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    Ripartiamo da salute e cura

    Silvia Landra *


    P
    er lo meno da una prospettiva lombarda, l’esperienza della pandemia ci ha mostrato come paghiamo duramente le conseguenze di un’organizzazione sociosanitaria da tempo sbilanciata su eccellenze ed emergenze, e invece assai meno attenta a universalità e continuità delle cure a fronte di condizioni di malessere prolungate o invalidanti e di grave emarginazione. Sulla base dell’esperienza di questi mesi appare più condiviso quanto dicevamo da tempo, e cioè che la salute deve essere un criterio che guida e orienta le scelte programmatiche, non ultime quelle economiche, con riferimento all’uso del territorio e alle forme di scambio praticate nell’ambito della collettività. Attraverso la prospettiva della salute si evidenziano bisogni dei singoli e dei diversi gruppi sociali e si possono valorizzare le risorse comunitarie reali e potenziali, pubbliche e private, formali e informali.

    Nella sua accezione di benessere globale del singolo e della comunità, la salute non è una merce da acquistare in un centro specializzato, ma un bene comune, qualcosa in cui è in gioco la ragion d’essere della comunità. Così, non può esserci un solo luogo a cui fare riferimento per la realizzazione del benessere di ciascuno, perché la salute, nella concezione dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) implica una molteplicità di dimensioni: ambiente, benessere fisico, psichico e spirituale, autonomia economica, istruzione e formazione, lavoro e conciliazione dei tempi di vita, relazioni sociali, sicurezza, ecc. La salute non è solo e tanto una questione individuale, ma una costruzione sociale, un bene da perseguire socialmente, l’esito di un preciso disegno di governo delle comunità. Per questo è un banco di prova per un rinnovato esercizio della politica, che la assuma come riferimento primario della propria azione, senza distinzioni di provenienza geografica, censo, genere, livello di istruzione, abilità.
    In particolare, dare attuazione a questa idea di salute richiede la riorganizzazione della cura e lo sviluppo di un’azione politica, ecologica e solidale, che conduca a superare la cultura dello scarto, lo scandalo delle discariche fisiche e umane disseminate nel pianeta cui si continua a rispondere in termini esclusivamente assistenziali e riparativi. Non pensiamo solo a quei luoghi che sono diventati un esempio di degrado a livello globale, come le periferie delle megalopoli del Terzo mondo, ma anche a contesti istituzionali delle nostre città, persino puliti e organizzati, che tuttavia possono raccogliere la tendenza espulsiva di una collettività che estromette e dimentica alcuni dei suoi membri, al punto da non rendersi conto per tempo del rischio di mescolare soggetti sani e soggetti contagiati. È quello che è successo, in Lombardia e probabilmente non solo, a molti anziani o malati non autosufficienti con la cosiddetta “strage nelle RSA”.
    Come gli esperti di varie discipline (economisti, sociologi, operatori dei sistemi sanitari, ecc.) da tempo sottolineano, ci sarà sempre meno salute per tutti se nel mondo si manterranno ampi livelli di sperequazione tra ricchi e poveri in termini di disponibilità di risorse economiche e di sostegno alla vita. Attraverso la pandemia possiamo quindi sentire l’appello a un ribaltamento di prospettiva, passando a una impostazione dei servizi di welfare e delle risposte di cura che parta dai più deboli, trasformandoli da scarti in risorse e da problema in riferimento da cui apprendere come è meglio fare per tutti. A questo scopo è necessario anche ricomprendere la centralità del ruolo delle istituzioni al servizio della comunità e l’importanza di un disegno complessivo che dia evidenza alla funzione della regia pubblica, unitaria e partecipata.

    La comunità protagonista

    Nella nostra società i tradizionali elementi di coesione e di reciproco riconoscimento sociale si sono affievoliti – basti pensare alla provenienza geografica dei membri delle nostre comunità, alla loro cultura e religione, alla lingua e alla storia –, rendendo così indispensabile trovare nuovi e validi riferimenti vitali per sperimentare la forza del benessere che deriva dal sentirsi parte attiva di una comunità solida. Al tempo stesso, i sistemi di welfare sociali e sanitari non dispongono strutturalmente di tutte le risorse finanziarie necessarie per un’azione di effettiva inclusione universalistica. Questo processo non potrà mai essere affidato esclusivamente alle istituzioni, ma deve essere patrimonio e obiettivo dell’intera comunità, di cui le istituzioni sono uno strumento rilevante: la comunità deve rimanere protagonista dei processi di integrazione e ricomposizione sociale e di tutela della salute.
    Un nuovo welfare comunitario è possibile se non vengono dimenticati i principi su cui lo Stato sociale è nato e si è sviluppato: democrazia, partecipazione, riconoscimento reciproco, uguaglianza, solidarietà, pari opportunità per tutti. Ridurre la cura alle sole prestazioni, alle risposte “tecniche”, ha come conseguenza un deterioramento in termini di qualità della vita e di coesione comunitaria. Le diverse riforme che si sono succedute nel tempo riguardo alla scuola, alla sanità, ai servizi sociali e le norme sulla partecipazione dei cittadini e l’organizzazione del territorio hanno tutte la caratteristica della parzialità: senza uno sguardo d’insieme, che significa cogliere le connessioni tra le singole parti del complesso sistema sociale, ogni azione in apparenza riformatrice difficilmente risulta efficace. È necessaria quindi un’alleanza strategica guidata dagli Enti locali, che definisca strumenti idonei alla lettura dei bisogni, all’individuazione degli obiettivi comuni e produca le sintesi possibili. In modo repentino ed emblematico abbiamo assistito in queste settimane a un rimpallo tra Stato e Regioni sulla gestione di mascherine, tamponi, test sierologici, riaperture: abbiamo molta strada da fare per ottimizzare le forze e praticare le “logiche di insieme”, ovvero i metodi politici indispensabili per decidere nella direzione del bene comune, quando questo è chiaro a tutti: nel caso specifico, la migliore combinazione tra la protezione di tutti dal contagio e la scongiura di un crollo economico irreversibile.
    Abbiamo bisogno di strumenti precisi per promuovere un’azione comunitaria dotata di potere. Ne sono un esempio le Case della salute e le altre forme di cure primarie integrate, previste fin dal 2007 da una normativa la cui applicazione è tuttavia sporadica e incompleta. Oggi si limitano spesso a essere associazioni di medici di base del territorio che condividono spazi e servizi infermieristici, ma quando sono attuate completamente diventano contesti di compresenza di servizi pubblici sanitari e sociali, culturali e ricreativi, molto sbilanciati sul territorio e sul domicilio delle persone più fragili, e capaci di valorizzare il protagonismo dei cittadini e delle realtà associative nel promuovere un disegno globale di salute che non deve escludere nessuno. Un altro esempio interessante di politica territoriale innovativa, al momento previsto solo dalla legislazione della Campania, è rappresentato dai “budget di salute”, ovvero la destinazione, oltre una logica prestazionistica e mercantile, di una somma per l’intero progetto della persona fragile, che viene resa protagonista delle modalità con cui spenderla attraverso il coinvolgimento di una rete varia e significativa di soggetti che già la conoscono e si occupano della sua cura.

    Le linee di azione della Casa della carità

    Dopo la pandemia come Casa della carità scegliamo ancora la cura, impegnandoci con uno stile di gratuità senza trascurare criteri di sostenibilità economica. I dati collocano il quartiere milanese in cui siamo situati (Crescenzago) tra le zone di maggiore allarme per quanto riguarda i contagi, a conferma di quanto le condizioni sociali incidano sui tassi di diffusione della malattia.
    In questo contesto ci proponiamo di seguire alcune linee strategiche: privilegiare “il resto”, ovvero coloro che la società ritiene scarti e irrecuperabili. Ci impegniamo persino ad andare a cercare chi non arriva; offrire una cura comunitaria: tutte le competenze sono messe in dialogo, non solo tecniche, ma anche umane, sociali e relazionali che vengono dal volontariato e dai contesti di vita fraterna, dai luoghi del discernimento culturale, ecclesiale e politico; monitorare e fare ricerca: dialogare con tutti, nei diversi linguaggi già collaudati che istituzioni, società e luoghi accademici richiedono; articolare impegno e spiritualità, anche nella prospettiva del dialogo tra fedi e religioni.
    Concepiamo azioni che possano promuovere cultura (la “carità intelligente”), intesa come sete di sapere e conoscenza dei dati reali dei fenomeni; che possano promuovere politica (“tanti piccoli luoghi solidali che fanno la città”), intesa come identificazione di buone pratiche e di logiche per la gestione della cosa pubblica che nascano dal confine; che possano promuovere spiritualità (la “carità eccedente”), intesa come capacità di rendere conto con la nostra vita del dono che i più svantaggiati fanno a tutti gli altri, ovvero comprensione del significato teologico dei poveri e della povertà riconosciuta in noi.
    Infine intendiamo promuovere percorsi formativi che permettano scambio di saperi e di esperienze in una logica di costruzione di nuovi paradigmi di cura che ridefiniscano le forme della domanda e dell’offerta secondo il principio dell’aver cura e non dell’erogazione standardizzata di una risposta su una domanda preconfezionata. Servono competenze nuove per tutte le figure che si occupano di relazioni di cura per favorire la responsabilità di ogni soggetto, per sostenere ciascuno nell’assunzione delle proprie responsabilità nella ricerca del benessere proprio e altrui.

    Per ripartire

    La salute promossa dalla comunità, nelle sue diverse espressioni, è la scommessa del futuro prossimo, la leva principale sulla quale ricostruire legami, coesione, nuova reciprocità tra i cittadini e tra tutti gli esseri viventi nell’ambiente che li ospita. Siamo consapevoli che non possiamo realizzare tutto questo da soli: non possiamo che auspicare nuove generazioni di cittadini protagonisti, di operatori e di amministratori locali capaci di cogliere e realizzare connessioni, di sconfinare tra le professionalità senza sbiadire la solidità dei saperi, di offrire risposte complesse a problemi complessi e non semplificazioni improduttive.
    Sosteniamo con particolare forza il neonato movimento “Prima la comunità”, che proprio nel mese di maggio 2020 ha rivolto un appello ribadendo idee e valori della medicina territoriale, a cui hanno già aderito decine di associazioni di operatori, sindacati, organizzazioni del Terzo settore e singoli cittadini con responsabilità rilevanti.
    Facendo tesoro dell’esperienza di ospitalità di alcune decine di persone COVID-positive (asintomatiche o paucisintomatiche) con problematiche fisiche e di salute mentale, stiamo altresì scegliendo di realizzare una forma sperimentale di Casa della salute per le persone vulnerabili, in alleanza con la sanità pubblica e sviluppando una attività di ricerca e puntuale verifica in collaborazione con gli esperti dell’Istituto Mario Negri. Ci impegniamo in dialoghi per ideare e formare nuove figure traversali alle diverse istituzioni in grado di garantire ascolto e connessioni tra problemi e risorse.

    * Psichiatra e responsabile della formazione presso la Casa della carità di Milano

    (FONTE: Aggiornamenti Sociali giugno-luglio 2020 (456-460)


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