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    Verso la vera giovinezza


    Frère John di Taizé

    (NPG 2019-06-29)


     

    Come ha detto frère Alois, vorrei continuare la nostra riflessione con una lettura più sistematica dell’esortazione Christus vivit di Papa Francesco, mettendo poi l’accento sul compito della pastorale giovanile nel mondo europeo odierno e ispirandomi anche, ovviamente, alle nostre esperienze con l’accoglienza dei giovani a Taizé.

    La giovinezza è uno stato del cuore

    Alla lettura dell’esortazione papale, ciò che mi ha colpito di più è stato il fatto che, per Papa Francesco, la giovinezza non è innanzitutto una questione di età cronologica, ma un atteggiamento fondamentale dell’essere umano, forse più forte all’inizio della vita ma accessibile in ogni momento dell’esistenza. Il Papa lo dice con parole chiare nel secondo capitolo del testo: “Essere giovani, più che un’età, è uno stato del cuore” (34)[1]. Qual è questo atteggiamento che il Papa chiama la vera giovinezza?
    Lo vediamo dapprima negli esempi biblici proposti all’inizio del testo. Si tratta di sincerità (l’esempio è quello di Gedeone, 7), l’attenzione al cuore più che alla forza fisica o al tentativo d’impressionare gli altri (Davide, 9), audacia e freschezza (Geremia, 10), generosità (Rut, 11), disponibilità al cambiamento (figliol prodigo, 12). Il Nuovo Testamento descrive la giovenezza come “un cuore capace di amare” (13), la capacità di “sognare grandi cose, cercare orizzonti ampi, osare di più, aver voglia di conquistare il mondo, saper accettare proposte impegnative e voler dare il meglio di sé per costruire qualcosa di migliore” (15). E il Papa fa una lettura appassionante del racconto del giovane ricco (Mt 19,16-22): all’inizio, quel giovane aveva “quello spirito aperto tipico dei giovani, alla ricerca di nuovi orizzonti e grandi sfide.” Ma, alla fine, non era capace di staccarsi dalle sue richezze e dalle sue comodità. Commenta Papa Francesco: “Aveva rinunciato alla sua giovinezza” (19).
    Più volte nel testo, il Papa esorta i giovani, con delle immagini suggestive e umoristiche, a non perdere questo spirito di apertura alla vita che è la vera giovinezza: “non osservate la vita dal balcone... non siate auto parcheggiate... non andate in pensione prima del tempo” (143, 174). Se ti chiudi in te stesso nelle lamentele e nelle comodità, dice, “diventerai vecchio dentro e prima del tempo” (166). E fa questa confidenza: “Quando ho iniziato il mio ministero come Papa - quindi all’età di 76 anni - il Signore mi ha dato una rinnovata giovinezza” (160).
    Ancora, citando il Concilio Vaticano II, per Papa Francesco essere giovani implica “la capacità di rallegrarsi per ciò che comincia, di darsi senza ritorno, di rinnovarsi e di ripartire per nuove conquiste” (37). Comporta “una sana inquietudine” (138), “la voglia di vivere e di sperimentare” (144-149) senza paura di commettere errori (142, cf. 198, 233). In breve, è uno spirito di apertura verso la vita nella fiducia e senza paura, una libertà interiore che permette di crescere e di fare scelte radicali.

    Una società di orfani

    Se questo è l’essere giovani, è ovvio che la società odierna non lo favorisce, anzi, non sarebbe esagerato dire che il mondo attuale impedisca lo sviluppo della vera giovinezza. In Cristus vivit, il Santo Padre non si sofferma sulle caratteristiche del mondo di oggi come lo fa in altri documenti, per esempio nell’analisi del “paradigma tecnocratico” nel terzo capitolo dell’enciclica Laudato Sì. Comunque ci sono indicazioni lievi ma importanti in questa lettera, che si può riassumere con l’espressione “una società di orfani”. Il Papa scrive:

    ... molti giovani... si trovano in una profonda situazione di orfanezza. E non mi riferisco a determinati conflitti familiari, ma ad un’esperienza che riguarda allo stesso modo bambini, giovani e adulti, madri, padri e figli. [...] Molti giovani oggi si sentono figli del fallimento, perché i sogni dei loro genitori e dei loro nonni sono bruciati sul rogo dell’ingiustizia, della violenza sociale, del “si salvi chi può”. Quanto sradicamento! Se i giovani sono cresciuti in un mondo di ceneri, non è facile per loro sostenere il fuoco di grandi desideri e progetti. Se sono cresciuti in un deserto vuoto di significato, come potranno aver voglia di sacrificarsi per seminare? L’esperienza di discontinuità, di sradicamento e la caduta delle certezze di base, favorita dall’odierna cultura mediatica, provocano quella sensazione di profonda orfanezza alla quale dobbiamo rispondere creando spazi fraterni e attraenti dove si viva con un senso. (216)

    Per dirlo in altri termini, per lo sbocciare della vera giovinezza occorre che i giovani abbiano una vera “casa propria” per vivere dei rapporti intimi fondati sulla fiducia, uno spazio di libertà interiore che permetta la scoperta delle radici e della profondità dell’essere. Invece, una società che non offre progetti autentici ai giovani ma esalta soltanto i piaceri effimeri, la competizione per i pochi posti di lavoro e i giocattoli tecnologici crea delle persone, come dice il Papa, anestetizzate dalla banalità (76, 223), sempre insoddisfatte (78), senza un buon rapporto con il proprio corpo (81), rassegnate (141) e ansiose, paralizzate dalla paura di commettere errori (142).
    Ma c’è più. Non contento di impedire lo sviluppo della vera giovinezza, questo “mondo di ceneri” crea a sua immagine una falsa giovinezza, che vediamo esaltata da tutti i mezzi di pubblicità di una società di consumo. Questa società suscita ciò che Papa Francesco chiama giovani “distratti, volando sulla superficie della vita, addormentati, incapaci di coltivare relazioni profonde e di entrare nel cuore della vita” (19), o ancora “soggetti addormentati, dipendenti dal consumo e dalle novità che possiamo comprare, ossessionati dal tempo libero, chiusi nella negatività” (105). Giovani con “una sorta di paralisi decisionale” che “vorrebbero rimanere bambini” (140), frutto di una “cultura del provvisorio” che esclude le responsabilità e gli impegni definitivi (264). Oppure, dall’altro lato, giovani che sono costretti “a divenire adulti prima del tempo” per le carenze degli adulti attorno a loro (262). Se questa è la situazione di molti giovani nelle nostre società, bisogna sottolineare il fatto che tali descrizioni non sono affatto una critica della gioventù in quanto tale – tentazione troppo facile e ingannatrice di molti adulti – bensì quella di una società che non offre ai giovani le basi necessarie per sviluppare correttamente la loro identità.

    Gesù Cristo sempre giovane

    In questa situazione, qual è il ruolo dei cristiani, della Chiesa e, più specificamente, della pastorale giovanile? Prima di rispondere a questa domanda, dobbiamo considerare un’altra dimensione del testo papale. Infatti, Papa Francesco passa da una prospettiva sociologica (“i giovani oggi sono così”) e morale (“i giovani dovrebbero essere così”) a una prospettiva proprio teologica. È Gesù che ci rivela la vera giovinezza. Non soltanto perché lui, Figlio di Dio fatto uomo, ha percorso le tappe della gioventù (23-29), ma perché è “l’eternamente giovane” (13). Nella sua risurrezione “egli è la vera giovinezza di un mondo invecchiato ed è anche la giovinezza di un universo che attende con ‘le doglie del parto’ (Rm 8,22) di essere rivestito della sua luce e della sua vita. Vicino a lui possiamo bere dalla vera sorgente, che mantiene vivi i nostri sogni, i nostri progetti, i nostri grandi ideali, e che ci lancia nell’annuncio della vita che vale la pena vivere” (32). Come ha scritto sant’Ireneo, vescovo di Lione nel secondo secolo, “Cristo, nella sua venuta, ha portato con sé tutta la novità”.[2] “Tutto ciò che Lui tocca diventa giovane, diventa nuovo, si riempie di vita”, dice ancora il Papa (1).
    Quindi la Chiesa ha qualcosa da offrire ai giovani, ma ad una condizione importantissima. La Chiesa è capace di far vivere la vera giovinezza nella misura in cui essa si radica in questa novità perenne che è la vita dello Spirito Santo in noi. Tutta una parte dell’esortazione del Papa parla della necessità di “una Chiesa che si lascia rinnovare” (35-42), una Chiesa giovane, non nel senso che imita le mode di questo mondo, ma perché ritorna continuamente alla sua fonte per ritrovare uno slancio. E l’esempio perfetto di questa Chiesa è Maria, “il grande modello per una Chiesa giovane che vuole seguire Cristo con freschezza e docilità” (43-48). E il rapporto fra Chiesa e giovani è reciproco: il Papa dice anche che “i giovani possono aiutare [la Chiesa] a rimanere giovane” (37) se la Chiesa “si lascia interrogare e stimolare dalla sensibilità dei giovani” (42).

    Il ruolo della Chiesa e della pastorale giovanile: suscitare la vera giovinezza

    Questa analisi semplice e chiara del Papa sembra condurre ad una conclusione ineluttabile: in una società di orfani, con una visione dei giovani che non corrisponde alla verità dell’essere umano, il compito della Chiesa, e della pastorale giovanile in particolare, non è forse di creare spazi che suscitino la vera giovinezza? Si tratta di collaborare alla formazione di giovani che, in primo luogo, ritrovino i valori che, umanamente, dovrebbero appartenere alla loro età ma che sono spesso affogati da una società che invecchia: l’apertura, la capacità di sognare, lo spirito di avventura e di rischio, la disponibilità, in una parola la speranza. Poi, sulla base di questa giovinezza umana ritrovata, i giovani potranno scoprire una giovinezza spirituale e cristiana che farà di loro i protagonisti di una Chiesa e di un mondo rinnovati.
    Nel tempo che mi rimane, vorrei suggerire alcuni aspetti di questi “spazi” da creare per stimolare la vera giovinezza, basandomi sulle parole del Papa e anche sulla nostra esperienza a Taizé, già accennata da frère Alois.

    1. Fiducia
    Per noi a Taizé, la fiducia è una parola importantissima. Quando hanno chiesto a frère Roger, il nostro fondatore, che cosa stiamo vivendo con i giovani se non vogliamo creare un movimento, lui ha risposto: “un pellegrinaggio di fiducia sulla terra”. Siamo convinti che, senza un clima di fiducia, gli esseri umani non possono scoprire la loro vera identità, rimangono bloccati dalla paura e costretti a portare delle maschere. Questa fiducia si radica in un rapporto di fiducia con Dio, ciò che in altri termini si chiama la fede, e conduce alla creazione di rapporti sinceri e profondi con gli altri. Nell’esortazione Christus vivit, il Santo Padre utilizza l’immagine della “casa” per parlare di questi spazi di fiducia[3], luoghi dove sentirsi “uniti agli altri al di là di vincoli utilitaristici o funzionali, uniti in modo da sentire la vita un po’ più umana” nella “fiducia che si alimenta ogni giorno di pazienza e di perdono” (217). E prosegue: “Nelle nostre istituzioni dobbiamo offrire ai giovani luoghi appropriati... luoghi che li accolgano e dove possano recarsi spontaneamente e con fiducia per incontrare altri giovani” in momenti di sofferenza o di gioia (218). Ricordiamo che la parola “parrocchia” in greco, par-oikia, significa la casa di quelli che non hanno casa. Una volta si riferiva al luogo di incontro dei cristiani che si sentivano “stranieri sulla terra”, ma forse oggi potrebbe essere vista come la “casa del Padre” per i figli di una società di orfani.

    2. Amicizia
    La fiducia rende possibile la vera amicizia. Noi lo vediamo a Taizé: molti giovani si sentono soli e sono in ricerca di legami di amicizia che sono profondi e duraturi. E molti dicono che le amicizie che stabiliscono durante una settimana a Taizé resistono all’usura del tempo. Bisogna dire che, anche se offre certi vantaggi a livello della comunicazione, un mondo tecnologicizzato e digitale non aiuta sempre con questa ricerca, tende a creare rapporti superficiali e utilitari. Già nel mondo antico, l’amicizia era considerata un valore necessario per la felicità umana, ma di per sé limitato: la sua natura era vista come un rapporto con poche persone che avevano una certa affinità fra di loro. È solo con il Vangelo di Gesù Cristo che la nozione di un’amicizia universale diventa pensabile. Amici di Gesù, i cristiani devono offrire la loro amicizia a tutti, anche a chi la rifiuta. Nel suo testo, il Papa dedica otto paragrafi all’amicizia (150-157), “un regalo della vita e un dono di Dio” (151), mettendo l’accento sull’amicizia con Gesù che sta alla base dei veri rapporti umani. Essa rende possibile “ai giovani di andare oltre i gruppi di amici e construire l’amicizia sociale, cercare il bene comune” (169). L’amicizia è un valore umano, ma la fede in Cristo, l’amicizia con lui, allarga e approfondisce i rapporti umani. Oggigiorno, non si può dire che l’amicizia diventa un’espressione privilegiata della comunione in Dio?

    3. Crescita
    Il Papa scrive poi che “attraverso gli amici, il Signore ci purifica e ci fa maturare” (151). Gli spazi di fiducia e di amicizia che siamo chiamati a creare non esistono soltanto per stare bene insieme, in un gruppo chiuso che rinforza i pregiudizi di ognuno. Invece vogliono rendere possibile una crescita umana e spirituale dei giovani, che diventino capaci di vivere sempre di più nella realtà, di prendere delle responsabilità e fare delle scelte per la loro vita. Nella sezione del testo su “la crescita e la maturazione” (158-162), Papa Francesco descrive il processo di maturazione come quello di conservare il meglio della gioventù pur aprendosi a nuove sfide e imparando dall’esperienza. “Ci sono cose che hanno bisogno di sedimentarsi negli anni, ma questa maturazione può convivere con un fuoco che si rinnova, con un cuore sempre giovane” (160).
    La crescita personale comporta anche un allargamento degli orizzonti. Il sinodo ha incoraggiato la pastorale giovanile a “creare spazi inclusivi, dove ci sia posto per ogni tipo di giovani e dove si manifesti realmente che siamo una Chiesa con le porte aperte” (234). Dice ancora: “Deve essere spazio anche per tutti quelli che hanno altre visioni della vita, professono altre fedi o si dichiarano estranei all’orizzonte religioso. Tutti i giovani, nessuno escluso, sono nel cuore di Dio e quindi anche nel cuore della Chiesa.” (235). La creazione di spazi inclusivi, dove i giovani possono sperimentare un’amicizia disinteressata con tutti, è un ottimo modo per loro di vivere una “vocazione missionaria”, non nel senso di un proselitismo, ma attraverso una testimonianza della bellezza di una vita di comunione con Dio e con tutti.
    Uno spazio di fiducia permette in più la scoperta e il discernimento di una vocazione, più difficile che mai in un mondo segnato dalla superficialità dei rapporti e di una falsa provvisorietà. “Si tratta... di scoprirsi alla luce di Dio e far fiorire il proprio essere”, dice il Papa (257), “e tirare fuori il meglio di te stesso per la gloria di Dio e per il bene degli altri” (258). Ma questo richiede “quel silenzio interiore in cui si perscepisce lo sguardo di Gesù e si ascolta la sua chiamata” (277). È un compito che richiede spazi di solitudine e di silenzio, perché si tratta di una decisione molto personale che nessun altro può prendere al nostro posto” (283). È sconvolgente notare quanti giovani che vengono a Taizé, quando chiediamo ciò che ha colpito loro di più durante la settimana, parlano del silenzio dentro e fuori dalla preghiera. E non è raro che fanno il paragone con le loro celebrazioni liturgiche a casa dove c’è poco silenzio. In un mondo di rumore ininterrotto, il silenzio diventa un linguaggio privilegiato attraverso il quale Dio ci può parlare. Può sembrare strano a molti adulti, ma i giovani sono attenti a questo linguaggio, quando permettiamo loro di sperimentarlo.

    4 Paternità/maternità
    Per scoprire la loro identità vera e discernere la chiamata di Dio, i giovani hanno anche bisogno di essere accompagnati. Il Papa dedica molto spazio a questo tema di accompagnatori (242-247). Vi consiglio di leggere attentamente il paragrafo 246, dove i giovani stessi “descrivono le caratteristiche che sperano di trovare in chi li accompagna”:

    Un simile accompagnatore dovrebbe possedere alcune qualità: essere un cristiano fedele impegnato nella Chiesa e nel mondo; essere in continua ricerca della santità; essere un confidente che non giudica; ascoltare attivamente i bisogni dei giovani e dare risposte adeguate; essere pieno d’amore e di consapevolezza di sé; riconoscere i propri limiti ed essere esperto delle gioie e dei dolori della vita spirituale. Una qualità di primaria importanza negli accompagnatori è il riconoscimento della propria umanità, ovvero che sono esseri umani e che quindi sbagliano: non persone perfette, ma peccatori perdonati. A volte gli accompagnatori vengono messi su un piedistallo, e la loro caduta può avere effetti devastanti sulla capacità dei giovani di continuare ad impegnarsi nella Chiesa. Gli accompagnatori non dovrebbero guidare i giovani come se questi fossero seguaci passivi, ma camminare al loro fianco, consentendo loro di essere partecipanti attivi del cammino. Dovrebbero rispettare la libertà che fa parte del processo di discernimento di un giovane, fornendo gli strumenti per compierlo al meglio. Un accompagnatore dovrebbe essere profondamente convinto della capacità di un giovane di prendere parte alla vita della Chiesa. Un accompagnatore dovrebbe coltivare i semi della fede nei giovani, senza aspettarsi di vedere immediatamente i frutti dell’opera dello Spirito Santo. Il ruolo di accompagnatore non è e non può essere riservato solo a sacerdoti e a persone consacrate, ma anche i laici dovrebbero essere messi in condizione di ricoprirlo. Tutti gli accompagnatori dovrebbero ricevere una solida formazione di base e impegnarsi nella formazione permanente.

    Qui bisogna collocare il rapporto fra i giovani e le persone adulte e persino anziane. Tutta una sezione di Cristus vivit (187-201) è scritto per spiegare che “al mondo non è mai servita né servirà mai la rottura tra generazioni” (191). Frère Roger, il fondatore di Taizé, già nel suo libro Dinamica del provvisorio, pubblicato più di cinquant’anni fa, scriveva:

    La rottura tra le generazioni si oppone all’ecumenicità e ciascuno ha tutto da perderci, i giovani perché non godono più del beneficio dell’esperienza umana e spirituale acquistia dagli anziani; i meno giovani e i più anziani perché si sono relegati in una situazione in cui non possono più vivere, e aspettano passivamente la morte.[4]

    Papa Francesco incoraggia i giovani a “non perdere il contatto con gli anziani, ad ascoltare la loro esperienza” (188), pur sempre con uno spirito critico (190). A Taizé non abbiamo affatto l’impressione che i giovani rifuitino il dialogo con gli adulti; anzi, sono contenti del loro aiuto e del loro appoggio e hanno voglia di sentire le loro esperienze di vita. Ma è importante che gli adulti trovino lo stile giusto nel dialogo con i giovani e si lascino interpellare, ciò che non viene accettato è un modo di parlare “ex cathedra” e un’incapacità di ascoltare – e talvolta di stare zitti.
    In questo testo, come più volte negli ultimi tempi, e in particolare quando parla della piaga dell’abuso sessuale nella Chiesa, il Papa critica uno spirito di clericalismo, che consiste nel vedere “il ministero ricevuto come un potere da esercitare piuttosto che come un servizio gratuito e generoso da offrire; e ciò conduce a ritenere di appartenere a un gruppo che possiede tutte le risposte e non ha più bisogno di ascoltare e di imparare nulla” (98). Sarebbe comunque un grande peccato se questa critica importantissima del clericalismo dovesse condurre ad una rinuncia da parte dei sacerdoti a esercitare in maniera giusta la loro vocazione. Il rifiuto del clericalismo deve metterci in grado di scoprire una paternità autentica. In una società di orfani, è essenziale che nella Chiesa si riscopra e si sviluppi il vero spirito di paternità e maternità. Papa Francesco lo descrive a meraviglia con un’immagine presa dal Servo di Dio di Secondo Isaia:

    Lo sguardo attento di chi è stato chiamato ad essere padre, pastore e guida dei giovani consiste nell’individuare la piccola fiamma che continua ad ardere, la canna che sembra spezzarsi ma non si è ancora rotta (cfr Is 42,3). È la capacità di individuare percorsi dove altri vedono solo muri, è il saper riconoscere possibilità dove altri vedono solo pericoli. Così è lo sguardo di Dio Padre, capace di valorizzare e alimentare i germi di bene seminati nel cuore dei giovani. (67)

    I giovani hanno bisogno di padri e madri di questo tipo che, attraverso il loro ascolto e il loro accompagnamento, aiutino i giovani a trovare la strada giusta. E l’entusiasmo dei giovani dà forza e speranza a tutta la Chiesa.

    Conclusione

    Nello suo stile semplice, stimolante e amichevole, Papa Francesco ci dà tutto un programma per il rinnovamento della pastorale della Chiesa con le nuove generazioni. È chiaro che questo non è un ripartire da zero, perché molti di questi elementi che abbiamo cercato di mettere in rilievo sono già vissuti da tanti animatori di giovani, preti, suore e laici. In ogni modo, davanti alla tentazione del pessimismo così diffusa oggi, quando in tante parti dell’Europa vediamo le nostre chiese svuotarsi, soprattutto dei giovani, è importante capire che il cammino in avanti non consiste nell’imitare le strategie del mondo attorno a noi, ancora meno nelle false immagini della gioventù veicolate dai massmedia, ma in un vero ritorno alle fonti. A noi di scoprire in Gesù Cristo la vera sorgente della novità, e di seguire l’esempio di Maria, “il grande modello per una Chiesa giovane che vuole seguire Cristo con freschezza e docilità” (43). Così possiamo creare spazi di fiducia e di amicizia dove i giovani potranno collaborare per offrire a un mondo che invecchia la vera speranza e la vera giovinezza.

     

    NOTE

    [1] I numeri fra parentesi si riferiscono ai paragrafi dell’Esortazione Apostolica Postsinodale Christus vivit.
    [2] "Omnem novitatem attulit, semetipsum afferens". Ireneo, Adversus haereses, IV, 34, 1.
    [3] Ci colpisce il fatto che tante persone ci dicono: “Venire a Taizé, anche dopo molti anni, è come tornare a casa”.
    [4] Frère Roger di Taizé, Dinamica del provvisorio, Brescia, Morcelliana 1967, p. 24-25.


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