La “Lettera a Diogneto” per essere attivi nel mondo secondo il Vangelo di Gesù
Marcello Scarpa
(NPG 2020-05-53)
Fino a qualche mese fa il mondo era tutto in movimento, attraversato da un’umanità multicolore che lavorava, viaggiava, s’incontrava nel tempo libero frequentando cinema, ristoranti, parchi pubblici, e così via. Un mosaico di attività che si inseriva in un contesto socio-culturale fortemente globalizzato; i centri cittadini delle grandi capitali mondiali non erano così diversi da quelli delle piccole cittadine di provincia, lo stile di vita consumista era condiviso, seppure a prezzo e qualità differente, dalle diverse fasce della popolazione, l’industria dello spettacolo e della moda dettava il ritmo del tempo libero e dei consumi di massa. Il mondo era a portata di mano, voli aerei e treni ad alta velocità riducevano le distanze geografiche, da un continente all’altro si viveva interconnessi utilizzando stessi strumenti tecnologici e piattaforme social. Resisteva, è ovvio, il fascino del “locale”, che in alcuni luoghi si accendeva di toni orgogliosi o nazionalistici, ma era sempre più percezione comune che la vita, seppure a latitudini diverse, fosse ritmata dagli stessi eventi sportivi, dai medesimi successi musicali, dagli identici format televisivi.
Anche l’escalation virale di questi ultimi mesi non ha cambiato la percezione di vivere immersi nel medesimo scenario, dove i colori di fondo, più cupi e meno lievi, sono uguali ai quattro angoli del pianeta; più o meno la stessa realtà di chiusure di negozi, restrizioni di movimenti ai cittadini, distanziamenti sociali da rispettare. Improvvisamente, come ha evidenziato papa Francesco in una piazza san Pietro vuota, «Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca»,[1] indipendentemente da nazione, religione, status sociale. Viviamo tutti in uno stesso mondo, seppur “capovolto” rispetto a qualche tempo fa, ma in questo mondo “alla rovescia”, in cui continuiamo tutti a fare le stesse cose, seppure diverse da prima, in cosa si differenziano i cristiani? La rottura del precedente modello di vita, il cambio improvviso che è sotto gli occhi di tutti, fa nascere una domanda: la vita cambia, e la vita cristiana? I cristiani vivono come tutti gli altri seguendo l’onda dei cambiamenti del mondo o sono diversi dagli altri? Hanno delle caratteristiche proprie, in cosa consiste l’identità cristiana? A queste domande può aiutarci a rispondere una lettera scritta nel II secolo, quando il diffondersi del cristianesimo all’interno dell’impero romano faceva nascere le stesse domande: Chi sono i cristiani? Cosa hanno di diverso dagli altri? Come vivono, in cosa credono? Domande sempre attuali, soprattutto per l’uomo secolarizzato di oggi che ha perso i contatti con il nucleo vitale della fede.
La lettera a Diogneto
È un piccolo testo di una decina di pagine scritto tra l’inizio del II secolo e prima del 313, quando per i cristiani fu sancita la libertà di culto, sotto forma di lettera diretta al pagano Diogneto, desideroso di conoscere i contenuti della fede cristiana.[2] Diverse ipotesi sono state formulate su autore e destinatario, tutt’oggi ignoti, mentre è ormai riconosciuta la portata più ampia dell’opera, rivolta a quanti sono venuti a contatto con i cristiani, ne hanno osservato la vita e vogliono conoscere i misteri della loro religione. Nella lettera l’autore espone alcuni fondamenti della fede cristiana con uno stile semplice, che a contenuti profondamente spirituali fa corrispondere forme sintetiche e incisive che descrivono in maniera sublime gli elementi costitutivi della vita cristiana. L’opera si articola in quattro parti semplici e lineari, con un’introduzione e una conclusione: I quesiti del pagano Diogneto (Introduzione), Critica del paganesimo e del giudaismo (I parte), Identità dei cristiani e loro rapporto col mondo (II parte), Iniziazione sommaria ai misteri della fede (III parte), La vera conoscenza di Dio e l’imitazione di Lui (IV parte), Missione del Verbo e vita della Chiesa (Conclusione).
Nell’introduzione sono presentati i quesiti del pagano Diogneto, desideroso di conoscere i misteri della fede professata dai cristiani: a quale Dio credono e come lo venerano, i motivi per cui non sono attaccati alle realtà di questo mondo, non temono la morte, non credono nelle divinità dei greci e non osservano le pratiche religiose degli ebrei. Nella prima parte, l’autore critica il paganesimo per il politeismo e il giudaismo per l’esteriorità del culto. La seconda parte, che approfondiremo, è di rara bellezza letteraria; in essa, una serie di paradossi costruiti con l’uso sapiente dell’ars retorica illustra la condizione esistenziale dei cristiani. I cristiani non si distinguono dagli altri uomini per il territorio dove vivono, la lingua che parlano, i vestiti che indossano, il cibo con cui si nutrono; essi, pur essendo incarnati in questo mondo, lo trascendono, perché il loro cuore dimora in cielo. La terza parte, tratta dei misteri della fede cristiana che non sono frutto della ragione umana, ma dono della bontà di Dio che sempre «si mostrò amico degli uomini» (cap. 8,8). La quarta parte è un’esortazione alla conversione, un invito ad imitare l’amore di Dio che ama tutti, e ad amare fattivamente il prossimo con le opere della carità. Nella conclusione l’autore, «divenuto discepolo degli apostoli» (cap. 11,1), presenta la Chiesa come luogo privilegiato dove si prolunga la storia della salvezza custodita nei Vangeli e nella tradizione degli apostoli.
Come gli altri, diversi dagli altri
La seconda parte della lettera a Diogneto si distingue per l’armonia delle forme e la nobiltà dei contenuti.[3] Il cristianesimo non viene presentato con una serie di dogmi e precetti morali, ma come uno stile di vita, una mentalità che affonda le sue radici non nella carnalità di questa terra, ma nella trascendenza del mondo celeste. Di seguito, riportiamo alcune frasi che tratteggiano in maniera suggestiva i cristiani nella loro peculiarità di essere come gli altri, ma anche diversi dagli altri. Essi,
«Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. […] Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. […] Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati e onorano» (cap. 5, 2-15).
Il primo elemento da evidenziare, è che non vi è nessuna contrapposizione fra il mondo e la vita cristiana. Non si tratta di due realtà che si oppongono, piuttosto il campo del mondo va attraversato con animo cristiano. I cristiani non abitano città proprie, non costituiscono gruppi isolati, non si chiudono al resto del mondo, ma si aprono alla totalità del mondo, senza però asservirsi alla logica di questo mondo. Vivono immersi nel mondo, ma non si lasciano sommergere dalle realtà terrene perché hanno un doppio sguardo: uno rivolto alla terra, l’altro al cielo.
Inoltre, i cristiani dappertutto si sentono a casa, vivono con quel lieve distacco che fa apprezzare i beni senza rimanerne prigionieri, come forestieri (oggi diremmo turisti) che ammirano con stupore e meraviglia le bellezze dei luoghi che visitano, ben sapendo che la loro patria è altrove. Non disprezzano i beni terreni, ma non se ne lasciano imprigionare; san Giovanni della Croce esprime questo stesso concetto con una bella immagine: «Poco importa che un uccello sia legato a un filo sottile o grosso; anche se sottile, finché sarà legato, è come se fosse grosso, perché non gli consentirà di volare. È vero che è più facile spezzare il filo sottile; ma anche se facile, finché non lo spezza, non vola».[4] I cristiani anche se dispongono di beni terreni non vi attaccano il cuore che, privo di interessi materiali, resta libero di amare ogni prossimo che incontra sul suo cammino.
I cristiani sono distaccati dalle cose del mondo, ma non vivono ai margini del mondo. Infatti, essi partecipano in maniera attiva alla vita sociale, sono parte integrante della società, non si sottraggono alle responsabilità e ai doveri dei cittadini; sposandosi e generando figli contribuiscono alla crescita del paese in cui vivono, sia in termini di ricchezza economica che di potenza militare; obbedendo alle leggi civili contribuiscono a rafforzare il sistema sociale che illuminano con la legge dell’amore che supera, ma non contraddice, le norme stabilite dalla legge.
Infine, i cristiani sono come l’anima per il corpo, la loro presenza illumina e vivifica il corpo sociale. L’amore cristiano non fa differenze fra le persone, ma valorizza le diverse componenti della società, favorendo l’unità delle parti. Sono poveri, ma abbondano di ricchezze interiori con le quali beneficano le persone che incontrano, le prove della vita non ostacolano l’amore che diffondono, ma lo purificano; anche nelle difficoltà continuano ad amare, essendo l’amore la loro regola di vita.
Come essere attivi nel mondo
La lettera a Diogneto tratteggia in maniera incomparabile la figura dei cristiani. Nonostante l’apparente eguaglianza esteriore con gli altri cittadini, essi possiedono una carica interiore e uno stile di vita luminoso che suscita interrogativi in quanti li osservano. I cristiani non sono esseri insignificanti che vivono rinchiusi in polverose sacrestie, ma sono cittadini attivi che s’impegnano per la costruzione di un mondo migliore. Qual è il segreto che è alla base della loro vita? Di seguito, lasciandoci ispirare dalla Lettera a Diogneto, ne proponiamo una traduzione “ermeneutica”, ovvero una lettura esistenziale per l’oggi.
Non guardare se stessi. Bisogna avere poco peso nello zaino se si vuole camminare speditamente lungo le strade della vita. Un peso sulle spalle fa incurvare lo sguardo a terra, verso di sé, mentre senza pesi il passo è veloce e la vista si volge all’orizzonte. Quante cose inutili ingombrano il nostro cuore. Ricordi, piacevoli o sofferti, che ci legano al passato, desideri o preoccupazioni che ci proiettano nel futuro, con il risultato di avere il cuore che batte sempre altrove, di rimanere assenti dalla vita, inattivi nel presente. Bisogna avere le mani libere, per potersi impegnare nel campo del mondo. Liberi dai condizionamenti del passato e dai timori del futuro per essere attivi nel presente, l’unico tempo che abbiamo per vivere.[5] Guardiamo troppo noi stessi, ma finiamo per restare imbrigliati nei nostri pensieri, perché da soli non riusciamo a capire, a decidere, a spiccare il volo.
Fissare lo sguardo su Gesù. Nonostante l’alta considerazione che abbiamo di noi stessi, in realtà da soli possiamo ben poco; con i nostri occhi possiamo vedere molte cose, ma non potremo mai conoscere il colore dei nostri occhi. Per saperlo, abbiamo bisogno di uno specchio, o di qualcuno che sia veritiero e ce lo dica. Per capire qualcosa della nostra vita abbiamo bisogno di rispecchiarci nelle pagine del Vangelo, di leggere e ascoltare la Parola di Gesù, che è via, verità e vita (cfr. Gv 14,6), e confrontarla con la nostra esistenza. Il Vangelo potrebbe avere un sottotitolo interessante, sempre attuale: manuale d’istruzione per la vita.[6] Quando cerchiamo qualche informazione, subito andiamo online per trovare una risposta. E per la nostra vita, dove ci rivolgiamo, con chi ci confrontiamo? Fissare lo sguardo su Gesù illumina la mente, riscalda il cuore, conforta il cammino.
Nutrirsi di Gesù. Essere cristiani, significa vivere secondo le parole di Gesù, ovvero non solo ascoltarle, ma metterle in pratica concretamente (cfr. Gc 1,22), sui sentieri quotidiani della vita. Come essere cristiani attivi nel mondo? Sappiamo tutti che senza fare benzina un’automobile si ferma. Per poter camminare con l’auto, bisogna fermarsi ad una stazione di rifornimento; se si avesse la pretesa di voler camminare ininterrottamente, prima o poi si resterebbe fermi, col serbatoio vuoto. Anche per poter camminare da cristiani è necessario fermarsi ogni tanto, per fare il pieno e ripartire più spediti che mai. I cristiani per non fermarsi nella vita, fanno il pieno di Gesù; nutrono l’anima con la sua Parola, sostengono il cammino con il pane di vita che ci ha lasciato, l’Eucarestia, con la preghiera dilatano il cuore a misura del prossimo.
Andare incontro al prossimo. L’incontro con Gesù rilancia il cammino verso il prossimo. Il Signore non trattiene egoisticamente a sé, ma invita i suoi amici a guardarsi intorno, a riconoscere i bisogni delle persone, a fare il primo passo nell’andare incontro alle necessità altrui, a impegnarsi per creare una società più giusta e solidale, a prendersi cura degli altri con le opere della carità. Illuminanti, a tale proposito, le parole sempre attuali di san Paolo sul modo concreto di andare incontro al prossimo: «La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1Cor 13, 4-8).
Secondo il vangelo di Gesù
La Lettera a Diogneto potrebbe considerarsi un’esegesi concreta, un’attualizzazione storica del perenne messaggio di salvezza custodito nelle pagine evangeliche. In particolare, faremo riferimento all’episodio dei due discepoli di Emmaus (cfr. Lc 24,13-35), icona di riferimento per i documenti del Sinodo sui giovani, che offre alcune indicazioni utili, ieri come oggi, per un camino di vita cristiana. Lungo la strada che da Gerusalemme porta ad Emmaus, due discepoli con il volto triste e il cuore gonfio di tristezza discutono animatamente degli ultimi giorni della vita di Gesù. Avevano sperato che egli fosse il Messia che avrebbe liberato Israele dall’occupazione dei romani, ma erano rimasti delusi perché Gesù era stato ingiustamente processato, condannato e crocifisso. Da soli, non riuscivano a comprendere il fallimento di Gesù, guardavano se stessi, erano legati alle domande del passato (perché la croce?) e ai desideri che coltivavano per il futuro (un Messia potente).
La situazione sembra bloccata, quand’ecco che Gesù in persona si accosta ai due viandanti, s’inserisce nel dialogo, si affianca, ascolta i loro dubbi e poi spiega ciò che in tutte le Scritture si riferiva a lui; i due discepoli ascoltano con interesse, ma non riconoscono Gesù, perché i loro occhi erano offuscati dall’immagine di un Messia che regnava con il potere, non con il servizio. Poco alla volta, i due discepoli si lasciano avvolgere dalla trama narrativa di Gesù, danno credito alle sue parole o, detto in altro modo, non guardano più se stessi, ma fissano lo sguardo su Gesù, che modifica il loro punto di vista. Il Messia non è venuto a dominare il mondo con la forza, ma a convertirlo con l’amore. La delusione iniziale dei due discepoli, frutto di false aspettative, viene guarita da Gesù che con le sue parole illumina e accende i cuori: «Non ci ardeva il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24,32).
A fine giornata, quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, Gesù fece come se dovesse andare più lontano. Ma i due discepoli invitarono a cena il loro compagno di viaggio: «“Resta con noi perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto”. Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora ai due discepoli si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista» (Lc 24,31). È il mistero della fede cristiana. Gesù si fa invisibile agli occhi, ma si rende presente ovunque nel mondo nell’Eucarestia. Quando si va in profondità nel dialogo con Gesù, si scopre che egli vuole donare se stesso come cibo di vita eterna, per nutrire il cammino dei suoi amici. Le parole di Gesù sono lampi di luce che illuminano il cammino, ma per camminare speditamente da cristiani bisogna nutrirsi di Gesù, far entrare Cristo nei propri cuori. I due viandanti ripartono subito verso Gerusalemme per raccontare tutto agli altri discepoli, si mettono prontamente in movimento per andare incontro al prossimo, perché hanno scoperto che il segreto per essere cristiani, amici del Signore, è di avere Gesù dentro di sè: nutrendosi del pane eucaristico, si fissano nel cuore le parole del Vangelo e si ha la forza per metterle in pratica giorno dopo giorno. Non guardare se stessi, fissare lo sguardo su Gesù, nutrirsi di Gesù e andare incontro al prossimo, sono gli ingredienti per essere autentici discepoli del Signore, per vivere da cittadini cristiani attivi nel mondo, per condividere con gli altri la gioia del servizio.
NOTE
[1] Papa Francesco, Momento di preghiera in Piazza San Pietro, 27 marzo 2020.
[2] Cfr. Lettera a Diogneto, in: G. Bosio – E. dal Covolo – M. Maritano, Introduzione ai Padri della Chiesa. Secoli I e II, SEI, Torino 1995, pp. 223-239.
[3] Per questo paragrafo, cfr. R. Manes, A Diogneto. Invito alla lettura, Conferenza tenuta all’Università Gregoriana di Roma (9 novembre 2019), in: https://www.youtube.com/watch?v=0ui9g9HC-gw&t=4s (visitato il 10 aprile 2020).
[4] San Giovanni della Croce, Salita al monte Carmelo, Cap. 11, 4.
[5] Cfr. Sant’Agostino, Confessiones, XI, 2.
[6] Cfr. P. Roger, Il Vangelo: istruzioni per l’uso, Paoline, Milano 1996.