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    Educare alla carità. Una lettura pedagogica di 1 Cor 13


    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2018-05-50)

    Educare alla carità? Come è possibile? Basta insegnare a dare, a spendersi, a partecipare? Basta dare qualche soldo al mendicante all’angolo o aiutare la signora anziana ad attraversare la strada (comportamenti positivi, a scanso di equivoci). O forse la carità è qualcosa di molto più complesso, non è uno stato d’animo o un affetto ma si colloca al limite tra emozioni e ragione, tra pensiero e azione, su quel territorio mediano tra cognitivo e affettivo che è proprio il terreno d’azione dell’educatore? Per cui nei due casi sopra citati si cerca anche di fare qualcosa per una gestione più umana e organizzata del bisogno e si chiede all’Amministrazione comunale di illuminare meglio l’attraversamento stradale? Proviamo a riflettere sul testo paolino cercando di assegnare a ciascuna delle qualità attribuite alla carità una declinazione pedagogica ed educativa…

    La carità è paziente

    Spesso non vediamo i risultati delle nostre azioni; spesso ci sembra che il male sia più forte del bene, che la sua azione sia più efficace. E se valutiamo le questioni solamente da un punto di vista immediato, probabilmente è vero. Il male non ha bisogno di tempo, agisce nel “tempo reale” dell’attimo presente. Se voglio fare del male a una persona non ho bisogno di conoscerla: so che una pallottola in fronte probabilmente la ucciderà, non perdo tempo a pensare. Se voglio farle del bene devo capire quali siano le cose che le piacciono. La invito a cena? E a quale ristorante? Le faccio un regalo? Ma cosa le piace? Meglio telefonare a un suo amico e chiedere consiglio… la violenza è immediata, l’amore è lento. Nel tempo delle nuove tecnologie che si vantano di cancellare l’attesa è proprio la pazienza a dover essere recuperata come prima e più importante caratteristica dell’agire etico. I risultati arriveranno: ce lo dice l’ottimismo della volontà: ma non possiamo forzare i tempi, dobbiamo imparare a vedere i germogli causati dalle nostre azioni sapendo che forse non arriveremo direttamente a vederne i frutti.

    È benigna la carità

    In questo senso volere il bene significa prendersi il tempo di conoscere l’altro e di capire che cosa sia il bene per lui. Ma essere benigni non significa soddisfare automaticamente i desideri dell’altro come se si fosse davanti a un distributore automatico di carità. Volere il bene dell’altro può significare metterlo di fronte al dubbio, aiutarlo a criticare i propri bisogni quando questi sono indotti o addirittura autodistruttivi. Nella società della “customer satisfaction” non si vede perché a un ragazzo che chiede una dose di crack non si dovrebbe rispondere contattando il suo pusher: del resto, è un suo bisogno, e come possiamo metterlo in dubbio? L’educatore invece sa che quel bisogno è assolutamente dannoso per il soggetto (perché conosce la persona e le circostanze) e che essere benigni significa aiutare a capire il desiderio autentico nascosto dietro al falso bisogno. Educare alla carità significa assumersi la responsabilità di guidare le persone, non imponendo loro bisogni a loro estranei, e aiutandole a cercare dentro se stesse le risposte alle domande che affidano esclusivamente a beni esteriori.

    Non è invidiosa la carità

    Se quello che mi interessa è il bene dell’altro non c’è spazio per l’invidia, perché il mio star bene è legato alla felicità che regalo all’altra persona. L’invidia è il male sociale di una società che ha affidato al possesso degli oggetti, dei capitali e delle merci tutto ciò che ha sottratto alle relazioni tra le persone. Invidiare qualcosa a qualcuno, il suo successo, la sua ricchezza significa escludere ogni relazione umana. Le cose, invece che tramiti e strumenti della relazione, diventano fini a se stesse. Educare alla carità significa vedere al di là dell’orizzonte del possesso; significa capire che se l’altra persona sta bene è anche grazie a noi, e che il senso di avere compiuto una buona azione è così pregno di gioia e di serenità che non lascia spazio al volere-altro.

    Non si vanta, non si gonfia

    Ma spesso la coscienza di avere compiuto una buona azione diventa lo scopo dell’azione medesima. La carità allora diventa eteronoma, il gesto viene compiuto per gloriarsene, per lasciare una traccia nel mondo, per amore del proprio buon nome. La carità è anonima perché non è un appoggio al proprio narcisismo. Occorre saper evitare la Scilla dell’eccessivo autocompiacimento (“ringraziatemi per tutte le belle cose che ho fatto”) ma anche la Cariddi del senso di impotenza (“di fronte ai mali del mondo io non posso fare niente”). Non gloriarsi di ciò che si fa non deve significare non fare nulla, annientarsi nella depressione; anche il Buon Samaritano non si vanta di ciò che ha fatto, ma la sua umiltà consiste nel conoscere i propri limiti: interviene nell’emergenza ma poi affida l’uomo che ha soccorso a una locanda perché sa che non potrà ospitarlo presso di sé la notte. Non chiede ringraziamenti ma non pensa nemmeno a se stesso come a una persona impotente. L’equilibrio tra la conoscenza dei propri talenti e il senso del proprio limite è difficile da raggiungere, ma è l’unica possibilità di sfuggire al delirio di onnipotenza e alla malinconia dell’impotenza.

    Non manca di rispetto

    “Ti sei offeso? Sapessi quante volte hanno detto le stesse cose a me”... frasi come queste ricordano un po’ le sentenze di certi odontoiatri quando il paziente è sulla sedia: “non è possibile che le faccia così male”. Il rispetto dell’altro significa qualcosa di più del fatto di considerarlo come soggetto di diritto; in una società democratica questo dovrebbe essere scontato. Il rispetto significa avere sempre l’altro come unica regola all’interno di una relazione; e la stessa cosa deve ovviamente valere per l’altro. È l’altro a definire i limiti e i confini. Un esempio può essere d’aiuto: quante volte, di fronte a situazioni limite (una morte, una malattia, una separazione) non telefoniamo a una persona con il comodo alibi del “magari vuole restare sola, voglio rispettare il suo pudore”? In realtà stiamo semplicemente sostituendoci all’altro: chiamiamolo e sarà lui a decidere se e come vuole parlare con noi o essere lasciato in pace. Il rispetto è un porsi-davanti all’altro, lasciando semmai a lui la scelta se interloquire con noi accettando la nostra presenza o chiederci di toglierci di mezzo. In questo modo è possibile mostrare rispetto a una persona in stato vegetativo passando un intero pomeriggio a tenerle la mano senza domandarci se e cosa questa persona può percepire della nostra presenza.

    Non cerca il suo interesse

    Educare al servizio: se si vuole che il nostro Paese abbia una classe dirigente futura che si assume il rischio e l’onere di guidarlo in modo serio occorre recuperare l’idea della politica come servizio, anzi l’idea stessa di servizio come modalità privilegiata del rapporto dell’uomo con il mondo e la collettività. Raccogliere su una spiaggia un rifiuto che altre persone hanno lasciato: un gesto senza senso, con mille motivi per non compierlo (“non sono stato io”, “ci deve pensare il bagnino”), ma un gesto sia civico che pedagogico per coloro che vi assistono. Pensare al servizio come modo di stare al mondo non significa annullarsi nell’altro ma scavare tra i propri talenti per capire quali possano essere utili per le altre persone. Significa pensarsi come membro di una società che non è l’homo homini lupus ma l’homo homini homo, nella quale l’umano esiste solo in quanto relazione, in quanto scambio con l’altro; l’interesse egoistico, quando è impulso di autoconservazione, è un elemento vitale, quando invece persegue se stesso a danno degli altri o ignorandone l’esistenza porta al rischio di dissoluzione dei rapporti umani e in ultima analisi di tutto ciò che autenticamente ci rende umani.

    Non si adira

    “Noi che apprestammo il terreno alla gentilezza/ noi non si potè esser gentili”; questa frase da una splendida poesia di Bertolt Brecht (“A coloro che verranno”) ha causato negli anni diversi equivoci. È naturale e anche positivo che l’ingiustizia faccia sentire un senso di indignazione; ma diverso è dire “anche l’ira per l’ingiustizia fa roca la voce”. La storia ha tragicamente dimostrato come la risposta violenza all’ingiustizia e alla prevaricazione sia la levatrice di altra prevaricazione e altra violenza. La violenza è un cancro che corrode dal di dentro chi la perpetra anche a fin di bene: ci si abitua ai toni alti, all’insulto, fino al pugno e al colpo di pistola. Educare alla carità significa educare al tono di voce, alla gentilezza, all’attenzione all’uso delle parole. Non tanto perché il violento si lasci redimere da questo atteggiamento (posizione troppo ottimistica), ma per mettere in campo fisicamente un’alternativa, per mostrare che è possibile comportarsi differentemente, per educare se stessi e soprattutto chi ci osserva alla possibilità reale di un mondo diverso, che si incarna nei nostri gesti. Il mondo redento non nasce dal nulla, abita già nei nostri gesti, nel volume della nostra voce, nel gesto di Jovanotti che alla fine del video “Mi fido di te” si fa consegnare la pistola dalla bambina e la getta nel fiume (inquinandolo… ma questa è un’altra storia)

    Non tiene conto del male ricevuto

    “Vendetta, che inutile cosa”. Il desiderio di vendetta è un sentimento umano e il perdono è una di quelle cose straordinarie che l’essere umano può compiere. Ma per il perdono occorre tempo: quando davanti a un parente di una persona vittima di assassinio o di stupro l’idiota con il microfono chiede “Lei perdona gli assassini di suo padre?”, non si rende conto di quanto il perdono debba crescere al decrescere del dolore provato. Il perdono ha due caratteristiche: deve essere richiesto dalla persona che ha offeso e deve esser comminato dalla persona che ha subito l’offesa. Che poi si possa perdonare anche i non pentiti perché “non sanno quello che fanno” è gesto quasi più che umano, e deve essere apprezzato ma non può essere estorto. In generale nessuno può pretendere di essere perdonato e nella richiesta di perdono è implicita la possibilità di non essere perdonati. Quando la ferita è fresca, quando il male si sente ancora nel corpo e soprattutto nell’anima, chiedere di perdonare è tutt’altro che divino; quando si inizia a fare i conti con il male, quando il suo dolore da fitta acuta e straziante si è trasformato in presenza cronica (mai del tutto si sopirà, soprattutto in certo casi) allora è possibile iniziare a “non tenerne conto”. Non certo nel senso di non desiderare la giustizia o di fare finta che nulla sia accaduto, ma appunto di chiedere giustizia (delegando ad altri il compito di raggiungerla: questo è il primo senso dello Stato di diritto) e lasciando perdere la vendetta.

    Non gode dell'ingiustizia, si compiace della verità

    Giustizia e verità: è difficile tenere insieme queste due dimensioni ma occorre farlo, nei limiti dell’umano. Godere dell’ingiustizia è uno degli atteggiamenti più diabolici che possano essere messi in capo da un essere umano. Renato Guttuso scrisse: “ridere del sangue è persino più grave che spargere il sangue”, e sentire le intercettazioni degli imprenditori che ridevano del terremoto perché pensavano già ai grassi affari che avrebbero potuto ottenere quando la terra ancora tremava è un’esperienza che ci fa capire quali siano i limiti di indecenza ai quali si può spingere l’umano. È la logica del “tanto peggio tanto meglio” per cui, se governa il partito X, il partito Y all’opposizione spera che le cose vadano male per impostare la campagna elettorale. L’ingiustizia è contagiosa, diventa abitudine, diventa incapacità di vedere il male, come il contadino di Treblinka che continuava ad arare il suo campo anche se sentiva perfettamente le urla dei deportati; tanto “ci si abitua a tutto”. La verità è sempre amica della giustizia e richiede la forza di persone incorruttibili; proclamare la verità ha sempre un costo ma è fonte di sicurezza e anche di quel tanto di orgoglio (che non è vanagloria) che permette di guardarsi allo specchio alla mattina e di ripetersi: “etsi omnes ego non!”

    Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.

    Tutto… parola difficile, parola impegnativa, parola che ricorda i totalitarismi o gli integralismi, i deliri di onnipotenza; non possiamo avere tutto, allora meglio non cercare niente, coltivare il proprio orticello, lasciar perdere i propri ideali. L’invito a lasciar passare, a non interessarsi, a capire che non possiamo fare niente per cambiare un mondo così complesso è il veleno che la società adulta inietta goccia dopo goccia nelle vene dei ragazzi e delle ragazze. È invece proprio un pensiero della totalità che ci occorre: non per pensare di poter da soli cambiare il mondo, ma al contrario per capire che solo il concorso di tutti gli esseri umani, ciascuno nel suo specifico ma ciascuno guardando oltre la sua prospettiva, potrà creare un mondo migliore. La carità non ha limiti: l’uomo ne ha e deve imparare a tenerne conto. Ma i limiti di ciascun essere umano sono come la siepe del Leopardi: non cancellano l’infinito ma ci permettono di coglierlo come sentimento, emozione, desiderio. In ogni gesto di carità è racchiuso il mondo nuovo, nell’obolo della vedova c’è la prossima risoluzione dell’Onu che potrebbe cambiare il mondo; e io, piccolo uomo, nel momento in cui faccio il piccolo guardando al grande, “mi riconosco immagine passeggera/presa in un giro immortale”.

    La carità non avrà mai fine…

    … o forse sì. E arriveremo in un mondo nel quale la carità non servirà più, perché andare incontro al fratello sarà normale come respirare, perché il bene dell’altro sarà così prossimo al mio bene che l’egoismo sarà un vecchio e sfocato ricordo, perché saremo giunti finalmente nell’era in cui “all’uomo un aiuto sia l’uomo”. La Redenzione spazza via il vecchio e trasforma la carità in un’abitudine, lo spezzare il pane in un rito, la sofferenza dell’altro in una favola per spaventare i bambini.


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