domande sono stereotipate e previste in anticipo: questo è vero per qualsiasi dimensione di qualsiasi rito. La cosa interessante, al contrario, è proprio il fatto che il rito stesso abbia previsto un ruolo attivo da parte del giovane, che è colui che dà la scintilla per l’inizio del memoriale.
    Si parte dalle domande, dunque, come sempre accade nella pedagogia giudaica. E la lettura rabbinica ha diversamente interpretato i versetti che presentano le domande dei figli ai padri, evidenziando come essi si riferiscano a quattro differenti tipologie di figli; il passo di Deut 6, 20 (“Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: Che significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme che il Signore nostro Dio vi ha date?”) viene interpretato come la domanda del figlio saggio, che ha già capito il senso della narrazione e la vuole approfondire. Il figlio sa già distinguere le istruzioni dalle leggi, e queste dalle norme, ha già compreso il valore normativo della narrazione. È un figlio che sta già diventando adulto, che fra poco non avrà più bisogno di guida perché sa già addentrarsi in modo competente nel testo biblico.
    Quella riportata da Es 12,26 (“Allora i vostri figli vi chiederanno: Che significa questo atto di culto”) è invece la domanda del figlio malvagio perché nella domanda originale in ebraico si dice “che cosa significa per voi questo atto di culto”, come se il ragazzo si ponesse al di fuori della collettività e del popolo. Ogni educatore conosce momenti nei quali la propria proposta educativa viene rifiutata dai giovani, che letteralmente “si chiamano fuori” dalle norme e dai valori che vengono presentati loro. Possiamo però dire che in questi casi non siamo di fronte a figli malvagi, ma a relazioni educative inefficaci: forse se i ragazzi, quando presentiamo loro valori e norme, pensano che non si stia parlando del loro mondo, non hanno tutti i torti; forse non riusciamo davvero a far scattare quel processo di identificazione che è il motore segreto di ogni relazione educativa. I valori non passano di generazione in generazione attraverso un processo automatico e garantito (per fortuna); occorre ogni volta ancorarli al vissuto dei ragazzi, cercare nelle loro anime i punti di aggancio (sempre diversi per ciascuno di loro) ai quali ancorare i nostri discorsi. Oltretutto alcuni tra i padri del popolo di Israele rispettavano e incarnavano le norme che proponevano ai propri figli (anche se ovviamente non è possibile generalizzare; anche tra gli israeliti esistevano soggetti “di dura cervice”): quanto tutto ciò è vero per noi? Quanto i nostri ragazzi non ci vedono tenere comportamenti coerenti con i valori che chiediamo loro di rispettare? Chi è dunque oggi il “malvagio” nella relazione educativa?
    La domanda di Es 13, 14 (“Quando tuo figlio domani ti chiederà: Che significa ciò?”) è la domanda del figlio semplice, che deve ancora sapere tutto (chiede cosa significa “tutto ciò”) e che dunque deve essere erudito sui fondamenti della fede. Si tratta del ragazzo che ci si mette di fronte in tutta la sua (apparente) ignoranza, ma che proprio nel suo “sapere di non sapere”, messo in evidenza dalla domanda, dimostra di saper stare in una relazione educativa. La vera ignoranza dunque non è di chi non sa, ma di chi non è capace di mettersi alla ricerca di quella specifica relazione che lo porterà alla conoscenza. Saper cogliere il desiderio di imparare nei giovani è la prima tappa (ineludibile) per poter far loro capire che la loro mancanza di conoscenza non è una colpa o una vergogna, ma l’unico vero stimolo perché la relazione educativa possa davvero accendersi.
    Infine la domanda assente di Es 13,8 (”In quel giorno tu istruirai tuo figlio”) rappresenta il quarto figlio, quello che non sa ancora domandare, e che dunque è colui che maggiormente ha bisogno dell’adulto perché saper porre le domande è ancora più importante che conoscere le risposte. Si tratta forse del figlio più importante, il prototipo del figlio che nel suo non sapere responsabilizza il padre e mette in movimento il processo educativo. Il quarto figlio è il giovane che non solo non sa, ma non sa di non sapere; non è arrogante né presuntuoso, è però perso nel mare dei codici e dei linguaggi e non ha (o non ha mai avuto) una guida. Occorre allora che il padre lo guidi alla domanda, e si tratta dell’operazione educativa e pedagogica più difficile ma anche più entusiasmante. Siamo sempre un po’ depressi quando ci capita di ascoltare insegnanti che si lamentano perché “i ragazzi non sono motivati ad apprendere”; la motivazione è tutta nelle mano del docente, è l’educatore a doverla far scattare e a saper usare stimoli differenti per ogni ragazzo. Per far scattare la scintilla che spinge ad imparare e a desiderare di farlo occorre il calore di una relazione umana, unica e inimitabile, come quella tra maestro e allievo, e le professionali competenze che sono specifiche e tipiche di ogni educatore. Insegnare a domandare è il compito del vero educatore, e il quarto figlio rappresenta allora le generazioni di giovani che ci stanno di fronte, letteralmente aggrediti da un mercato (anche educativo: basta partecipare a un open day di qualche scuola superiore o facoltà universitaria) che non solo fornisce tutte le risposte preconfezionate ma letteralmente inibisce la capacità di domandare. Salvo poi ritrovare questi ragazzi muti e sgomenti davanti alle domande senza risposte impacchettate e infiocchettate: quelle sulla morte, sulla generatività, sulla sessualità, sull’odio, sull’amore, sulla felicità e sulla paura: le domande sulle quali si sono da sempre fondate le culture. Domande che sono le stesse alle quali cerca di rispondere il testo biblico, il più delle volte trasformandole in domande aperte e senza risposte definitive. Il quarto figlio ci interroga anche oggi nello sguardo di tanti giovani: quello che serve, oggi come allora, è un rito, un cibo, uno spazio per incontrarsi e una capacità adulta di saper suscitare, con tenera attenzione, le domande più scomode, gli interrogativi più spiazzanti.


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